Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:14

La settimana si è aperta con la notizia, riportata dal New York Times, di un nuovo piano militare americano per contrastare l’Iran. Il progetto, consegnato a Trump il 9 maggio da un Patrick Shanahan fresco di conferma a Segretario della Difesa, dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, dal Capo di Stato Maggiore Joseph Dunford, dalla direttrice della CIA Gina Haspel e dal direttore dell’intelligence nazionale Dan Coats, prevede l’eventuale invio di un massimo di 120.000 soldati americani (circa la metà rispetto a quelli messi in campo in Iraq nel 2003) in caso di minaccia diretta posta da Teheran.

 

15.1.1 John_Bolton.jpgMentre Trump bolla la notizia come una fake news, l’annunciato cambio di strategia pare in linea con la posizione di John Bolton, uomo forte dell’amministrazione dall’aprile 2018. Secondo il Los Angeles Times  il credo del consigliere americano si può riassumere in tre punti: sfiducia nella diplomazia, ricorso all’opzione militare e volontà di cambiare i regimi, con particolare attenzione alla Corea del Nord, al Venezuela e appunto all’Iran.

 

La revisione del piano militare arriva a pochi giorni dall’inclusione dei pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche, dall’ennesima stretta sulle sanzioni economiche e dal rafforzamento della presenza navale americana nel Golfo. Tutti elementi che l’Iran può sfruttare per coalizzare la popolazione e militarizzare la società in funzione anti-americana, sfruttando a suo vantaggio la retorica del nemico imperialista esterno. Washington rivendica però la liceità delle sue mosse sulla base di alcune scelte azzardate da parte del regime degli ayatollah, nonostante il vice-comandante della coalizione internazionale contro l’Isis Chris Ghika non abbia riscontrato nessun cambio di atteggiamento da parte iraniana né in Iraq né in Siria.

 

In primo luogo, come riporta Reuters, l’Iran ha trasferito missili balistici a corto raggio  a gruppi armati in Iraq vicini a Teheran e in diretto contatto con le forze Quds del generale Qassem Soleimani. I missili, collocati a sud e a ovest del Paese, possono raggiungere Tel Aviv e Riyadh.

 

Un secondo evento da considerare è l’attacco subito da quattro petroliere (due saudite, una emiratina e una norvegese) al largo dell’Emirato di Fujairah (UAE). Secondo l’Economist, alcuni ufficiali americani hanno puntato il dito contro l’Iran, mentre l’ambasciatore statunitense in Arabia Saudita ha preferito chiedere «investigazioni approfondite per capire cosa è successo e perché».

 

Un terzo aspetto da tenere in considerazione è la decisione da parte dell’Iran di sospendere alcuni impegni presi all’interno dell’accordo sul nucleare (JCPOA), pur senza uscirne totalmente. Come ricostruisce Masha Rouhi su Foreign Policy, la scelta è riconducibile a tre fattori principali: l’aumento delle pressioni interne – anche da parte delle forze più moderate – su Rouhani, che aveva scommesso molto sull’accordo, l’immobilismo dell’Unione Europea, il cui canale per aggirare le sanzioni (INSTEX) deve ancora entrare a pieno regime, e la rimozione dei waiver (le deroghe al blocco dell’import di petrolio iraniano) da parte degli Stati Uniti.

 

Le crescenti tensioni e il ritiro di parte del personale americano da Baghdad ed Erbil hanno impensierito non poco gli osservatori internazionali. Il ministro degli esteri britannico Jeremy Hunt si è detto preoccupato e ha invocato un periodo di calma. Anche il collega francese e l’Alto Commissario degli Affari Esteri dell’Unione Europea Federica Mogherini hanno messo in guardia circa una possibile escalation. La Germania e l’Olanda hanno agito più concretamente, decidendo di sospendere l'addestramento dei soldati in Iraq. Sulla stessa lunghezza d’onda c’è la Spagna, che ha optato per il ritiro temporaneo della fregata Mendez Nuñez dal gruppo guidato dalla portaerei USS Abraham Lincoln.

 

15.4.1 Protests_after_US_decision_to_withdraw_from_JCPOA,_around_former_US_embassy,_Tehran_-_8_May_2018_26 [Hossein Mersadi - Farsnews].jpgNonostante le innegabili tensioni, pare prematuro immaginare una guerra fra Washington e Teheran. Entrambi i Paesi, pur dichiarandosi pronti a intervenire, proseguono nelle loro strategie. La “massima pressione” su Teheran invocata da Washington attraverso sanzioni e richieste non sembra possa facilitare il raggiungimento di un nuovo accordo, come evidenzia un panel di analisti che si è confrontato sul tema. Allo stesso tempo anche le frange più radicali attive in Iran, come i Guardiani della Rivoluzione, non sembrano volere un’escalation che culmini in un conflitto.

 

Se lo scoppio di una guerra fra Iran e l’alleanza americano-saudita non pare essere possibile nel breve periodo, anche una distensione, soprattutto fra Teheran e Riyadh appare improbabile. In questo scenario, va perciò positivamente segnalato questo articolo del New York Times in cui l’iraniano Hossein Mousavian e il saudita Abdulaziz Sager identificano alcuni possibili punti di contatto fra il Regno e la Repubblica Islamica, dalla Siria allo Yemen, passando per Libano, Iraq e Bahrain.

 

 

Le dinamiche in Yemen

 

Fra gli eventi che hanno portato all’aumento delle tensioni nella regione vi è anche l’attacco di martedì mattina alle infrastrutture petrolifere saudite che collegano la provincia di al-Sharqiyya al porto di Yanbu sul Mar Rosso. L’attacco, condotto utilizzando sette droni come sempre più spesso accade nel conflitto yemenita, è stato rivendicato dai ribelli houthi attraverso al-Masirah. Il ministro dell’energia saudita Khalid al-Falih e la compagnia di bandiera Saudi Aramco hanno fornito un resoconto in cui si parla di un incendio che ha bloccato per alcune ore l’impianto. I danni sono stati contenuti, ma il portavoce degli houthi Yahya Saree ha definito l’operazione «un successo».

 

Secondo Michael Knights, senior fellow al Washington Institute interpellato da Foreign Policy, è però difficile pensare che i ribelli abbiano agito da soli. Quanto successo alle petroliere e agli oleodotti evidenzia la volontà da parte dei responsabili di inviare un segnale agli Stati Uniti e al contempo di colpire il Regno saudita laddove è più sensibile, ovvero il greggio. Gli attacchi sarebbero quindi orchestrati dall’Iran, che secondo la coalizione a guida saudo-emiratina è il primo sponsor dei ribelli sciiti houthi.

 

In realtà, la vasta rete di proxies su cui può contare Teheran va ben oltre il fattore religioso, che infatti non è sufficiente a spiegare il sostegno a gruppi palestinesi e curdi o a gruppi sciiti dottrinalmente diversi, come gli houthi in Yemen o il governo di Bashar al-Assad in Siria. Secondo Foreign Policy, ciò che spiega il supporto di Teheran a questi attori è la lotta contro un’occupazione straniera, già elemento centrale nella Rivoluzione islamica che portò al potere Khomeini.

 

Gli eventi coincidono anche con il progressivo ritiro delle forze di Ansar Allah, il nome istituzionale degli houthi, dai porti di Hodeidah, Salleh e Ras Issa, secondo quanto previsto dall’accordo di Stoccolma dello scorso dicembre. La missione ONU di supporto (UNMHA) ha certificato la liberazione dei porti; un primo passo per facilitare l’ingresso di aiuti umanitari nel Paese.

 

In altre zone dello Yemen la situazione non sembra però migliorare. Sono in particolare tre le aree da monitorare: al-Dali, dove sono morti decine di civili nell’ultima settimana, Sana’a, colpita da raid aerei sauditi in risposta agli attacchi all’oleodotto, e Socotra.

 

Ed è proprio su quest’ultima isola che si concentra Giorgio Cafiero per Lobe Log. L’arcipelago rappresenta il fulcro delle ambizioni emiratine, a causa della posizione geostrategicamente rilevante all’ingresso del Mar Rosso e di fronte alle coste della Somalia. L’importanza è testimoniata dall’invio di soldati separatisti filo-emiratini – fatto di per sé non nuovo – che ha scatenato le ire del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Se Socotra non ha vissuto le violenze dell’entroterra yemenita, essa rappresenta comunque un elemento che mette a dura prova la tenuta della coalizione saudo-emiratina, come aveva già scritto per noi Eleonora Ardemagni.

 

 

L’Arabia Saudita contro i dissidenti

 

Dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi, le attenzioni del Regno si sono concentrate su altre figure di spicco del mondo dell’attivismo politico, che hanno raccolto l’eredità del dissidente saudita scomparso a Istanbul lo scorso ottobre. Il TIME ha quindi dedicato un approfondimento a tre attivisti che con il loro operato hanno irritato Riyadh a tal punto da dover essere messi in sicurezza.

 

Omar Abdulaziz, residente a Montreal e allertato del pericolo dalle forze di sicurezza canadesi, aveva fornito SIM straniere a dissidenti sauditi per permettere loro di postare su Twitter senza essere tracciati dalle autorità del Regno.

 

Una seconda figura, residente negli Stati Uniti ma rimasta anonima, aveva invece collaborato con Khashoggi su progetti volti a promuovere maggiore trasparenza nei media e sui social in Arabia Saudita.

 

15.5.1 483px-Iyad_El-Baghdadi_-_re-publica_2017.jpgIl terzo attivista è Iyad el-Baghdadi, palestinese rifugiato in Norvegia, dove il 25 aprile le autorità – su indicazione della CIA – lo hanno avvisato del pericolo e trasferito in un luogo sicuro. El-Baghdadi ha raccontato la sua storia durante un incontro a Oslo, poi pubblicato dal Washington Post. Oltre alle critiche verso il governo di Riyadh e al rapporto di amicizia con Khashoggi, ciò che ha infastidito le autorità saudite è il coinvolgimento dell’attivista nelle indagini sulla campagna Twitter contro Jeff Bezos (proprietario fra le altre cose di Amazon e del Washington Post) e sull’hackeraggio del suo telefono. 

 

Come nota el-Baghdadi, Twitter non rappresenta per il Principe ereditario Mohammed Bin Salman solo un social network, ma è un vero e proprio strumento per dare forma allo spazio pubblico, reprimendo il dissenso e veicolando una narrativa in linea con la sua visione.

 

Se però questi attivisti sono stati fortunatamente messi in sicurezza, diversa è la situazione per chi critica il regime dall’interno. È questo il caso di Loujain al-Hathloul, la cui storia è ricostruita su Al Bawaba. La vlogger saudita, dopo essere già stata in prigione per tre mesi nel 2013 per aver guidato, è stata prelevata con la forza a Dubai nel maggio 2018, arrestata e infine torturata fisicamente e psicologicamente. L’ultima udienza del processo è stata cancellata e la famiglia della donna non ha più sue notizie da mesi.

 

 

Gli attacchi in Burkina Faso

 

Lunedì 13 maggio un gruppo di uomini ha attaccato una processione cattolica a Zimtenga, nella provincia di Kongoussi, Burkina Faso. L’attacco si è concluso con quattro morti. Benché non ancora rivendicato, l’obiettivo prescelto e il danneggiamento di una statua della Vergine hanno fatto ipotizzare che si trattasse di militanti islamisti. L’evento sarebbe così collegato con quanto successo il giorno prima, quando alcuni uomini armati hanno assalito una chiesa cattolica, aprendo il fuoco sui fedeli riuniti per celebrare l’Eucaristia. Il bilancio è di sei vittime, fra cui il sacerdote. Gli attacchi arrivano a poche settimane di distanza dall’attacco a una chiesa protestante, conclusosi con la morte di cinque persone.

 

Come ricostruisce il Washington Post, il Paese attraversa una fase critica dal 2016, quando molti jihadisti entrarono dal Mali. La decisione del Pentagono di ritirare parte del contingente presente in Africa desta di conseguenza parecchia preoccupazione negli abitanti, anche alla luce del nuovo fronte aperto dal sedicente Stato Islamico in Burkina Faso. Per Emily Estelle, senior analyst per Critical Threats, «si potrebbero vedere altri attacchi contro chiese e luoghi di culto anche in Paesi a maggioranza cristiana, come il Togo, il Benin e il Ghana».

 

 

IN BREVE

 

Sudan: pur continuando le proteste di strada, i militari e l’opposizione hanno trovato un accordo per formare un consiglio transitorio, che conduca il Paese verso la formazione di un governo civile in tre anni.

 

Libia: come riportato dal quotidiano nazionale Libya Herald, il parlamento di Tobruk, legato a Khalifa Haftar, ha inserito i Fratelli musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche.

 

Pakistan: l’Alta corte di Lahore ha scarcerato Khadim Hussain Rizvi, leader del partito islamista Tehreek-Labaik, precedentemente detenuto con l'accusa di terrorismo. Rizvi era in prima linea contro la liberazione di Asia Bibi.

 

Oman: l’Oman ha deciso di riaprire la propria ambasciata in Iraq, dopo che era stata chiusa nel 1990 in seguito all’invasione del Kuwait.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.