Sconvolto dalla disfatta araba del 1967, il poeta siriano Nizār Qabbānī compone una critica feroce della propria cultura. Parte della sua polemica appartiene al passato, ma la vibrante denuncia dell’autoritarismo non ha perso di attualità. Lo dimostra il successo delle sue poesie tra i manifestanti odierni

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:31

È tra i poeti arabi più amati del Novecento e i suoi versi sono stati cantati da tutte le grandi star della musica araba, da Umm Kulthum a Majida El Roumi, da Fayrouz a Nancy Ajram, all’iracheno Kadim al-Sahir…

 

Nizār Qabbānī, nato a Damasco nel 1923 da una famiglia di commercianti e scomparso a Londra nel 1998, esordisce ad appena 21 anni con una raccolta, La bruna mi disse, che suscita scandalo per il linguaggio esplicito e a tratti scabroso. Dietro la scelta del tema amoroso, che lo renderà celebre, si cela anche la tragedia del suicidio della sorella, di dieci anni più grande, a cui era stato proibito di sposare l’uomo che amava. Il dramma familiare, che si consumò quando Qabbānī aveva 15 anni, lo segna nel profondo e lo renderà particolarmente sensibile alla questione femminile nel mondo arabo.

 

Di professione diplomatico, si ritira dalla vita pubblica nel 1966. Un anno dopo, la Guerra dei Sei Giorni gli impone un brusco cambio di registro, facendolo virare verso temi politici. Come per il suo conterraneo filosofo Sādiq al-‘Azm, che abbiamo tradotto per il prossimo numero di Oasis, la sconfitta totale nella Guerra dei Sei Giorni diventa l’occasione per un’autocritica spietata. Martellata nei versi di Note a margine del copione della sconfitta, entrerà nella memoria collettiva. «Quel che proviamo – scrive Qabbānī – è più grande delle nostre carte: non possiamo non vergognarci delle nostre poesie». Addio quindi al vecchio linguaggio fiorito, sostituito da una lingua scioccante, apparentemente – ma solo apparentemente – identica alla prosa. Quel verso libero che tanti autori arabi hanno tentato senza successo trasformandolo in una infilata amorfa di parole, accapo e spazi bianchi, diventa nella mano del maestro siriano uno strumento implacabile: «Con pifferi e flauti non si vince una guerra», «il nostro impromptu c’è costato cinquantamila nuove tende». E il versetto coranico «voi siete la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini (an-nās)» (3,110) finisce a rimare con il sonnellino, an-nu‘ās.

 

Dovendo scegliere una strofa su tutte, la diciassette: l’apostrofe al sultano che ha perso la guerra due volte perché si è separato dal suo popolo e dalla causa dell’umano. «I tuoi informatori stanno sempre dietro di me, i loro occhi, dietro di me, i loro nasi dietro di me, i loro piedi dietro di me»: lo Stato dei Servizi (Dawlat al-Mukhābarāt) scolpito in versi lapidari che cinquant’anni dopo non hanno perso d’attualità. Unica caduta di tono, almeno a giudizio di chi scrive, la conclusione, l’augurio alla generazione che spunterà di sollevarsi rabbiosamente contro il proprio passato per poter «sconfiggere la sconfitta».

 

Note a margine «fu pubblicata nella più importante rivista letteraria araba, la beirutina al-Ādāb, e le polemiche che suscitò si protrassero per diversi mesi sulle pagine dei giornali. Nella maggior parte delle città arabe, la rivista fu data alle fiamme, in altre ne fu impedita la diffusione»[1]. In particolare fu proibita in Egitto, ma dopo una lettera di protesta dell’autore, Nasser, dimostrandosi in questo migliore del sultano della poesia, dispose che potesse tornare a circolare liberamente. Anche per questa ragione Qabbānī resterà sempre legato al Presidente egiziano, in onore del quale comporrà un vibrante omaggio al momento della morte, nel settembre 1970.

 

Politica e amore s’intrecciano non solo nella produzione letteraria di Qabbānī, ma anche nelle sue vicende biografiche: la sua seconda moglie, Balqīs, rimarrà uccisa nell’attentato all’ambasciata irachena a Beirut nel 1981, in piena guerra civile e la morte strapperà a Qabbānī un’invettiva senza freni. Beirut invece gli ispirerà un canto d’amore, Ya Sitt ad-Dunyā, “O signora del mondo”, in cui scriverà, rivolto alla metropoli levantina: «Ora capiamo che le nostre radici affondano in te, ora capiamo che cosa hanno compiuto le nostre mani». In Note a margine del copione della sconfitta Qabbānī ha dato voce al proprio dolore. Ma come ha scritto, «la rivoluzione nasce dal ventre del dolore».

 

Clicca qui per ascoltare la poesia dalla voce di Nizār Qabbānī

 

Note a margine del copione della sconfitta[2]

 

Addio, amici miei, alla lingua antica

e agli antichi libri,

addio,

al discorso ricamato,

come le vecchie scarpe,

al lessico delle sconcezze, della satira, dell’insulto,

addio, addio,

è morto il pensiero che ci ha portato alla sconfitta.

 

2

Sanno di sale le poesie in bocca,

di sale sanno le trecce delle donne,

e la notte, e i veli, e i seggi,

sanno di sale davanti a noi tutte le cose.

 

3

O patria dolente,

in un attimo mi hai trasformato

da poeta che scriveva d’amore e desìo

a poeta che scrive col coltello.

 

4

Quel che proviamo è più grande delle nostre carte:

non possiamo non vergognarci delle nostre poesie.

 

5

Se abbiamo perso la guerra, nulla di strano,

perché ci siamo entrati

con tutti i talenti retorici che l’orientale possiede,

con le rodomontate[3] che non hanno mai fatto male a una mosca,

perché ci siamo entrati

a suon di tamburelli e rebab[4].

 

6

Il segreto della nostra tragedia?

Sappiamo gridare più forte della nostra voce,

la nostra spada è più lunga della nostra statura.

 

7

Il succo della storia

si condensa in una frase:

abbiamo rivestito la buccia della civiltà,

ma il nostro spirito è rimasto nella jahiliyya[5].

 

8

Con pifferi e flauti

non si vince una guerra.

 

9

Il nostro impromptu c’è costato

cinquantamila nuove tende[6].

 

10

Non maledite il cielo

se vi ha abbandonato.

Non maledite le circostanze

perché Dio dona la vittoria a chi vuole

e voi non avete un fabbro che vi forgi le spade.

 

11

Mi fa male sentire le notizie al mattino,

mi fa male sentire i latrati.

 

12

Non sono entrati dai nostri confini gli ebrei

ma

si sono insinuati come le formiche, attraverso i nostri difetti.

 

13

Cinquemila anni

e siamo ancora nelle cantine.

Abbiamo lunghe le barbe,

le nostre monete nessuno le conosce,

i nostri occhi sono nidi di mosche.

Amici miei,

provate a rompere le porte,

a lavare i vostri pensieri, e gli abiti,

amici miei.

Provate a leggere un libro,

a scrivere un libro,

a seminare le lettere, e i melograni, e l’uva,

a salpare per i paesi dei ghiacci e delle nebbie.

La gente vi ignora, fuori dalle cantine,

la gente vi considera una specie di sciacalli.

 

14

Insensibile ci è divenuta la pelle,

del fallimento si lagna lo spirito,

i nostri giorni passano tra esorcismi, partite a scacchi e un sonnellino,

siamo davvero «la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini?»[7]

 

15

Il petrolio che zampilla nei deserti

poteva diventare un pugnale

di fiamme e fuoco

ma…

Vergogna per i nobili tra i Quraysh,

vergogna per i liberi tra gli Aws e i Nizār[8],

lo lasciamo scorrere sotto i piedi delle concubine.

 

16

Galoppiamo per le strade,

portando sotto braccio le corde,

le attorcigliamo senza pensarci,

frantumiamo i vetri e i catenacci.

Come le rane elogiamo,

come le rane imprechiamo.

Dei nostri nani facciamo eroi,

dei nostri nobili, abbietti,

improvvisiamo l’eroismo come capita,

ce ne stiamo seduti nelle moschee,

pigri, indolenti.

Facciamo a gara in poesia[9], coniamo nuovi proverbi,

e la vittoria sul nemico la mendichiamo

dall’Altissimo.

 

17

Se qualcuno mi desse il salvacondotto,

se potessi incontrare il sultano,

gli direi: «Signor Sultano,

i tuoi mastini da preda hanno lacerato le mie vesti,

i tuoi informatori stanno sempre dietro di me,

i loro occhi dietro di me,

i loro nasi dietro di me,

i loro piedi dietro di me,

inesorabili come il destino, ineluttabili,

interrogano mia moglie,

prendono nota

dei nomi dei miei amici.

O mio sultano,

perché mi sono avvicinato alle tue mura sorde,

perché

ho cercato di manifestare il mio dolore e il mio tormento,

mi hanno preso a scarpate,

i tuoi soldati mi hanno costretto a mangiare delle mie scarpe,

signore.

Signor Sultano,

hai perso la guerra due volte,

perché metà del nostro popolo non ha voce,

e che valore ha un popolo che non ha voce?

Perché metà del nostro popolo

se ne sta rintanata come tante formiche o ratti,

dentro le mura di casa».

Se qualcuno mi desse il salvacondotto

tra i soldati del sultano,

gli direi: «Hai perso la guerra due volte,

perché ti sei separato dalla causa dell’uomo».

 

18

Se non avessimo sepolto l’unità sotto terra,

se non ne avessimo lacerato il corpo fresco con punte di lancia,

se fosse rimasta dentro gli occhi e le ciglia,

i cani non avrebbero potuto divorarci la carne.

 

19

Vogliamo una generazione rabbiosa,

vogliamo una generazione che fenda gli orizzonti,

che rivolti la storia dalle radici,

che rivolti il pensiero dalle profondità,

vogliamo una generazione tesa al futuro,

dai tratti diversi,

che non perdoni gli errori, non lasci correre,

non si pieghi,

non conosca l’ipocrisia,

vogliamo una generazione

di pionieri,

di giganti…

 

20

Bambini,

dal Golfo all’Oceano[10], voi siete le spighe della speranza,

siete la generazione che spezzerà le catene

e distruggerà l’oppio che abbiamo in testa,

le chimere….

Bambini, voi siete – ancora – buoni

e puri, come la rugiada e la neve, puri.

Non leggete della nostra generazione sconfitta, bambini,

perché noi siamo i perdenti.

Siamo come la scorza dell’anguria, inutili,

logori, logori come i sandali,

non leggete le nostre storie,

non seguite le nostre orme,

non accettate le nostre idee.

Noi siamo la generazione della nausea, della sifilide e del colpo di tosse,

noi siamo la generazione dell’imbroglio e dell’equilibrismo.

Bambini,

pioggia di primavera, spighe della speranza,

voi siete semi di fecondità nelle nostre vite sterili,

voi siete la generazione che sconfiggerà la sconfitta.

 

Nizar Qabbani (1923-1998)

 

Traduzione dall’arabo di Martino Diez

 

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[1] Giovanni Canova, Nizār Qabbānī: «La mia storia con la poesia», «Oriente Moderno» 54 n. 4 (1974), p. 69. Nell’articolo, a cui rimandiamo, Canova descrive in modo dettagliato le reazioni del pubblico arabo alla poesia e le lezioni che ne trasse Qabbānī. Allo stesso autore Canova aveva già dedicato un precedente saggio: Nizār Qabbānī: poesie d’amore e di lotta, «Oriente moderno» 52 n. 7-8 (1972), pp. 451-466.
[2] Giovanni Canova ha già offerto una traduzione italiana parziale di questa poesia (strofe 1-11, 17, 19 e parte della 20) in Nizār Qabbānī: «La mia storia con la poesia», «Oriente Moderno» 54 n. 4 (1974), pp. 61-70, in particolare 67-68.
[3] In arabo il riferimento è a ‘Antara, poeta preislamico protagonista di un ciclo epico popolare.
[4] Strumento ad arco da cui deriva la medievale ribèca, antenata del moderno violino.
[5] L’epoca preislamica sinonimo di barbarie.
[6] Le tende dei nuovi profughi, fuggiti durante la guerra dei Sei Giorni.
[7] Cor. 3,110.
[8] Tre tribù arabe preislamiche. I Quraysh diedero i natali a Muhammad.
[9] Il riferimento è a un esercizio virtuoso che consiste nel completare gli emistichi di una data poesia con altri emistichi, verso dopo verso, rispettando rima e metro.
[10] L’espressione indica tutto il mondo arabo, dal Golfo Persico all’Oceano atlantico, dalla Penisola araba al Marocco.

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