Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:23:08

Il Burj Khalifa di Dubai illuminato con i colori della bandiera turca e la scritta «Hos Geldiniz» (“benvenuto” in turco): quella riservata dagli Emirati Arabi Uniti al presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stata un’accoglienza «da celebrità». Di cosa stiamo parlando? Questa settimana Erdogan si è recato in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti, dove ha incontrato il principe ereditario di Abu Dhabi, e de facto regnante, Mohammad bin Zayed. Si è trattato di una visita impensabile per quasi tutto il decennio scorso: basti ricordare che solo un anno fa i voli Dubai-Istanbul erano sospesi e che dagli Emirati era impossibile accedere ai siti turchi di informazione senza utilizzare una VPN.

 

La delegazione turca ha incontrato le controparti emiratine a Dubai e Abu Dhabi e secondo il ministro dell’Economia di Abu Dhabi Thani Al Zeyoudi l’obiettivo della visita di Erdogan è aprire la strada alla firma, entro 6 mesi-1 anno, di una partnership economica onnicomprensiva che possa «aumentare il commercio dai 13,7 miliardi di dollari dell’anno scorso a 30 miliardi entro cinque anni». In quello che possiamo definire un vero e proprio ribaltamento delle relazioni tra Ankara e Abu Dhabi, i due Paesi hanno siglato accordi di cooperazione in materia di agricoltura, trasporti, salute, cambiamenti climatici, media e comunicazioni, tecnologia, logistica. È inoltre significativa l’intenzione di cooperare nel settore della difesa: non nasconde l’entusiasmo il quotidiano turco Daily Sabah, secondo cui l’industria della difesa turca diventerà «il primo settore ad attrarre investimenti dagli Emirati Arabi».

 

Cosa ha reso possibile quest’inversione a U? Secondo l’analista Hussein Ibish all’origine della distensione turco-emiratina vi è lo stallo in Libia, dove Ankara e Abu Dhabi si sono trovate su posizioni violentemente contrapposte. Tuttavia, la situazione attuale ha reso evidente tanto a Erdogan quanto a MbZ la necessità di «ricostruire la loro forza economica e militare e preservare quei benefici che sono essenziali e redditizi, scartando invece impegni ingiustificatamente gravosi in altre nazioni». Non è un caso che la Turchia abbia anche cambiato la sua posizione sulla Libia: se continuare a sostenere Abdul Hamid Dbeibah dovesse dimostrarsi troppo costoso, Ankara potrebbe optare per un sostegno al rivale Fathi Bashagha (anch’egli misuratino, città su cui poggia la sua influenza la Turchia), nel tentativo di rinsaldare le relazioni anche con l’Est del Paese.

 

Ma soprattutto, sostiene Ibish, la Turchia non è riuscita, insieme al Qatar, a creare una rete di milizie sunnite nella regione, sulla scorta di quanto fatto dall’Iran con i gruppi sciiti. Questo ha fatto venire meno la percezione da parte emiratina che Ankara, con il sostegno alla Fratellanza musulmana, potesse minacciare seriamente la stabilità interna e regionale.

 

Quali sono i vantaggi di questa rinnovata intesa? Da un punto di vista economico sono soprattutto i turchi ad avere bisogno della capacità finanziaria del piccolo Stato del Golfo; al contrario, dal punto di vista geopolitico, è ad Abu Dhabi che fa comodo avere un “peso massimo” come la Turchia dalla propria parte mentre cerca una modalità di convivenza con l’Iran. E qui veniamo agli effetti regionali dell’intesa turco-emiratina. La visita consolida la recente tendenza al miglioramento delle relazioni tra le potenze mediorientali. Secondo l’editoriale di David Gardner pubblicato dal Financial Times, gli incontri tra MbZ ed Erdogan (atteso anche in Arabia Saudita), tra il presidente Isaac Herzog e lo stesso MbZ, quello programmato di Herzog in Turchia, a cui ci sentiamo di aggiungere quello di Bennet in Bahrein, mostrano la nuova fase di pragmatismo che caratterizza la regione mediorientale. Si sta realizzando, ha scritto Gardner, quello che Barack Obama voleva nel 2015: dobbiamo «dire tanto ai nostri amici quanto agli iraniani che devono trovare un modo efficace per condividere la regione e istituire qualche genere di “pace fredda”».

 

La notizia dell’avvicinamento tra Emirati Arabi e Turchia è positiva anche per l’Unione Europea e la NATO, perché segnala un aumento della stabilità ai suoi confini sud-orientali, mentre – riporta al-Monitor – è sicuramente un problema per i curdi siriani, che beneficiavano dell’appoggio emiratino e saudita quando Abu Dhabi e Riyad cercavano di limitare l’influenza turca nell’area.

 

Bennett in Bahrein: una visita “normale”

 

E mentre Erdogan incontrava MbZ, un altro storico incontro aveva luogo a Manama: quello tra il primo ministro israeliano Naftali Bennett e il re del Bahrein. Se da un lato la visita di Bennett rientra nel quadro della distensione delle relazioni tra i Paesi mediorientali, dall’altro Bennett ha utilizzato l’occasione per riaffermare l’impegno comune a «combattere l’Iran e i suoi proxies ogni giorno». Una preoccupazione – ha scritto il New York Times – che nelle menti di molti Stati arabi ha sostituito quella per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese e favorito l’avvicinamento allo Stato ebraico. Ma la cosa più significativa della visita di Bennett (che si distanzia di due settimane da quella del ministro della Difesa Benny Gantz) è la sua normalità: come ha notato acutamente Anshel Pfeffer, quella di Bennett è stata una visita come tante altre in diversi Paesi: picchetto d’onore all’arrivo, incontri con le autorità, spinta al commercio, visita alla comunità ebraica locale e via dicendo. Ma è proprio in questa normalità che risiede tutta la novità degli accordi di Abramo: non una “pace fredda” come quella di Israele con Egitto e Giordania, ma qualcosa di più profondo.

 

Mali: la fine di Barkhane

 

Andarsene dal Mali per rimanere nel Sahel e adattarsi alle evoluzioni della minaccia jihadista in Africa occidentale. È così che la Francia, prima dell’inizio del summit tra Unione Europea e Unione Africana, ha motivato la sua decisione di porre fine all’operazione Barkhane, attraverso cui la Francia contrastava il jihadismo nel Sahel dal 2014. Secondo Jeune Afrique ai soldati francesi serviranno da sei mesi a un anno per completare il ritiro dal Mali, anche perché, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, Macron vuole a tutti i costi evitare ogni possibile parallelismo con il disastroso ritiro americano dall’Afghanistan. «Alla luce delle molteplici ostruzioni delle autorità di transizione maliane, il Canada e gli stati europei che operano [nell’ambito] dell’operazione Barkhane e della Task Force Takuba ritengono che siano venute meno le condizioni politiche, operative e giuridiche per perseguire efficacemente il loro impegno militare attuale nella lotta contro il terrorismo in Mali», si legge nella dichiarazione ufficiale. Il ritiro dal Mali è stato annunciato da Emmanuel Macron, affiancato per l’occasione da Macky Sall, presidente del Senegal, Nana Akufo-Addo, presidente del Ghana (ma anche rispettivamente a capo dell’ECOWAS e dell’Unione Africana), e da Charles Michel.

Sebbene Macron rifiuti l’idea di un fallimento dell’operazione iniziata dal suo predecessore François Hollande, la fine dell’operazione Barkhane indica «soprattutto la fine di un ciclo, la morte di un’utopia politica, diplomatica e militare», ha scritto Le Monde.

 

La decisione francese affonda le sue radici anche nell’atteggiamento della giunta “di transizione” (virgolette d’obbligo) insediata a Bamako, che ha stabilito una stretta collaborazione con il gruppo paramilitare russo Wagner, ciò che ha reso inaccessibili un numero crescente di aree agli operativi di Barkhane. Ma è anche all’opinione pubblica saheliana, sempre più ostile alla presenza dei militari francese, che ha guardato l’Eliseo prima di prendere la decisione, scrive sempre il quotidiano parigino. «L’ambiente creato dalla giunta [militare del Mali] negli ultimi mesi rende un partenariato non più possibile», afferma una fonte presso lo Stato maggiore delle armate francesi.

 

Ma come proseguire, in questo nuovo contesto, il contrasto al jihadismo? Col solo sostegno aereo? Con lo spostamento del dispositivo militare in Burkina Faso, Niger o Ciad? O piuttosto verso i Paesi costieri di Senegal, Costa d’Avorio e Benin? Jeune Afrique ha analizzato le opzioni sul campo e, nonostante Macron abbia affermato che il Niger «sarà il cuore» della riorganizzazione delle forze francesi, sostiene che «Niamey non dovrebbe vedere il suo ruolo trasformato». Tuttavia, gli europei non possono disimpegnarsi dal Sahel, perché è il loro vicinato, ha affermato Ornella Moderan dell’Institute for Security Studies. E se è vero che sia il ministro degli Esteri Yves Le-Drian che il presidente Macron hanno assicurato la continuazione delle operazioni contro il jihadismo nel Sahel, è innegabile che il ritiro dal Mali catapulta nell’incertezza le operazioni militari nella regione, come ha scritto il New York Times (a maggior ragione – aggiungiamo se la decisione arriva a meno di un anno dalla morte di Idriss Déby in Ciad). È sempre il quotidiano americano a sottolineare che il ritiro francese mette in luce l’inadeguatezza di un approccio primariamente militare a una crisi complessa con profonde radici sociali. Non stupisce dunque che il presidente Macron abbia annunciato una rifocalizzazione sul sostegno ai servizi pubblici come le scuole e una minore impronta militare (Financial Times).


Accordo con l’Iran in vista

 

L’8 febbraio sono ripresi a Vienna i colloqui sul nucleare iraniano e si registra un crescente ottimismo nei confronti del raggiungimento di un accordo che ripristini quello firmato nel 2015. Domenica scorsa l’ambasciatore russo Mikhail Ulyanov ha parlato di «progressi significativi», mentre un diplomatico occidentale ha detto a Reuters che un accordo potrebbe essere possibile per l’inizio di marzo, «se tutto andrà bene». Ulteriori segnali arrivano dalle mosse iraniane, che lasciano presagire il ritorno di Teheran sul mercato internazionale del petrolio: come ha riportato Bloomberg, alcuni funzionari della National Iranian Oil Company hanno incontrato i rappresentanti di almeno due raffinerie sudcoreane per discutere il possibile ritorno sul mercato del greggio iraniano.

 

In questo momento il raggiungimento di un accordo sarebbe vantaggioso sia per l’Iran che per gli Stati Uniti: Teheran potrebbe infatti capitalizzare l’elevato prezzo del petrolio, mentre il ritorno dell’offerta iraniana sul mercato potrebbe parzialmente stabilizzare i crescenti prezzi del greggio, un aspetto che in vista delle elezioni di mid-term farebbe comodo anche a Joe Biden.

 

Iraq: le ambizioni di Moqtada al-Sadr per il dopo-Sistani

 

L’Iraq non ha ancora trovato un successore del presidente Barham Salih. La Corte suprema ha infatti rigettato la candidatura di Hoshyar Zebari, mentre i clan curdi Talabani e Barzani tentano di trovare un candidato comune. Ma a destare preoccupazione per il futuro del Paese è anche ciò che avviene in ambito religioso: il Grande Ayatollah Ali al-Sistani ha ormai 91 anni e sempre più frequentemente ci si interroga su cosa accadrà al seminario di Najaf alla scomparsa del chierico che, come ha ricordato Amwaj Media, è ritenuto un «muro impenetrabile contro l’espansione dell’influenza» del modello teocratico iraniano. Chi tenterà di beneficiare della scomparsa di Sistani è il controverso chierico Moqtada al-Sadr, figlio del grand ayatollah Muhammad Sadiq Al-Sadr che competé proprio con Sistani per assumere il ruolo di guida della Marja‘iyya in seguito alla morte nel 1992 di Abu Al-Qasim al-Khoei. Come ha spiegato Amwaj, Sadr porterebbe un arabo alla guida di Najaf – Sistani è nato in Iran – e si differenzia da quest’ultimo per un impegno diretto in politica, testimoniato anche dalla recente visita del comandante delle Forze Qods iraniane Esmail Ghaani, documentata da al-Monitor.

 

 In breve

 

Dieci cose da sapere su Fathi Benchagha, il primo ministro che contente il potere a Abdul Hamid Dabaiba in Libia (Jeune Afrique).

 

Secondo le informazioni ottenute da Newlines Magazine il prossimo leader dello Stato Islamico dovrebbe essere Bashar Khattab Ghazal al-Sumaidai.

 

La Turchia è interessata importare il gas dal Kurdistan iracheno, ma una sentenza della corte suprema irachena complica le cose, impedendo al Governo Regionale del Kurdistan di gestire direttamente le proprie risorse energetiche (Middle East Eye).

 

In Arabia Saudita una compagnia ferroviaria ha pubblicato un bando per l’assunzione di 30 donne capotreno. Hanno presentato richiesta in 28.000 (BBC).

 

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