L’ultimo attacco israeliano potrebbe cambiare radicalmente gli equilibri politici mediorientali. Ma i rischi connessi, anche per lo Stato ebraico, sono enormi
Ultimo aggiornamento: 19/06/2025 10:51:36
Poco prima che Israele decidesse di attaccare l’Iran, Vali Nasr, influente studioso di affari mediorientali, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista americana Foreign Affairs un saggio intitolato «Il nuovo equilibrio di potenza in Medio Oriente». Secondo Nasr gli ultimi mesi sono stati caratterizzati dal tentativo di Trump di raggiungere un accordo con l’Iran che fosse favorevole agli Stati Uniti e agli alleati del Golfo, mettendo in secondo piano le preferenze israeliane. Tuttavia, scriveva Nasr «affinché questo riallineamento porti davvero pace e stabilità nella regione, gli Stati Uniti devono dare a un nuovo accordo nucleare con l’Iran una cornice strategica più ampia. Un accordo dovrebbe essere raggiunto parallelamente a un impegno a espandere gli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni di Israele non solo con l’Arabia Saudita, ma anche con altri Stati arabi, come la Siria. Per riprendere gli sforzi di normalizzazione con Israele, Riyad chiederà la fine della guerra a Gaza e un futuro politico credibile per i palestinesi. A un altro livello, però, gli Stati Uniti e i loro alleati del Golfo devono considerare la normalizzazione come un complemento necessario sia a un accordo nucleare tra Stati Uniti e Iran sia al crescente asse Iran–Golfo, con questi tre elementi che insieme formano un nuovo equilibrio regionale». Non serve essere grandi esperti di politica mediorientale per intuire che, affinché un tale scenario si realizzi, tantissimi tasselli dovrebbero incastrarsi, in un complesso effetto domino – questa volta positivo – che dovrebbe cominciare con l’uscita dal governo israeliano delle figure più oltranziste. Più semplice, deve aver pensato Benyamin Netanyahu, rimuovere il problema all’origine (la Repubblica Islamica/il suo programma nucleare) e aprire un nuovo fronte della guerra mediorientale. Così, ignorando la famosa massima attribuita a Otto von Bismark, secondo il quale avviare una guerra preventiva equivale alla scelta del suicidio per timore della morte, il primo ministro israeliano ha avviato l’operazione Leone nascente. Il punto però, è che anche questa strada è politicamente tutt’altro che semplice, oltre che moralmente discutibile.
Allo stato attuale non ci sono infatti facili vie d’uscita (le famose off ramp) né per risolvere il problema del programma nucleare iraniano né per raggiungere un accordo che faccia cessare le ostilità. Del resto, già all’inizio dei negoziati tra americani e iraniani osservavamo come il punto di partenza delle controparti fosse così distante da rendere particolarmente difficile il buon esito delle trattative. Washington e Teheran vengono da 40 anni di dissidi, avversione e sfiducia reciproca, ulteriormente acuita dopo il ritiro unilaterale di Trump dal JCPOA nel 2018 e l’uccisione di Qassem Soleimani nel 2020. A questo si aggiunge non solo il fatto che Trump ha espresso posizioni discordanti anche a breve distanza una dall’altra in merito al trattamento da riservare all’Iran, ma anche che all’interno della sua amministrazione coesistono anime e visioni profondamente differenti. Ciò ha significato che mentre l’inviato speciale per i negoziati Steve Witkoff sembrava disponibile a concedere all’Iran una soglia pur minima di arricchimento dell’uranio, altri esponenti come Marco Rubio hanno categoricamente escluso tale possibilità. Inoltre, come ha osservato Riccardo Redaelli recentemente, mentre la squadra negoziale iraniana aveva tutte le competenze necessarie per portare avanti il negoziato, quella americana ne era sprovvista. Tuttavia, è proprio sui dettagli che si giocano trattative iper-tecniche come quelle sul nucleare. A dimostrazione che specialmente su dossier complessi, la volontà politica, da sola, non basta. Trump lo sta sperimentando, suo malgrado, in Medio Oriente e non solo.
Qual è l’obiettivo della guerra
Col passare dei giorni, l’obiettivo israeliano in questa guerra è andato ampliandosi o, sarebbe meglio dire, chiarendosi. Gli israeliani, pur con la netta superiorità tecnologico-militare e l’assistenza americana, sanno che il programma nucleare iraniano non può essere distrutto, ma solo rallentato. Restano allora solo due modi per ottenere lo smantellamento integrale dei progetti atomici di Teheran: firmare un accordo vantaggioso – che assomiglia sempre più a quello che Trump ha iniziato a chiamare “resa incondizionata” – oppure realizzare un cambio di regime. Gli israeliani sembrano puntare via via alla seconda opzione. Il primo ministro ha voluto specificare che Israele non sta facendo la guerra alla popolazione civile, ma allo Stato e ai suoi simboli. Si spiegherebbe così l’attacco, per esempio, alla televisione di Stato (IRIB). Ciò che Netanyahu non dice, però, è che in Iran oltre il 50% dell’economia è nelle mani dello Stato o dei gruppi a esso affiliati come i Guardiani della Rivoluzione. Dunque, ben presto la lotta contro la Repubblica Islamica non potrà che trasformarsi in una guerra che colpirà sempre più i civili iraniani. Gli interrogativi relativi al regime change sono numerosi: il rovesciamento della Repubblica Islamica porterebbe non solo a enormi violenze ma anche a un vuoto di potere spaventoso. Non esiste infatti al momento una reale alternativa politica in Iran. Un’opzione avanzata da alcuni analisti è piuttosto una forma light di colpo di Stato, nella quale figure interne al nizam potrebbero prendere il potere e portare Teheran a firmare una tregua, per poi trasformare il Paese in un regime autoritario “classico”, ripulito dalla componente ideologica rivoluzionaria che a livello interno e internazionale ha causato così tanti problemi.
Il tempismo di Netanyahu
Il primo ministro israeliano ha costruito un’intera carriera politica non solo sulla pretesa di essere il massimo garante della sicurezza dello Stato israeliano, ma anche sulla volontà precisa di impedire che l’Iran si doti di un’arma nucleare. Netanyahu non ha mai creduto nella possibilità di negoziare con gli ayatollah, ma al tempo stesso non si è mai spinto oltre a operazioni come assassini mirati o attacchi informatici. Fino al 7 ottobre 2023. La guerra che ne è conseguita, infatti, ha creato il momento propizio per l’escalation israeliana e se c’è una dote che Netanyahu ha dimostrato di padroneggiare è il tempismo. A partire dal brutale attacco di Hamas, Israele ha smantellato pezzo dopo pezzo il cosiddetto Asse della Resistenza: la capacità operativa di Hamas è pressoché azzerata; Hezbollah è stato ripetutamente colpito e la sua leadership decapitata; la Siria di Bashar al-Asad non esiste più, mentre gli Houthi non costituiscono una reale minaccia per lo Stato ebraico. Inoltre, negli ultimi due anni Israele ha testato la sua capacità di colpire in profondità all’interno del sistema iraniano, senza che questo abbia provocato una risposta iraniana che Israele e i suoi alleati non siano stati in grado di assorbire. Al contrario, durante uno degli ultimi attacchi lo Stato ebraico ha eliminato le più sofisticate difese aeree iraniane, lasciando sguarniti i siti più importanti. Infine, le nefandezze compiute dalle autorità iraniane in oltre 40 anni di Rivoluzione hanno generato un’insoddisfazione di fondo in gran parte della popolazione iraniana, ciò che ha facilitato il reclutamento di agenti sul campo da parte dei servizi di intelligence israeliani. Se si aggiunge che la “vittoria totale” perseguita da Netanyahu nella guerra a Gaza appare fuori portata, a un certo punto l’attacco israeliano è diventato semplicemente la conseguenza quasi naturale di una serie di eventi (che Israele stesso ha propiziato).
I rischi dell’operazione
Per il momento, l’Iran ha limitato le sue risposte al territorio israeliano. La posizione finora assunta dalla Guida Suprema e dai suoi generali (quelli che restano in vita…) è di non provocare un intervento americano che avrebbe conseguenze ancora più dure per la sopravvivenza della Repubblica Islamica, ma al tempo stesso non cedere a un negoziato imposto con la forza. Tuttavia, se l’Iran riterrà credibile l’estensione degli obiettivi israeliani dalla distruzione del programma nucleare al cambio di regime, potrebbe essere spinto a cambiare radicalmente i suoi calcoli. Di fronte alla prospettiva di soccombere, Teheran potrebbe decidere di colpire le basi americane nella regione e i Paesi del Golfo, e bloccare il traffico nello Stretto di Hormuz. Il discorso televisivo di Khamenei andato in onda mercoledì 18 dopo la richiesta americana di resa incondizionata sembra puntare precisamente in questa direzione: se gli Stati Uniti interverranno, ha detto il rahbar, le conseguenze saranno irreparabili.
La Repubblica Islamica non è comunque l’unica ad aver imboccato un sentiero pericoloso. Se gli israeliani non riuscissero a distruggere il programma nucleare iraniano, infatti, Teheran potrebbe considerare che l’unico deterrente rimasto (dopo la sconfitta dell’Asse della Resistenza) è proprio dotarsi dell’arma atomica, sulla scia di quanto fatto per esempio dalla Corea del Nord. Vi sono inoltre i pericoli connessi all’estensione del conflitto in un’area cruciale anche per il funzionamento dell’economia globale. Inoltre, anche qualora l’obiettivo di un cambio di regime fosse raggiunto, resterebbe l’enorme punto interrogativo legato a che tipo di assetto istituzionale si sostituirà alla Repubblica Islamica e quali forze politiche deterranno il potere. I Paesi del Golfo, vicini geograficamente e dunque osservatori più che interessati, hanno specificato che il collasso dell’Iran non è nel loro interesse.
Non mancano alcuni rischi specifici per lo Stato ebraico. Per quanto potente e sostenuto dagli Stati Uniti, Israele resta un piccolo Paese circondato da vicini demograficamente e territorialmente ben più consistenti. Quanto avvenuto dall’ottobre 2023 a Gaza, in Cisgiordania, Libano e Iran ha generato una rinnovata ostilità anti-israeliana tra la popolazione della regione. Se è vero che i vertici di alcuni importanti Stati arabi vedono con favore – senza poterlo dire – l’azione israeliana contro Hamas, Hezbollah e una potenza ostile come l’Iran, è altrettanto vero che anche per regimi autoritari della regione tenere sotto controllo i propri cittadini e le loro rivendicazioni ha un costo non solo politico. Per Paesi come l’Egitto o la Giordania diventa sempre più pericoloso mantenere rapporti ufficiali con Israele. Nel breve periodo è probabile che questo non causi grossi problemi a Tel Aviv. In futuro, però, le cose potrebbero andare diversamente. Un altro rischio in cui incorre Israele è di sprofondare in uno stato perenne di guerra, sospinto dalla convinzione che non ci siano limiti all’esercizio del proprio potere. La presenza al governo di esponenti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, e la diffusione di visioni messianiche tra la società israeliana, puntano precisamente in questa direzione. Come scriveva Ludwig Dehio nel 1948 «i grandi dominatori del continente [sono] sempre minacciati dalla supervalutazione delle proprie possibilità. Poiché in generale la passione del potere, come ogni altra, ha la tendenza a eliminare i controlli e a cagionare una decadenza di colui che ne è invasato»[1]. Questa è la vera minaccia all’esistenza di Israele.
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[1] Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Un problema fondamentale della storia politica moderna, Scholé, Brescia 2025, pp. 152-153. In corso di pubblicazione.