Tradizione islamica e nuove sfide /1. La questione dei testi. Autenticità degli hadîth, abrogazione o sostituzione delle leggi indicate dai versetti, e più in generale la nota questione dell’interpretazione del Corano: per il mondo sunnita il rapporto con l’eredità e la trasmissione delle fede delle origini continua a destare interrogativi e problemi fin nella vita quotidiana.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:48

All’interno della maggioranza sunnita dei musulmani, per limitarci ad essa, il rapporto con la Tradizione continua a porre numerosi interrogativi e problemi fin nella vita quotidiana di molti credenti. Il primo problema è quello dell’autenticità degli hadîth. Sappiamo che la codificazione per iscritto degli hadîth (tadwîn) ha avuto luogo tardivamente ed è stata costantemente sottomessa alla pressione delle contingenze storiche e delle lotte per il potere tra diverse fazioni musulmane. La conseguenza è che tra questi hadîth ce ne sono migliaia che spesso possono affermare una cosa e il suo contrario. Alcuni sono grotteschi, come quello che afferma che «Dio non ama i biondi» o «i bassi». Sono per questo dichiarati falsi o deboli. Altri sono contrari alla dignità dell’uomo o della donna, come quello che afferma che «il posto naturale di una donna è la tomba». Altri infine sono buoni per la morale civile o patriottica, ma sono manifestamente anacronistici, come quello che afferma che «l’amore per la patria fa parte della fede» o che «chi visita la città di Fez entra in Paradiso» o anche che «chi passa tre notti a Monastir va in Paradiso» ecc. Naturalmente un grande lavoro di convalida e verifica minuziosa della catena dei trasmettitori è stato condotto nel passato ed esso ha avuto come risultato il corpus dei due Sahîh (le due raccolte attendibili) di Muslim e di Bukhârî. La scienza del jarh e del ta’dîl che si occupa dell’autentificazione e della veridicità degli hadîth ha fatto molto in questo ambito; nondimeno numerose anomalie continuano a manifestarsi. Rashid Rida, che fu peraltro una grande figura della Riforma salafista, faceva questa constatazione: «Se le tradizioni fossero sottomesse a un esame critico del testo, così come è avvenuto per la catena di trasmissione, la critica dei testi condurrebbe al rifiuto della maggior parte delle catene di trasmissione» [1]. Un altro problema abbastanza imbarazzante si pone riguardo alle fonti della Tradizione. Si tratta in particolare della questione dell’abrogazione di alcune leggi. Un versetto è spesso citato come punto di partenza di questo dibattito: «Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare, alcun versetto senza dartene uno migliore o uguale: non sai dunque che Iddio è onnipotente?» [2,106]. Questo versetto ha sollevato fin da subito, e continua ancora oggi, a sollevare un gran numero d’interrogativi. Senza prendere parte a questo dibattito teologico, si può semplicemente osservare che alcune conseguenze di una certa lettura letterale e semplicistica di questo versetto finiscono necessariamente per urtare la ragione umana. In effetti, Dio cambia volontà? Che senso può avere il fatto di «far dimenticare» o di sostituire un «versetto con un altro»? Che cosa significa che un versetto è «migliore di un altro»? Sono altrettante questioni che necessitano di un reale aggiornamento [2] della Tradizione musulmana. Ecco qualche esempio di versetti che ne abrogano altri: il cambio di direzione per la preghiera (qibla) [2,143-150]; la proibizione del vino [5,90] che annulla l’autorizzazione dei versetti 2,219 e 4,43; l’eredità [4,11-12 e 176 abrogano 2,180]; l’atteggiamento nei confronti degli ebrei e dei cristiani (il versetto detto “della spada” [9,29] annullerebbe i versetti 2,62 e 5,69) [3]. Alcuni hanno persino affermato che un hadîth potrebbe, in alcuni casi, abrogare un versetto coranico [4]. Gli esempi mostrano bene, se ce ne fosse bisogno, che queste leggi s’inscrivono nella storia e che la variazione delle leggi civili relative all’organizzazione della città di Medina è stata determinata dal cambiamento e dall’evoluzione del contesto nel quale la rivelazione ha avuto luogo. Questa variazione non modifica i principi della fede in un Dio unico, ma solamente le leggi “politiche” che si evolvono con l’evolvere delle società. Già nel Medioevo la scuola razionalista mu’tazilita affermò che il Corano era stato “creato”, che non poteva essere “eterno”, che era perciò legato a un contesto specifico. Questo implica necessariamente la contestualizzazione della Rivelazione, alla quale la scienza delle cause della rivelazione (asbâb al-nuzûl) ha tentato di offrire delle risposte. Senza ciò, siamo posti di fronte a situazioni inestricabili ed è proprio su questo punto che nasce il problema con il fondamentalismo, nel suo stretto rapporto e nel suo sguardo velato rispetto alla tradizione. Possibilità Concrete di Riforma La conseguenza di questa situazione è l’emergere di un altro approccio alla Tradizione che merita il nostro interesse, quello dei “Coranisti”. Essi sostengono che per trovare una soluzione alle incoerenze della Tradizione c’è bisogno di un nuovo principio: «Il Corano e nient’altro che il Corano». Altrimenti detto «l’Islam è il solo Corano». Questa tesi è stata difesa in maniera eloquente dal riformatore musulmano Muhammad Tawfîk Sidqî. Egli parte dal principio coranico: «In verità Noi abbiamo rivelato l’ammonimento e Noi ne siamo i custodi» [15,9]. Solo il Corano dunque è al si sopra di ogni sospetto, poiché, come in esso affermato, Dio l’ha protetto da ogni deformazione. Di conseguenza Sidqî afferma nella rivista «El Manâr»: «La parola finale a questo proposito è di attenersi al libro di Dio, facendo appello alla Ragione […]. Quanto alla Sunna, se presenta degli elementi [normativi] in più rispetto al contenuto coranico, siamo liberi di tenerne conto o no» [5]. Questa posizione abbastanza interessante apre senza dubbio una breccia nella Tradizione e ha d’altra parte permesso di offrire a molti possibilità reali di riforma dell’Islam. Basta osservare il numero molto grande di intellettuali riformisti e ¬modernisti che all’interno dell’Islam difendono la tesi dei “Coranisti” per convincersi della sua fecondità. Il “solo Corano” non è privo di analogia con la Sola Scriptura sulla quale la Riforma Luterana si è poggiata in Europa nel XVI secolo. In entrambi i casi si oppone alla Tradizione il libero esame del Testo Sacro. Ma per quanto seducente possa apparire, questa tesi ha poche possibilità, a mio avviso, di condurre a una reale modernizzazione dell’Islam o a un’emancipazione dell’individuo. Per la schiacciante maggioranza degli ulema e dei musulmani, di fatto la Tradizione è tanto essenziale e necessaria quanto il Corano. Bisogna quindi spostare il dibattito sulla modernizzazione a un altro livello. Ritengo che per modernizzare la Tradizione non si debba abbandonarla ai tradizionalisti e ai fondamentalisti. Come la Tradizione, così ricca e aperta ai suoi inizi, è stata condannata alla sclerosi? Ciò è avvenuto con la rottura nella teoria degli usûl, le radici della Legge, elaborata nel II/VIII secolo. In effetti la chiusura è cominciata quando gli ulema hanno considerato che delle quattro fonti della legge islamica solo le prime due, il Corano e la Sunna, andavano mantenute, mentre l’ijmâ’ (il consenso) e l’ijtihad (l’interpretazione) dovevano essere abbandonate. L’ijmâ’ o “legge della maggioranza” è stata quindi colpita da ostracismo. Eppure avrebbe potuto fungere da mezzo di modernizzazione della tradizione attraverso il dialogo e il dibattito pubblico. L’applicazione di questo principio avrebbe potuto permettere di introdurre in terra d’Islam idee nuove e forti che strutturano le società moderne. Ciò purtroppo non si è realizzato. Tuttavia c’è un hadîth estremamente celebre che legittima la pratica dell’ijmâ’: «La mia comunità non può essere unanime nell’errore». Questo hadîth riecheggia stranamente il proverbio latino alla base della Repubblica romana: vox populi, vox dei. Si tratta di un principio che è certo antico, ma al contempo portatore di un grande potenziale democratico. La riabilitazione della dimensione teologica che esso implica potrebbe servire in un certo modo a modernizzare la Tradizione e a farla uscire dalla sua sclerosi. Un altro principio non meno radicato nel patrimonio islamico potrebbe rivelarsi una risorsa insostituibile: il principio dell’ijtihâd. Questa parola, che proviene dalla radice j.h.d. (la stessa di jihâd), indica la nozione di sforzo, tipico della riflessione, dell’invenzione e della ricerca di soluzioni di fronte a un problema inedito. Si tratta dunque di una lotta contro se stessi sulla via della verità. Largamente sottovalutato, tale principio è stato per così dire marginalizzato da una certa tradizione che ne ha limitato l’esercizio in modo da farlo divenire quasi impraticabile. Eppure l’ijtihâd è sostenuto da numerosi versetti coranici e hadîth. Ci accontenteremo di citarne uno, divenuto celebre, perché può servire oggi da riferimento per legittimare lo sforzo della riflessione personale. Al momento d’inviare Mu’âdh come luogotenente generale in Yemen, il Profeta gli fece le ultime raccomandazioni. Di questa conversazione Mu’âdh ci riporta il passaggio seguente: «Quando ti capiterà di dover giudicare come farai?» «Deciderò secondo il libro di Dio.» «E poi?» «Mi riferirò all’esempio dell’Inviato di Dio.» «E poi?» «Mi sforzerò di esercitare il mio giudizio» [6]. Così quando si studia da vicino la Tradizione ci si rende conto realmente della strumentalizzazione che ne è stata fatta. Questo è in parte dovuto alla paura della novità, pericolosa per la “purezza” della Tradizione religiosa islamica [7] . Il fenomeno è dovuto anche a una certa ideologia araba che ha voluto affermare definitivamente la superiorità delle tradizioni arabe sulle tradizioni delle popolazioni non-arabe. Ma esso può essere spiegato molto semplicemente anche con una certa pigrizia intellettuale che si è impossessata degli spiriti nei secoli di decadenza, quando si è preferito l’ozio del Naql (l’imitazione) al duro lavoro del ‘Aql (la ragione). Il problema è anche quello del potere che una casta di chierici si è arrogata elevando la propria opinione a parola sacra, laddove il Profeta stesso accettava che i suoi Compagni contraddicessero il suo giudizio in tutto ciò che riguardava le questioni di questo «basso mondo» [8]. Sta di fatto che la Tradizione, dopo essere stata a un certo momento della storia musulmana una risorsa feconda, è diventata con il passare del tempo un pesante fardello. E tuttavia abbiamo dei testi che offrono possibilità di riforma in senso moderno, se solo si accetta di leggerli con spirito critico di analisi e di discernimento. È attraverso l’incontro con uno spirito illuminato e con una volontà politica che la Tradizione potrà essere modernizzata. È ciò che è avvenuto negli anni ‘60 in un paese musulmano la cui esperienza merita d’essere citata ancor oggi come esempio in questo ambito. È il caso della Tunisia. Rottura Culturale Questo paese ha avuto accesso all’indipendenza nel 1956. Ancora prima della proclamazione della Costituzione della Repubblica, il suo leader Habib Bourguiba fece votare dall’assemblea costituente il codice di statuto personale. Si trattava di un vero e proprio atto di fondazione la cui portata storica può essere misurata ancor oggi e che resta finora unico nel mondo arabo e musulmano. Tra le misure faro di questo codice figurava l’abolizione della poligamia, che metteva fine a una legge islamica vecchia di quattordici secoli. Il testo si poggia sulla nozione di ijtihâd, cioè su un’interpretazione razionale di un versetto coranico che afferma: «Se temete di non essere giusti con loro [le donne], [sposatene] una sola» [4,3]. Il ripudio è anch’esso abolito, mentre una serie di leggi rompe con secoli di dominazione dell’uomo sulla donna. Lo spirito che anima questo codice è quello di giungere a una perfetta uguaglianza tra l’uomo e la donna, cosa inconcepibile agli occhi di tutti i seguaci della lettura tradizionalista del diritto islamico. Solo un uomo come Bourguiba poteva realizzare una tale rottura culturale, perché egli era l’uomo della rottura politica con tutto il sistema ereditato dal colonialismo francese e al tempo stesso l’uomo della rottura con il vecchio sistema economico. La manifestazione più paradigmatica della nuova tendenza fu la nazionalizzazione delle terre agricole coloniali da parte del nuovo regime. Dopo aver effettuato questa doppia rottura, politica ed economica, Bourguiba poté realizzare una rottura culturale con la tradizione precoloniale. In essa fu coinvolto anche l’ambito educativo, in particolare attraverso la chiusura dell’università di teologia di al-Zeitouna, che all’epoca incarnava la sopravvivenza di un modello di educazione antiquato, sclerotizzato e incapace di modernizzarsi poiché privilegiava l’apprendimento mnemonico allo spirito critico e alla riflessione, l’imitazione e la venerazione dell’antico all’invenzione e all’audacia della creazione. Infine la rottura fu portata al livello della riforma della pratica religiosa quotidiana. Bourguiba prese visibilmente le distanze dal digiuno di Ramadan che considerava incompatibile con gli obiettivi dello sviluppo economico. Davanti alle telecamere dichiarò, in quanto capo di Stato, di autorizzare i tunisini a non digiunare se questo costituiva per loro un ostacolo nel lavoro, e diede l’esempio bevendo un bicchiere d’acqua in pieno giorno di Ramadan davanti a un mondo musulmano sbalordito. Anche qui l’interesse di questo passo è che si appoggia su una lettura intelligente del patrimonio religioso storico. Bourguiba evidenziò il fatto che al momento di una battaglia il Profeta aveva autorizzato i suoi compagni a rompere il digiuno al fine di poter combattere i nemici. Ora, per lui i più grandi nemici della giovane Tunisia erano la povertà, la miseria e il sottosviluppo, che potevano essere vinti solo con il lavoro, da lui definito grande jihâd, in opposizione al piccolo jihâd della guerra santa. Il combattimento contro il nuovo nemico rappresentato dal sottosviluppo e la promozione del progresso e della modernità autorizzano e rendono necessaria una riforma della tradizione musulmana. Questa esperienza, contrariamente a quanto sostengono i suoi detrattori, tende non a rompere con l’Islam – Bourguiba ha per esempio rifiutato chiaramente il modello kemalista turco – ma piuttosto a riconciliare la tradizione islamica con la modernità. Si tratta quindi di una riforma dell’Islam in nome di una razionalità e di un umanesimo la cui sorgente è presente anche nell’Islam, sebbene ostruita e soffocata da secoli di decadenza. Alla luce di quanto affermato è chiaro che la Tradizione o la Sunna è effettivamente un concetto abbastanza difficile da delineare. Dovremmo parlare piuttosto di tradizioni al plurale. In effetti questa nozione può essere colta solo nella sua pluralità e nella sua evoluzione. Essa si è costituita all’inizio intorno alla rivelazione coranica e alla figura eccezionale del Profeta, ma ha dovuto evolvere in forza di un lavoro di elaborazione lento e minuzioso, nel quale numerosi fattori politici, sociali e geografici sono necessariamente intervenuti. Talvolta essa si è nutrita di apporti esterni lasciando spazio a uno sforzo d’interpretazione e d’invenzione ricco e fecondo; in altri casi essa è stata accaparrata e monopolizzata da una casta di ulema e di mufti che l’hanno rinchiusa in un’imitazione servile e sterile di modelli antichi. Ciò ha provocato una reazione di rifiuto in certi casi e di sottomissione in altri, lasciando di frequente il musulmano ordinario in uno stato di profondo smarrimento. La questione della modernizzazione della tradizione è oggi essenziale, perché attraverso di essa è la questione dell’Uomo che si pone, della sua libertà di pensiero, e del suo libero arbitrio. Per i musulmani in particolare, la questione resta quella di sapere come entrare a pieno titolo nella modernità, condividendo con il resto dell’umanità i valori universali, senza per questo rinnegare se stessi. [1] Muhammad Rashid Rida, Tafsîr, t. III, 141 citato da Ali Mérad, La tradition musulmane, PUF, Paris 2001, 113. [2] In italiano nel testo [n.d.R.]. [3] Maurice Borrmans, Coran et Sunna en Islam: "Sources Fondamentales", in Joseph Doré (dir.), Christianisme, Judaïsme et Islam, Fidélité et Ouverture, Cerf, Paris 1999, 91. [4] Nasr Hamed Abu Zeyd, L’imam Chafii et la fondation de l’idéologie du juste milieu, Centre culturel arabe, Casablanca 2007, 117-160 [5] «El Manâr», 9 (1906), 529, citato da Ali Mérad, La tradition musulmane, 113. [6] Citato da Ali Mérad, La tradition musulmane, 118. [7] Abdelwahhab Meddeb, La maladie de l’Islam, Seuil, Paris 2002, 53-108. [8] In parecchi hadîth il Profeta insiste sull’idea che è soltanto «un essere umano» e che pertanto può aver torto o ragione in tutto ciò che concerne la vita quotidiana.

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