Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:55

La mattina di giovedì 31 gennaio i maggiori esponenti politici e religiosi egiziani hanno firmato presso la residenza dello Shaykh di al-Azhar un documento sul rifiuto della violenza promosso dalla celebre moschea-università. Non è la prima volta che al-Azhar partecipa attivamente alla fase post-rivoluzionaria. Lo aveva già fatto a tre riprese, producendo insieme ad alcuni intellettuali egiziani un documento sul rapporto tra Islam e ordinamento dello Stato, uno sul pieno conseguimento dei fini della Rivoluzione e uno sulle libertà pubbliche. Fino a pochi giorni fa, negli ambienti vicini allo Shaykh Ahmed al-Tayyeb, si parlava della preparazione di un quarto documento, incentrato sul ruolo e sullo statuto della donna, ma ancora fermo a una prima bozza a causa di alcune forti divergenze tra gli ‘ulamâ’ della moschea. Il precipitare della situazione del Paese dopo i fatti di Port Said deve aver modificato le priorità dello Shaykh e dei suoi consiglieri, convincendoli a produrre una nota che, a differenza delle precedenti, coinvolge direttamente le forze politiche e punta a rispondere a una situazione contingente più che a suscitare un dibattito nazionale su un tema di grande rilevanza pubblica. Nella lettera, il contenuto della dichiarazione prodotta ieri potrebbe quasi suonare banale. Vi si afferma in dieci punti il rifiuto più assoluto di ogni forma di violenza, materiale, morale, simbolica, contro le persone e contro i beni, l’impegno a svolgere la propria azione politica con mezzi pacifici e nel rispetto del pluralismo. Semmai, dall’enunciazione delle varie espressioni di violenza cui si fa riferimento nel testo (spargimento di sangue, attacchi, diffamazioni, diffusione di voci tendenziose), si intuisce quanto sulle rive del Nilo si fosse esacerbato il confronto politico. Naturalmente è difficile valutare lo spirito con cui i vari soggetti hanno aderito al documento, e per molti di essi non è da escludere una buona dose di opportunismo. Tra i firmatari figurano infatti personalità che vanno dal neo-eletto Papa copto Tawadros II, il quale ha già dato prova di grande magnanimità (nel senso letterale del termine) e apertura, ai dirigenti di movimenti e forze politiche come i Fratelli musulmani o i salafiti che, direttamente o indirettamente, la violenza condannata dal documento l’hanno finora pratica. Potrebbe tuttavia non trattarsi di un atto puramente formale. Se si escludono i gloriosi momenti di unità delle battute rivoluzionarie iniziali, è infatti la prima volta che i vari protagonisti della scena politica egiziana post-Mubarak si trovano d’accordo su alcuni principi fondamentali, dopo che gli islamisti avevano malauguratamente scelto di riscrivere la Costituzione del Paese senza coinvolgere l’opposizione e che, negli ultimi giorni, quest’ultima aveva adottato la linea della fermezza assoluta respingendo gli inviti al confronto e alla collaborazione del partito del Presidente Morsi. Certo, il rifiuto della violenza è una base quanto mai minima di intesa, oltre la quale cessa la possibilità stessa di una politica degna di questo nome e inizia la guerra vera e propria. Ma il consenso raggiunto su questo punto, fosse anche in maniera molto precaria, potrebbe aver evitato il superamento di un punto di non ritorno. In tutto ciò è significativo che l’iniziativa sia partita da al-Azhar. In una fase di scontro politico durissimo e mentre il Paese corre il rischio di finire nel caos, la moschea, la cui capacità effettiva di incidere sulla società egiziana resta comunque difficile da misurare, si pone come l’unica istituzione in grado di mediare tra le varie anime del Paese, garantendo allo stesso tempo un’indiscutibile fedeltà all’Islam (e ci mancherebbe) e, finché l’attuale shaykh sarà in carica, il rifiuto di letture fondamentaliste. Allo stesso tempo, la mossa di al-Azhar è probabilmente parte di una difficile partita che lo Shaykh al-Tayyeb, sostenuto dall’élite liberale egiziana, sta giocando con i Fratelli musulmani. La posta in gioco è duplice: l’indipendenza della moschea dal potere politico, e quindi il permanere di uno spazio, tra l’altro altamente simbolico, non confiscato dalla Fratellanza, e l’interpretazione dell’Islam. Quella fornita dai Fratelli musulmani è riassumibile nella formula min al-‘ibâda ilà al-qiyâda (traducibile con “dal culto all’egemonia”), coniata qualche tempo fa dal quotidiano egiziano Al-Masry al-Yawm. Quella dell’imam al-Tayyeb si ispira invece a un Islam devoto, radicato nella tradizione sunnita, ma aperto al confronto con altre visioni del mondo e soprattutto attento a mantenere una distanza di sicurezza dalla lotta politica. L’esito della rivoluzione dipenderà anche da questi conflitti ermeneutici.