Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:27

A fare la sintesi delle due settimane di Sinodo per il Medio Oriente ci ha pensato Benedetto XVI nell’omelia della Messa conclusiva. E come fulcro del lavoro dei 173 Padri sinodali ha indicato la comunione. Comunione prima di tutto all’interno della Chiesa cattolica, che, per ragioni storiche, si articola in Medio Oriente in sette riti, sette modalità diverse di celebrare e vivere il mistero, che in alcuni casi corrispondono anche a comunità etniche. Un patrimonio ricchissimo, ma oggi in pericolo, e non solo per ragioni esterne. Di fronte al fondamentalismo islamico la tentazione di chiudersi in se stessi è forte. È il comunitarismo, l’illusione che facendo ciascuno per sé si riusciranno a tutelare meglio i rispettivi interessi. Nel nuovo scenario globale la strategia potrebbe solo ritardare la fine della presenza cristiana in Medio Oriente. Di qui l’insistenza che molti Padri hanno posto sul tema della comunione, che non si riduce a strategia politica, ma è elemento essenziale della vita cristiana. Se i cristiani che vivono in Medio Oriente sono 20 milioni su un totale complessivo di almeno 365 milioni di abitanti, i cattolici non arrivano ai 5 milioni. Ecco perché comunione significa anche, e in un modo del tutto particolare, ecumenismo, soprattutto con le Chiese ortodosse. Chiunque sia stato a Gerusalemme per Pasqua avrà visto che spesso cattolici e ortodossi non la festeggiano nella stessa data. È una divergenza di calendario molto antica, ma che ha un impatto simbolico devastante, soprattutto verso ebrei e musulmani. È per questo che i Padri sinodali hanno espresso l’auspicio di giungere presto a una data di Pasqua condivisa. Una seconda proposta è venuta dal vescovo siro-ortodosso di Aleppo che, dopo aver ricordato il genocidio perpetrato nei confronti della sua comunità e di quella armena, ha proposto di istituire una memoria condivisa dei martiri cristiani del Medio Oriente. I problemi teologici che questa proposta solleva non sono piccoli, ma l’intuizione mi sembra rilevante. «Noi siamo uniti col Signore e così – ha dichiarato il Papa durante il pranzo di conclusione del Sinodo – siamo "trovati" dalla verità. E questa verità non chiude, non pone confini, ma apre». I cristiani, come minoranza creativa, possono diventare artefici di pace in una regione che è dilaniata da numerosi conflitti, quello israelo-palestinese, ma anche la contrapposizione tra musulmani sciiti e sunniti. Molto si è parlato nei giornali occidentali delle dichiarazioni del Sinodo intorno alla questione palestinese. In realtà il documento finale ha semplicemente ribadito la posizione della Santa Sede, che sostiene da sempre la soluzione dei due Stati. Di questo compromesso non vogliono sentir parlare i fondamentalisti islamici, ma neppure alcuni gruppi ebraici ed evangelical che cercano nell’Antico Testamento la giustificazione per una politica oltranzista. Gli opposti fondamentalismi inseguono da decenni il sogno della vittoria totale, dell’annientamento dell’avversario, ma non sono riusciti ad assicurare né pace né sicurezza. È tempo di cambiare e i cristiani mediorientali possono offrire un grande contributo in questo senso. Operare per un allargamento degli spazi di libertà è un secondo campo in cui le minoranze cristiane possono dare un considerevole apporto. La questione riguarda prima di tutto la libertà religiosa, che non si limita alla libertà di culto, ma comprende anche quella di cambiare fede. Questo diritto fondamentale è assente o molto limitato in quasi tutti i Paesi della regione. Una sua decisa estensione, contrariamente a quanto si ritiene generalmente, consentirebbe di rafforzare i tanti esempi di “convivialità” islamo-cristiana che già esistono. Accanto alla mancanza di libertà, la difficile situazione economica, la sperequazione sociale e l’incertezza riguardo al futuro sono altrettante cause di emigrazione, un fenomeno che non tocca solo i cristiani, anche se essi ne risentono in modo speciale per il fatto di essere minoranza. Particolarmente drammatica rimane la situazione in Iraq e Terra Santa, ma il flusso migratorio è consistente in tutti i Paesi dell’area. Ci sono però anche segnali nuovi come il flusso di immigrati asiatici verso i Paesi del Golfo, Cipro e Israele. Molti sono cattolici e, pur vivendo spesso situazioni di estrema precarietà, contribuiscono a mantenere viva la presenza cristiana in Medio Oriente. Già ora si calcola che il loro numero abbia eguagliato quello dei cattolici delle antiche Chiese orientali. In un contesto così complesso, l’unica cosa certa è l’attaccamento alla fede di queste comunità. Eppure molti interventi, e da ultimo il Papa, senza mettere in dubbio questo dato, hanno sottolineato la necessità di una nuova evangelizzazione, nella quale possono giocare un ruolo molto importante i movimenti ecclesiali, purché accettino di inserirsi nella realtà locale secondo le sue specificità. Una delle prime sere in un momento informale, mi è capitato di parlare proprio di questo tema con alcuni esperti. E uno di loro, per farmi capire che a volte anche in Oriente la fede richiede una maggiore personalizzazione, mi ha raccontato una barzelletta. È la storia di un signore che ha sempre mal di testa. Passa da un medico all’altro, senza frutto, finché uno specialista decide di provare ad aprirgli la testa per vedere cosa c’è dentro. Non trova nulla, salvo un filo bianco. Non sapendo che fare, prova a tagliare anche il filo bianco. Il mal di testa non passa, però al signore cadono le orecchie... Alcune volte – commentava il mio interlocutore – il contesto sociale, soprattutto nei Paesi musulmani, spinge i cristiani a fare gruppo, a stringersi gli uni agli altri. È un filo che li tiene uniti. Ma anche lì c’è bisogno di un incontro personale. Sennò prima o poi le orecchie cascano. In altre parole, per non emigrare serve una consapevolezza del senso della propria presenza che vada oltre la semplice appartenenza comunitaria. Che cosa resta del Sinodo ora che i Vescovi sono ritornati ai loro Paesi? Le propositiones prima di tutto, 44 proposte offerte al Papa, prevalentemente di natura pastorale. Ma soprattutto resta viva, l’esperienza di comunione di queste due settimane. Come ha concluso il Papa, «mi sembra forse questo il dono più importante del Sinodo che abbiamo vissuto e realizzato: la comunione che ci collega a tutti e che è anche in sé testimonianza».