Intervista a cura di Michele Brignone

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:42:03

Dopo la caduta del regime di Ben Ali, anche il regime egiziano vacilla. Secondo Lei è possibile che la situazione evolva in maniera analoga a quanto è accaduto in Tunisia o vi sono fattori interni che fanno pensare a una transizione differente? Le manifestazioni egiziane somigliano in modo sorprendente a quelle che la Tunisia ha appena conosciuto. Si tratta di richieste profondamente politiche: un cambiamento di regime politico radicale, che faccia passare gli egiziani da sudditi dello Stato a cittadini. Gli egiziani vogliono passare da un regime autoritario e corrotto a un governo responsabile di fronte ai cittadini e trasparente. Come in Tunisia i problemi economici fanno da sfondo a queste richieste. È perciò assolutamente possibile che la situazione evolva in modo analogo a quella tunisina, ma tutto dipenderà dalla strategia e dal comportamento dell’esercito. Il regime egiziano è un regime militare, a differenza di quello tunisino. In Egitto sono perciò i militari a detenere le leve di una possibile transizione. Per il momento l’esercito non reprime i manifestanti. In Tunisia una posizione analoga ha permesso d’insediare due governi provvisori successivi senza colpo di Stato militare. In Egitto i militari decideranno se vogliono la partenza di Mubarak e chi opererà la transizione, se saranno i militari o un governo civile di transizione. Del resto l’Egitto occupa un posto cruciale nell’equilibrio delle forze internazionali nella regione. Se gli Stati Uniti dichiarano di non voler prendere posizione, finiranno certamente per pesare nei giochi, indirizzando il Paese verso una transizione senza caos e preservando l’alleanza tra Stati Uniti, Egitto e Israele. Gli eventi tunisini erano piuttosto inattesi sia da parte dei media che delle diplomazie internazionali. Il regime tunisino era veramente così stabile come si pensava? La stabilità del regime poggiava su tre grandi pilastri: innanzitutto la polizia, che assicurava l’ordine, e, al di sopra di essa, la polizia politica, che tramite il Ministero dell’Interno garantiva la sottomissione della società civile attraverso la repressione violenta di ogni opposizione. Il secondo pilastro del regime era l’RCD (Raggruppamento costituzionale democratico), erede del PSD (il Partito socialista del Destour di Habib Bourguiba). L’RCD, con le sue cellule integrate in tutte le istituzioni del paese, aveva un ruolo di controllo e di inquadramento della popolazione per mobilitarla in favore del regime di Ben Ali. Il terzo pilastro era il sostegno esterno degli Stati Uniti, dell’Unione europea, e in particolare della Francia. I tre pilastri hanno vacillato davanti al potere della rivoluzione di massa che ha unito contro il regime tutti i tunisini, di ogni estrazione e senza distinzione alcuna, e grazie all’esercito che ha rifiutato di svolgere un ruolo repressivo (contrariamente a ciò che è successo in Iran nel 2010). Il pilastro più difficile da svuotare è quello del partito, che è alla testa dello Stato sin dall’Indipendenza. A tratti, la polizia continua peraltro a intervenire replicando le pratiche del regime di Ben Ali. Rimane dunque posta la questione del futuro di questi due pilastri, tanto più che se la Tunisia ha effettivamente messo in atto una vera rivoluzione tra il 17 dicembre 2010 – data dell’immolazione di Mohamed Bouazizi – e il 27 gennaio 2011 – data dell’erezione di un governo di transizione privo, sotto la pressione della strada, della maggior parte degli uomini del vecchio regime – non sappiamo ancora se si tratta di un vero cambio di regime politico. I media hanno inizialmente presentato i disordini che hanno provocato la fuga di Ben Ali come la conseguenza di una crisi generazionale (la disperazione dei giovani) e socio-economica (il rialzo dei prezzi). A suo avviso questa interpretazione è sufficiente per spiegare la situazione? O si può parlare di un sussulto della società civile e di un’istanza di democratizzazione dello Stato da parte della popolazione tunisina? La crisi economica ha rivelato una crisi sociale e politica profonda, alla quale il regime non ha prestato attenzione. L’Europa è il primo mercato al quale è legata l’economia tunisina, colpita in pieno dalla crisi economica del 2008. La crescita tunisina è passata da circa il 5% della prima decade del 2000 al 3% degli ultimi due anni. La disoccupazione dei giovani laureati ne è risultata aggravata. Dal 2008, la regione del bacino minerario dei fosfati intorno a Gafsa – a sud di Sidi Bouzid e di Kasserin, due città la cui popolazione ha giocato un ruolo di primo piano nella rivoluzione – è stata teatro di diverse proteste a carattere economico e sociale. Ciò detto, la questione economica era strettamente legata a una questione politica, quella della corruzione e dei suoi effetti. L’apertura della Tunisia alla globalizzazione economica è stata accompagnata da pratiche di corruzione: l’ex-presidente Ben Ali e il suo entourage famigliare si sono impossessati illegalmente di numerose imprese privatizzate, e la corruzione esistente a tutti i livelli dello Stato è diventata fonte di malcontento. Si è verificata una vera rottura tra lo Stato e i tunisini. Si può d’altra parte notare che le manifestazioni si sono spesso radunate davanti ai palazzi che rappresentano lo Stato e l’RCD, e che alcuni di essi sono stati distrutti o occupati dai manifestanti. Al di là della crisi economica e dei problemi di corruzione, c’è un desiderio di cittadinanza da parte dei tunisini, cioè di un’aspirazione a essere veramente rappresentati sul piano politico e di avere governanti responsabili davanti al popolo. La rivoluzione tunisina si è giocata sui temi di un nuovo progetto nazionale, quello della cittadinanza e della libertà. Ci troviamo ora ben al di là di un nazionalismo che si definiva in rapporto all’altro (il colonizzatore e l’occidente) o attraverso certe ideologie. È un progetto di rinnovamento politico interno che fa ricorso a valori universali, come testimonia uno slogan scandito spesso durante le manifestazioni: «shughl, hurriyya, karâma wataniyya» cioè «lavoro, libertà, dignità nazionale». Quando si parla dei paesi del Medio Oriente si pensa normalmente che la sola opposizione reale ai regimi in carica sia costituita dagli islamisti. I fatti tunisini sembrano smentire tale convinzione. Una situazione simile potrebbe ripetersi in altri paesi del Medio Oriente? È possibile ricondurre quanto sta succedendo in Egitto all’esempio tunisino? In Tunisia, il movimento islamista al-Nahda è stato una forza di opposizione molto potente. È stato represso molto severamente sotto Bourguiba e poi sotto Ben Ali, in particolare dopo aver ottenuto il 17% dei seggi alle elezioni del 1989, quando i suoi membri si erano presentati come candidati indipendenti. Il regime tunisino ha utilizzato la minaccia di uno “scenario algerino” per giustificare la repressione brutale degli islamisti. Ecco perché il movimento islamista si trova oggi ad essere molto indebolito. Non ha partecipato in quanto movimento politico alle manifestazioni. È possibile che abbia esercitato una certa prudenza strategica, non volendo essere utilizzato da un governo di transizione come nuovo pretesto per non passare al pluralismo. Il governo formato il 27 gennaio 2011 sembra tuttavia aperto alla loro partecipazione al processo politico. D’altra parte, Rashid al-Ghannouchi, il leader storico di al-Nahda, tornato a Tunisi il 30 gennaio 2011, ha dichiarato di non voler modificare il Codice di statuto personale che garantisce i diritti della donna tunisina, e che il suo scopo non è quello di stabilire la sharî‘a in Tunisia. Ha esplicitamente paragonato il suo movimento a quello degli islamisti dell’AKP in Turchia e si è dichiarato a favore di una transizione democratica. Il paesaggio politico tunisino è ancora incerto, ma sembra essere costituito da partiti di opposizione di sinistra, progressisti, democratici e di nuovi partiti che chiedono di essere autorizzati. Gli islamisti, dunque, non sono certo i soli né i più importanti oppositori politici, e dovranno sicuramente adattare il loro programma politico alla situazione attuale, in particolare proponendo soluzioni ai grandi problemi economici e sociali. Non bisogna perciò ignorare la componente islamista nel gioco politico, ma non bisogna neanche esagerarne l’importanza, come fanno invece numerosi osservatori in Europa e negli Stati Uniti, che riprendono una dicotomia spesso utilizzata da quanti sostenevano il regime di Ben Ali: o la dittatura, o gli islamisti. Mi sembra al contrario che il paradigma sia profondamente cambiato e che questa dicotomia non abbia più ragion d’essere di fronte alle richieste di cambiamento radicale del tipo di governo provenienti dal popolo tunisino. In Egitto, i Fratelli musulmani sono più radicati e hanno sempre avuto, nonostante la repressione, margini di manovra più importanti di quelli concessi al movimento islamista in Tunisia, ma neanche loro sono i soli oppositori al regime di Mubarak. Inoltre essi hanno recentemente moderato il proprio discorso – ma non nello stesso senso degli islamisti tunisini. È possibile e anche probabile che lo stesso cambiamento di paradigma sia in corso in Egitto. Sin dall’epoca di Bourguiba, lo Stato tunisino ha risolto il suo rapporto con l’Islam subordinando quest’ultimo a un controllo molto rigido. Anche se è probabilmente troppo presto per un’analisi approfondita su questo tema, è possibile che il cambio di regime induca dei cambiamenti nel rapporto tra lo Stato e l’Islam? Lo Stato tunisino ha effettivamente subordinato l’Islam al proprio controllo sia a livello istituzionale, sia a livello delle interpretazioni dell’Islam che ha potuto produrre. La costituzione tunisina afferma che l’Islam è religione di Stato. Negli ultimi anni, il controllo dell’Islam è diventato ancora più rigido, ciò che ha prodotto numerose tensioni tra la popolazione tunisina devota, che vuole praticare l’Islam in tutta libertà, e che è influenzata dall’Islam dei canali satellitari del Golfo. Il regime di Ben Ali ha tentato invano di recuperare a suo profitto la componente religiosa creando un canale radiofonico islamico. La questione della libertà religiosa e del ruolo dello Stato nei confronti della religione riemergerà sicuramente nei dibattiti costituzionali o in altri contesti, se ce ne saranno. Ci si può domandare se una riforma costituzionale prenderà in considerazione la questione. Lo scenario più probabile è che l’Islam resterà religione di Stato, ma che la questione del posto dell’Islam nella società tunisina sarà oggetto di dibattiti e disaccordi. Ciò che è certo è che l’interpretazione liberale e modernista dell’Islam fatta da Bourguiba ha lasciato un’impronta indelebile sulla società tunisina e sugli stessi islamisti. Per questo non penso si potrà verificare in Tunisia una pressione islamista paragonabile e quella che caratterizza altri paesi della regione. È invece possibile che, nel lungo periodo, gli islamisti egiziani cerchino di assumere la guida della transizione coltivando ambizioni egemoniche? E quale ruolo potrà avere sotto questo aspetto la moschea-università di al-Azhar, che, fino a oggi, ha fornito un’interpretazione “ufficiale” dell’Islam? I Fratelli musulmani egiziani rappresentano una parte importante dell’opposizione, ma non sono i soli a contare sullo scacchiere politico. Anche la sinistra e i liberali formano gruppi importanti. Per il momento i Fratelli mantengono un basso profilo, strategia che permette di non spaventare gli avversari potenziali. Tuttavia, non si tratta soltanto di una posizione strategica. Non tutti i Fratelli musulmani mirano necessariamente a un potere egemonico e molti tra loro hanno fortemente moderato il loro discorso. Anche all’interno dei Fratelli esistono opposizioni ed essi non rappresentano necessariamente un gruppo omogeneo. Nel complesso vogliono partecipare politicamente, cioè governare. Hanno perciò bisogno di un sistema politico che assicuri l’alternanza e non di un nuovo autoritarismo che potrebbe nuocergli una volta di più. L’esempio dell’AKP turco può fornire loro un modello. In ogni caso è questo oggi il modello del capo storico degli islamisti tunisini, Rashed al-Ghannushi. Al-Azhar, istituzione ufficiale dell’Islam egiziano, è sempre stata fedele allo Stato e risponde in generale alle sue richieste. I grandi ulema dell’Islam sunnita egiziano si adattano alle eventuali pressioni da parte dello Stato e sanno lasciar trasparire sottilmente il loro disaccordo con le politiche ufficiali. Se i Fratelli arrivassero a governare, al-Azhar si mostrerebbe fedele a questa linea di condotta ufficiale, che può dipendere anche in larga misura dalla personalità del suo Grande Imam. Se si producesse una vera transizione verso la democrazia – ma ne siamo lontani per il momento – al-Azhar potrebbe diventare una vera cassa di risonanza delle diverse correnti religiose nella vita egiziana ed esprimere pubblicamente la propria diversità religiosa e intellettuale, ciò che finora non gli è sempre stato permesso.