Il blocco operato dal 2017 a inizio 2021 contro Doha ha velocizzato il processo di nation-building dell’emirato, che si basa fortemente sul ruolo degli al-Thani

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:03

[Questo è il terzo appuntamento con la miniserie dedicata ai processi di nation-building sviluppati dagli Stati del Golfo. Qui potete trovare il secondo, dedicato al confronto tra Arabia Saudita e Oman]

 

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La rosa del deserto, capace di vivere anche in condizioni estreme, è il simbolo del Museo Nazionale del Qatar, progettato dall’architetto francese Jean Nouvel e inaugurato nel 2019. Un simbolo che, con il senno di poi, richiama il racconto fatto dalla famiglia reale degli Al Thani durante l’ultima crisi: quello di un piccolo Paese, tra i primi al mondo però per Prodotto Interno Lordo (PIL) pro-capite, che resiste e reagisce a un blocco diplomatico e commerciale mai visto nella storia del Golfo.

 

L’identità nazionale del Qatar si è formata più in quelle settimane traumatiche che nei decenni precedenti. Infatti, pur percorrendo una strada già tracciata, il processo di nation-building del Qatar ha vissuto un’accelerazione decisiva all’indomani del 5 giugno 2017, quando Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrein interruppero le relazioni diplomatiche con l’emirato, accusato di “terrorismo”. Ne seguì una stagione, durata oltre tre anni (fino alla Dichiarazione di Al Ula del gennaio 2021), sulla quale la dissonanza è anche terminologica: per gli emiratini e i sauditi fu un “boicottaggio”, per i qatarini un “blocco”.  

 

Di certo, il nazionalismo qatarino si è abbeverato all’esperienza, poi trasformatasi in retorica, “del blocco”, percepito come ingiustizia imposta e subita da Paesi fratelli. Adesso, i qatarini, anche i più giovani, anche gli expatriates, possono attingere a una memoria collettiva: l’isolamento ha attivato consapevolezza, orgoglio, identità nazionale. Il Qatar, nel messaggio della famiglia reale, è ora la tribù di tutti e l’Emiro Tamim bin Hamad Al Thani ne è l’icona pop, poiché simbolo dell’unità e della “resistenza” qatarina. Desiderosi di difendere la propria sovranità, i qatarini coltivano nazionalismo e autosufficienza – seppur al centro di tante alleanze regionali e internazionali – tra “Made in” e suggestioni militariste. Perché l’eredità socio-culturale del “blocco” è già diventata un patrimonio nazionale.

 

Pluralità, non pluralismo. Una penisola culturalmente variegata in cerca di identità

In Qatar, vogliamo trasformare la nostra cultura in una piattaforma per rinforzare identità, cittadinanza, orgoglio nazionale e cerchiamo di preservare il nostro patrimonio culturale

Saleh Mohammed Al Nabit, ministro della Pianificazione, 2014

 

Nel piccolo emirato del Qatar, circa 2,8 milioni di abitanti (solo un nono i cittadini), l’identità è quanto mai un insieme di frammenti che coesistono. E non potrebbe essere altrimenti per uno small state che è riuscito a diventare globale per ricchezza, capacità attrattiva e influenza geopolitica. Innanzitutto, ci sono la tradizione beduina (bedu) e quella sedentaria (hadar); gli arabi sunniti tornati dall’allora Persia (Hawala, letteralmente i “trasformati”), gli arabi sciiti (Baharna) e i discendenti di immigrati africani. Poi, dopo la scoperta degli idrocarburi, vi sono gli expatriates indiani, pakistani, iraniani e i lavoratori super qualificati, spesso occidentali, nel business, nell’arte e nelle università. Non a caso, la lingua inglese è spesso più utilizzata dell’arabo: il sintomo di una globalizzazione della quotidianità di cui Doha è stata avamposto nel Golfo.

 

Ecco perché la pluralità – seppur “filtrata” dall’alto e che non equivale a pluralismo – è il motore del Qatar, divenuto brand prima che Nazione. La dinastia regnante degli Al Thani, originaria del Najd e di origine bedu come gli Al Saud (con cui condivide l’Islam wahhabita, qui applicato in versione più stemperata), occupò l’attuale territorio dell’emirato a metà del 1700. Le coste controllate dagli Al Thani, fuori dalle principali rotte carovaniere, divennero rotte marittime e poi l’epicentro dell’industria perlifera – come d’altronde gli attuali Emirati Arabi e il Bahrein – fino al tonfo economico degli anni ’30, quando l’avvento delle perle coltivate del Giappone modificò, per sempre, quel mercato.

 

Partendo da questa storia, il processo di nation-building voluto dagli Al Thani punta a racchiudere le diverse anime del Paese in un’unica idea di Nazione: ovvero il Qatar (secondo l'etimologia popolare dall’arabo “goccia”) come luogo della coesistenza tra micro-storie e micro-realtà che hanno, però, nella dinastia reale il punto di aggregazione nazionale. Un percorso di costruzione identitaria, dall’alto, iniziato nei primi anni 2000, ma acceleratosi dopo le rivolte arabe e, soprattutto, dopo il 2017, in reazione al “blocco”.

 

Gli anni 2000. Il nation-building del Qatar tra globalizzazione, grandi marchi, musei e pretesa liberale

La storia del Qatar inizia in schiavitù ma si conclude in libertà e prosperità condivise… il Qatar si confronta con il suo passato oscuro, invece che chiudere un occhio su come venne alla luce.

Bin Jelmood House, Doha, sito ufficiale

 

Nel disegno della monarchia, il nation-building qatarino passa per il ruolo centrale della famiglia regnante: per gli Al Thani, costruire una nazione “a misura dinastica” non è solo un espediente per controllarne il processo, ma anche uno strumento di auto-legittimazione. La direzione era chiara fin dal 2008, quando Doha decise di spostare il proprio National Day dal giorno, del 1971, in cui i britannici si ritirarono dal Qatar a un’altra data, il 18 dicembre, quando gli Al Thani sconfissero gli ottomani (era il 1871), gettando così le fondamenta per il futuro stato qatarino.

 

Prima della nazione-Qatar, c’è stato il marchio (brand) Qatar. Infatti, a partire dagli anni 2000, l’emirato è riuscito a trasformarsi in una (quasi) città-Stato[1] globalizzata e dalle aspirazioni globali, capace di investire ovunque e di cooperare – mischiandosi – con tutto ciò che è prestigioso e internazionalmente riconoscibile: moda, lusso, sport, università, musei. Una strategia che ha proiettato Doha sul palcoscenico del mondo[2], ma che non bastava a generare quel senso di appartenenza comunitaria che gli Al Thani stavano ricercando.

 

Nel 2009, Doha commissiona il progetto del Museo Nazionale: ovvero la vetrina attraverso la quale media e turisti internazionali avrebbero dovuto, nelle intenzioni qatarine, guardare il Qatar e la sua storia. L’idea fondamentale – e la funzione di un museo nazionale – è che ogni Stato-nazione possa inventare le proprie tradizioni per legittimare le istituzioni e creare una società coesa: il Qatar, seppur un rentier-state fondato sulla rendita energetica, non fa eccezione[3]. Nel 2014, l’emirato organizza il suo primo seminario sull’identità nazionale: per la famiglia reale, la necessità di una riflessione sull’essere qatarini diventa prioritaria e abbraccia anche i passaggi più scomodi della propria storia.

 

Nel 2015, il Qatar inaugura la Casa Bin Jelmood, parte dei quattro musei Msheireb, alla presenza della potentissima Shaykha Moza bint Nasser al-Misnad (madre dell’attuale Emiro e moglie del precedente). Il museo, finanziato dal governo, sorge al posto dell’abitazione che fu di un qatarino proprietario di schiavi ai tempi della schiavitù nell’Oceano Indiano: un’operazione di denuncia del passato (la schiavitù in Qatar fu abolita nel 1952) e, al tempo stesso, una celebrazione – nella prospettiva di Doha – del coraggio di confrontarsi con i propri spettri. Il Qatar tenta di presentarsi così come la patria del pensiero libero e critico; ciò avviene, però, all’interno, di una prospettiva storica, nonché di un perimetro di dibattito, stabilito dall’alto.

 

Dopo le rivolte del 2011. L’arrivo di Tamim (2013) e Il “blocco” del 2017 come attivatori del nazionalismo qatarino

Dovremmo essere preparati politicamente, militarmente, scientificamente, economicamente e culturalmente a combattere ogni tiranno desideroso di attaccare la sovranità del paese

Comunicato del Comitato organizzatore della festa nazionale del 2018

 

Il trauma del “blocco” ha fortemente accelerato il processo di nation-building in Qatar. Ma la costruzione del senso di Nazione era diventata prioritaria già all’indomani delle rivolte arabe del 2011. La stagione delle “primavere” coincise, nel 2013, con l’abdicazione dell’Emiro Hamad bin Khalifa Al Thani e la salita al trono del figlio Tamim. Di fronte ai tumultuosi cambiamenti mediorientali, il Qatar del nuovo Emiro proseguì nel sostegno alla Fratellanza Musulmana e, a livello interno, puntò a rafforzare le politiche di coesione sociale e nation-building.

 

In tale ottica, la sfera militare diventa protagonista, acquisendo un significato nuovo. Tra il 2013 e il 2017, essa vuole rappresentare ruolo regionale, prestigio e partecipazione dei cittadini alla comunità nazionale; dal 2017 in poi, il topos militare assume anche una connotazione patriottica e difensiva, in reazione al “blocco”. Tra i primi provvedimenti che l’Emiro promulga nel 2013, dopo la nomina, vi è l’introduzione della leva militare obbligatoria per i cittadini maschi (facoltativa per le femmine): Doha è la prima tra le monarchie del Golfo. I qatarini tra i 18 e i 35 anni d’età sono chiamati a servire il Paese fra i 3 e i 4 mesi, in base al titolo di studio: il periodo di leva viene poi prolungato a un anno e unificato, non a caso, dal 2018. L’intento culturale e pedagogico, prima che strettamente militare, che sottende l’iniziativa della coscrizione appare chiaro e non soltanto per gli esigui numeri dei nationals. La leva militare aiuterà i qatarini a diventare “cittadini ideali” affermava, alla promulgazione del decreto reale, il ministro di Stato alla difesa, Generale Hamad bin Ali al Attiya, mettendo in evidenza il proposito di educazione civica insito nel progetto. Infatti, lezioni di storia nazionale, sicurezza e cittadinanza fanno parte del programma del servizio nazionale qatarino.

 

Nazionalismo militarista e “brand-ization”: l’identità nazionale come bene di consumo

Tutte queste forze [le Forze armate] sono tuoi figli, i frutti del tuo sforzo nella costruzione di uno scudo forte per proteggere la patria e innalzare il suo nome tra le nazioni

National Day 2017, il ministro di stato alla Difesa Generale Hamad bin Ali al Attiya rivolgendosi all’Emiro

 

Dal “blocco” del 2017, la percezione della “minaccia esterna” unisce i qatarini rafforzandone il legame con la famiglia reale e il senso di unità nazionale. Come scrive Ameena Almeer, il nazionalismo si identifica ora con il “royalism”, dunque con la stessa dinastia regnante degli Al Thani. In più, la spinta unitaria della nazione prevale sulle affiliazioni sociali già esistenti, come quelle tribali e l’identità khaleeji, ovvero della sponda araba del Golfo[4]. E il Qatar, la (quasi) città-Stato che è riuscita a diventare un brand globale della finanza e del soft power nei primi anni 2000, fa adesso del nazionalismo il proprio brand nazionale.

 

In questo salto culturale ed emotivo, la figura dell’Emiro è fondamentale: “Tamim al-Majd” (Tamim il glorioso in arabo), come nell’ormai iconico disegno dell’artista Ahmed bin Majed al-Maadheed riprodotto su auto, muri, cartelloni e gadgets, si fa “surrogato del nazionalismo”[5], poiché percepito e sovrapposto alla stessa immagine di Nazione. La prima uscita pubblica dell’Emiro dopo l’inizio del “blocco” avvenne al cantiere del Museo Nazionale, il 20 giugno 2017: quasi a testimoniare che Doha, nonostante l’improvviso isolamento, reagiva alle avversità divenendo più forte. Quella visita è anche un ideale passaggio dalla fase della “brand-ization”, in cui Doha legava il proprio nome a marchi, eventi e luoghi di richiamo internazionale a quella, nuova, del Qatar che si fa “marchio di se stesso” mediante l’orgoglio nazionale. Ecco contestualizzata la moltiplicazione dei prodotti autarchici “Made in”, compresi alcuni beni agricoli e il proliferare dei gadgets con la bandiera nazionale, l’effige dell’Emiro o i versi dell’inno qatarino.

 

In un’ideale staffetta tra la fase precedente e quella successiva al 2017, i musei del Qatar sotto “blocco” si riempiono di souvenir e prodotti patriottici, tra cui spiccano le uniformi militari, anche per bambini, da indossare in occasione del National Day. Come osserva la studiosa Suzi Mirgani, è il trionfo del “souvernir nationalism” [6]: gli spazi vendita dei musei qatarini, che espongono e vendono merci sponsorizzate dal governo e dalla famiglia reale, testimoniano che il Qatar è entrato in un periodo storico in cui “l’identità nazionale si consuma”, come fosse un bene commerciale. Dunque è il Qatar, dopo anni di corsa alla globalizzazione, a essere diventato brand di se stesso, per costruirsi un’identità nazionale.

 

Parole e piazze (di Stato) dell’orgoglio nazionale qatarino

#Raise_Your_Head_You_Are_A_Qatari

 Oh our country, oh our Qatar, we were created to serve as your soldiers #Qatar’s_People_in Tamim’s _Heart

Twitter trending topic in Qatar, 5-18 giugno 2017

 

Il nazionalismo, specie quello in chiave militare, è tangibile durante il National Day, nei discorsi ufficiali e sul web, inclusi i social media. Dal 2017, il fattore militare negli eventi pubblici è divenuto più visibile. La parata militare svoltasi durante le celebrazioni nazionali del 2018 è durata più a lungo delle precedenti ed è stata caratterizzata da un maggior dispiegamento di forze armate. I militari qatarini hanno marciato per la Corniche della capitale cantando canzoni patriottiche e scandendo il motto del National Day 2018, “fino a quando sarà ribadito con le nostre azioni, il Qatar rimarrà libero” (che contiene un verso del fondatore Shaikh Jassim bin Mohammed bin Thani), collegando così la forza militare alla “resistenza contro il blocco”. Nelle piazze virtuali dei social networks si afferma il “nazionalismo digitale”[7]. Esso è rintracciabile in hashtags su twitter come “Our Tribe is Qatar” o “We Are All Qatar”, o in tweet divenuti virali come “Tamim is not one individual. Tamim is unified people” o “Every day is a national day in the presence of Tamim”[8]. Espressioni che evidenziano, al momento, il superamento delle appartenenze tribali in nome dell’unità nazionale, nonché l’identificazione fra Emiro e nazione; un percorso velocizzato dalle difficoltà esterne, ma che ha già ri-generato la società qatarina.

 

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[1] David Roberts, Qatar: Securing the Global Ambitions of a City-State, Hurst & Co, London 2017.
[2] Mehran Kamrava, Qatar: Small State, Big Politics, Cornell University Press, Ithaca (NY) 2015.
[3] Jocelyn Sage-Mitchell, We Are All Qataris Here: The Nation-Building Narrative of the National Museum of Qatar, in Erskine-Loftus, P., Al-Mulla, M., and Hightower, V. (a cura di), Representing the Nation: Heritage, Museums, National Narratives, and Identity in the Arab Gulf States, Routledge, Abingdon 2016, pp. 59-72.
[4] Ameena Almeer, Loyal to the Royals: Nationalism in the Collective Imaginary of Post-“Blockade” Qatar, Georgetown University Qatar, Tesi di Laurea, Primavera 2020.
[5] Ibid.
[6] Suzi Mirgani, “Souvenir Sovereignty in Qatar”, LSE Middle East Centre Blog, in Heritage and National Identity Construction in the Gulf: Between State-building and Grassroots Initiatives workshop, 21 febbraio 2020; si veda anche  “Consumer Citizenship: National Identity and Museum Merchandise in Qatar”, «Special Issue of Middle East Journal» vol. 73, n. 4 (2019), pp. 555-572.
[7] Nurgul Oruc, Hashtag Unity: Qatar’s digital nationalism in the Gulf crisis, «Journal of Arab & Muslim Media Research», vol. 12, n. 1 (2019) pp. 43-64.
[8] Ibid.

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