Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:32

Di cosa parliamo questa settimana:

  • l'incontro tra Mohammad bin Salman e Benjamin Netanyahu
  • il futuro dei rapporti tra Iran e Stati Uniti
  • le tensioni interne in Egitto e i rapporti tesi con i Paesi vicini
  • la Francia e la "crisi dell'Islam"

 

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è volato in Arabia Saudita per un incontro con il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MbS), il segretario di Stato americano Mike Pompeo e il capo del Mossad Yossi Cohen. L’incontro è avvenuto nella città futuristica di Neom in costruzione nel nordovest dell’Arabia Saudita, e anche se Riad ha negato che l’appuntamento abbia mai avuto luogo, due funzionari sauditi hanno rivelato al Wall Street Journal che MbS e Netanyahu hanno discusso delle relazioni con l’Iran e della normalizzazione tra lo Stato ebraico e i Paesi del Golfo, ma nessun tipo di accordo è stato raggiunto.

 

L’abboccamento è avvenuto dopo un’intervista in cui il ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan, dichiarava che l’Arabia Saudita ha «sostenuto la normalizzazione con Israele per molto tempo, ma prima deve accadere una cosa molto importante: un accordo di pace permanente e completo tra israeliani e palestinesi».

 

Da tempo esistono legami tra Riad e Tel Aviv, ma ora l’elezione di Biden potrebbe rimescolare le carte nel Golfo. Secondo Aziz Al-Ghashian stiamo assistendo a «una normalizzazione a piccoli passi, piccoli passi che sembrano accelerare» perché, secondo una regola non scritta che riguarda i rapporti con gli Stati Uniti, «la cosa più preziosa che Israele può offrire non sono armi o intelligence, è la sua influenza a Washington», ha aggiunto Al-Ghashian. Anche Foreign Policy concorda: obiettivo di MbS e Netanyahu è ora fare fronte comune contro la politica di Biden in Medio Oriente, che sarà probabilmente orientata a «un ritorno alle familiari linee politiche adottate da Obama, tra cui il contenimento del conflitto con l’Iran, la simpatia per i palestinesi e l’attenzione per i diritti umani. È chiaro che Netanyahu e Mohammed bin Salman condividono alcune profonde preoccupazioni prima della partenza di Trump, ha detto Ebtesam al-Ketbi, presidente dell’Emirates Policy Center di Abu Dhabi: «Vogliono essere sicuri che ciò che Biden farà non influirà sui loro reciproci interessi».

 

Più cauto è Middle East Eye. Sicuramente a MbS e ai sauditi non interessano i palestinesi, scrive il sito filo-qatariota: «In un raro sondaggio d’opinione condotto in agosto dal pro-israeliano Washington Institute, ai sauditi è stato chiesto di indicare la loro prima scelta tra quattro possibili priorità per la politica americana nella regione. Solo il 23 per cento ha scelto di “promuovere una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese”. La maggioranza ha optato per altre opzioni: contenere l’Iran, porre fine alle guerre in Yemen e in Libia e difendere il popolo siriano». Una normalizzazione troppo rapida con Israele potrebbe comunque ritorcersi contro MbS, che deve tenere in considerazione l’opinione dei religiosi, delle frange conservatrici e, non da ultimo, di suo padre, re Salman, che finché sarà in vita continuerà a sostenere la causa palestinese.

 

La questione quindi non tocca solo i rapporti diplomatici tra Paesi, ma riguarda anche un cambio di paradigma nell’opinione pubblica, di cui scrive Middle East Monitor, che poi aggiunge: «Possiamo dire che l’incontro abbia riunito coloro che ci stanno rimettendo a causa della partenza di Trump al fine di accordarsi sulla prossima fase. Questo è di immediata importanza, ma fa parte di un contesto più ampio; un’alleanza del genere deve essere stata creata in incontri precedenti, tra le stesse persone e ad altri livelli».

 

Poco dopo la partenza di Netanyahu dall’aeroporto di Neom, gli houthi dello Yemen hanno lanciato un missile contro un giacimento di petrolio a Gedda e come scrive Al Monitor, questo ennesimo attacco, che non ha provocato danni gravi, è «un’eccellente dimostrazione del fatto che il cambio della guardia a Washington crea un clima molto pericoloso e instabile in Medio Oriente».

 

Intanto più in sordina è arrivata la notizia che la compagnia israeliana NSO ha venduto il proprio spyware Pegasus (che permette di hackerare i cellulari) ai diversi regni del Golfo, tra cui il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, Oman e l’Arabia Saudita. Avevamo già parlato di questo spyware, utilizzato anche dal governo marocchino contro attivisti e giornalisti indipendenti. Spiega infatti Haaretz che «la società lavora solo con le autorità statali, ma non fa distinzione tra democrazie e dittature, come nel Golfo; nonostante le sue pretese, fa poco per controllare come viene utilizzata la sua tecnologia. Israele ha messo in contatto l’NSO con gli stati arabi della regione, e i rappresentanti israeliani hanno anche partecipato a riunioni di marketing tra i funzionari dei servizi segreti degli stati arabi e i dirigenti dell’NSO».

 

Distensione tra Iran e USA

 

Nell’equazione dei rapporti tra Stati Uniti e Medio Oriente non si può tralasciare l’Iran, che si muove sul fronte opposto rispetto ad Arabia Saudita e Israele. Negli ultimi giorni i toni della Repubblica islamica sono stati meno aggressivi. Mercoledì il presidente Hassan Rouhani ha detto che la relazione tra Washington e Teheran potrebbe tornare alla situazione precedente l’elezione di Donald Trump, auspicando «la prossima amministrazione americana condanni esplicitamente le politiche di Trump in Iran».

 

Ricorda L’Orient-Le Jour che questo sviluppo segue un’inchiesta del New York Times secondo cui Trump avrebbe chiesto «ai suoi consiglieri quali fossero le opzioni per intraprendere un’azione militare contro il principale sito nucleare iraniano, quello di Natanz». Visto che il fronte anti-iraniano si sta compattando e tenuto conto dell’imprevedibilità di Trump, le ultime giornate della sua presidenza sono vissute con una certa tensione, continua il quotidiano libanese. Ancora una volta, però, lo sforzo è orientato a fermare l’escalation: «Esmaïl Ghani, comandante dell’unità d’élite al-Quds all’interno delle Guardie rivoluzionarie iraniane e successore di Qassem Soleimani, si è recato mercoledì a Baghdad per ordinare alle fazioni irachene alleate dell’Iran di porre fine agli attacchi contro gli interessi americani nel Paese».

 

Se invece il fronte anti-iraniano riuscisse a generare un’escalation, sarebbe difficile per Biden giustificare una politica più morbida nei confronti dell’Iran, scrive Middle East Eye, ed è probabilmente in questo senso che va letta anche la più recente imposizione di sanzioni sull’Iran da parte americana. Anche Orient XXI descrive i tanti ostacoli che dovrà affrontare il futuro presidente democratico: oltre alla revoca delle sanzioni, l’opposizione interna popolata da “falchi” vicini a Israele, nonché l’incognita delle prossime elezioni presidenziali che si terranno in Iran a giugno 2021.

 

È invece notizia dell’ultima ora un nuovo assassinio a Teheran. Questa volta a essere ucciso è stato Mohsen Fakhrizadeh, scienziato che ha avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo del programma nucleare iraniano. L’assassinio è stato confermato dal ministero della Difesa, che ha chiamato Fakhrizadeh “martire”. Israele non ha commentato la notizia, ma Haaretz sottolinea che Netanyahu suggerì, durante una conferenza stampa nel 2018, di tenere a mente il nome di Fakhrizadeh.

 

In un paragrafo

 

L’Egitto e i suoi vicini

 

In Egitto continuano le condanne a morte e la generale repressione di attivisti e politici, molti dei quali legati ai Fratelli musulmani. Dopo l’ultima tornata di arresti, lo staff di Biden ha twittato dichiarazioni che sembrano indicare un cambio di rotta rispetto all’amministrazione Trump e secondo il Washington Post il nuovo presidente dovrà ripensare i rapporti con al-Sisi se vuole promuovere i diritti umani. Mentre secondo Orient XXI la moschea di al-Azhar «sembra oggi l’unica a sfuggire al controllo del presidente Sisi». Per l’Egitto al momento le preoccupazioni riguardano soprattutto la politica estera: con il Sudan si sono svolte esercitazioni militari congiunte, in un crescere di tensioni con l’Etiopia per la Grande diga del Rinascimento, ma anche per cercare di contrastare la sempre più capillare penetrazione turca nel Corno d’Africa. Inoltre nella vicina Etiopia la guerra condotta contro il Tigrè sembra complicarsi sempre più.

 

La Francia e la “crisi dell’Islam”

 

Mustapha Akyol su Foreign Policy ammette che l’Islam sia in crisi, riprendendo le parole del presidente francese Emmanuel Macron, ma aggiunge che «purtroppo, Macron sta facendo poco per risolvere questa crisi e potrebbe in realtà alimentarla, perché il tipo di libertà che pretende di difendere è pieno di dolorose mancanze e di cinici doppi standard». Gli fa eco Georges Fahmi (Chatham House), secondo cui pensare di combattere il radicalismo imponendo una riforma dell’Islam è sbagliato a causa di due assunti fallaci: il primo è l’idea che alla base dell’estremismo violento ci sia una motivazione religiosa, quando è innanzitutto il disagio generato dalle condizioni sociali e politiche a portare alla radicalizzazione; il secondo è la convinzione che il salafismo porti necessariamente al jihadismo, mentre il salafismo è un fenomeno variegato e non tutte le sue declinazioni producono esisti violenti. Fahmi aggiunge infine che i tentativi di riformare dall’alto l’Islam finiscono per compromettere l’autorità delle istituzioni religiose che si prestano alla strumentalizzazione politica. La stampa oltreoceano vede le recenti misure legislative che dovranno essere adottate in Francia come una limitazione alle libertà che dice di voler difendere. Negli ultimi giorni ci sono state violenze da parte della polizia, soprattutto per quanto riguarda lo sgombero di un campo di migranti a Parigi.

 

In una frase

 

Anche a Lugano c’è stato un attacco terroristico. La situazione in Svizzera spiegata da Start Insight.

 

Secondo alcuni è solo questione di tempo prima che in Iraq ricomincino le proteste. Nel frattempo continuano gli attacchi dell’ISIS (Al Jazeera).

 

In Algeria prosegue la repressione dei manifestanti dell’Hirak (Le Monde).

 

In Libano i cedri bruciano per il cambiamento climatico (NPR).

 

Un progetto fotografico sugli effetti della pandemia da Covid-19 in Medio Oriente (Washington Post).

 

La Russia vuole aprire una base militare nel Mar Rosso (Al-Monitor).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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