Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:51:25

Questa settimana, dopo diversi mesi di lavoro coordinato di 17 diverse testate giornalistiche internazionali, sono stati resi pubblici i dettagli del progetto Pegasus”. Di cosa parliamo? I giornalisti sono entrati in possesso (non è chiaro come) di una lista di 50.000 numeri di telefono indicati come potenziali obiettivi del software di spionaggio Pegasus, sviluppato dall’azienda israeliana NSO. L’analisi dei numeri di telefono operata dal consorzio giornalistico ha mostrato che la maggior parte delle utenze è messicana, ma una parte consistente riguarda persone legate al Nord Africa e al Medio Oriente. E in effetti è proprio in Medio Oriente che si trovano alcuni dei principali clienti di NSO: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita in testa. In quello che potrebbe configurarsi come uno dei più gravi casi di abuso dei software di spionaggio, figurano tra i potenziali obiettivi membri di famiglie reali arabe, almeno 65 uomini d’affari, 85 attivisti per i diritti umani, 189 giornalisti e più di 600 politici e funzionari governativi.

 

 

La semplice presenza dei numeri telefonici nella lista non implica però un’infezione da parte del malware o un tentativo d’intrusione, né permette di sapere chi e perché abbia messo il numero in quella lista. Tuttavia, l’inclusione nella lista indica sicuramente l’interesse dei clienti di NSO per quella persona. Come ha scritto l’esperto della BBC di sicurezza informatica Joe Tidy, le accuse rivelate con il progetto Pegasus non sono di per sé una novità, ma a stupire è la grande quantità di persone innocenti o di alto profilo che sarebbero oggetto di sorveglianza.

Inoltre, come segnala Le Monde, occorre considerare che la quantità e la tipologia di informazioni che si possono ottenere grazie a Pegasus è molto consistente. Il software di NSO «è più invasivo di un’intercettazione telefonica»: accede alle chat, agli appuntamenti, ai contatti e può attivare senza che l’utente se ne accorga microfono e telecamera.

 

Veniamo ai clienti. Chi ne ha fa uso (e abuso)? Come ha scritto il Guardian uno dei principali beneficiari del software è l’Arabia Saudita. Il quotidiano inglese ricostruisce, grazie alle dichiarazioni di una fonte anonima, l’incontro del 2017 durante il quale uomini d’affari israeliani hanno intavolato la discussione per la vendita del software ai sauditi, previo benestare delle autorità israeliane (uno dei fatti che spinge alcuni a ritenere che Israele abbia accesso a tutti i dati ottenuti tramite Pegasus). A Riyadh – scrive sempre il Guardian – è stato impedito l’utilizzo del software per un breve periodo successivo all’omicidio di Jamal Khashoggi. Scriviamo “breve periodo” perché a seguito dell’intervento israeliano il software è stato “sbloccato” – prosegue il Guardian. 

 

Altro cliente di NSO sono gli Emirati che, insieme all’Arabia Saudita, sono responsabili secondo Le Monde dell’inserimento di oltre 300 numeri di telefono libanesi nella lista dei 50.000. Qui iniziamo a parlare di chi sono gli spiati o potenziali tali. Il Libano è un caso abbastanza impressionante perché, sostanzialmente, tutte le più importanti figure del Paese risultano toccate dalla questione: dal presidente Michel Aoun all’ex premier Saad Hariri, passando per diversi ministri ed ex ministri, il governatore della Banca Centrale e alcuni dirigenti di Hezbollah.

 

L’utilizzo di Pegasus sembra particolarmente esteso anche in Marocco, dove emerge inoltre un dettaglio ancora più preoccupante: secondo quanto riportato da Le Monde,  a scegliere di attuare un programma di sorveglianza di questo tipo, non sarebbe infatti direttamente la monarchia ma i servizi di informazione della Direction générale de la surveillance du territoire (DGST). E, fatto importante, persino il Re Mohammed VI e la sua cerchia ristretta sarebbero sotto sorveglianza. La lista comprende infatti anche la moglie del Re, i ministri, gli ospiti della Corona e gli uomini chiave della sicurezza della corte nella Gendarmeria reale.

A questi si aggiungono poi numerosi giornalisti. Uno di questi, Omar Radi, tra i fondatori del quotidiano indipendente Le Desk, è stato arrestato sulla base di accuse di abusi sessuali e spionaggio. Secondo quanto si legge su al-Monitor i legali di Radi non hanno avuto accesso alle prove che hanno portato alla sua condanna.

 

Inoltre, come scrive Middle East Eye, il Marocco ha utilizzato Pegasus per monitorare figure algerine (e del movimento dell’Hirak), attivando la sorveglianza a scapito di Algeri in particolare dopo la Rivoluzione che ha portato alla caduta di Bouteflika.

 

Identificare le vittime dello spionaggio è utile per comprendere quali sono le preoccupazioni dei clienti di NSO in ambito mediorientale e per essere consapevoli che, a differenza di quanto affermato, il software non è utilizzato solo per sorvegliare terroristi o pericolosi criminali. Come anticipato, l’Arabia Saudita è uno dei principali clienti e dunque non stupisce troppo che alcune delle persone hackerate siano quelle vicine al giornalista e attivista Jamal Khashoggi. Il Washington Post parla di Hatice Cengiz e di Hanan Elatr (che nel 2018 aveva sposato Khashoggi).

Ma per capire l’estensione del problema e l’utilizzo che ne fanno gli Stati autoritari è utile guardare anche a un altro caso: quello della studiosa di origine saudita, ma cittadina britannica, Madawi al-Rasheed, che ha subito un tentativo di hackeraggio. Come ha scritto lei stessa su Middle East Eye: «ho passato più della metà della mia vita scrivendo, facendo ricerca e insegnando. Non vi aspettereste che io possa essere hackerata. Ma queste attività professionali sono un crimine in Arabia Saudita, dove il regime è determinato a controllare la narrazione sul passato, sul presente e sul futuro» della Nazione. I nomi delle vittime mediorientali di Pegasus sono moltissimi. Tra questi si trovano, per citarne solo qualcuno, la principessa emiratina Latifa (potrebbe essere stato proprio questo software a mettere fine alla sua fuga da Dubai), Roula Khalaf, direttrice del Financial Times, e l’attivista saudita Loujain al-Hathloul.

 

Nuove proteste in Iran, questa volta per l’acqua

 

In Iran è tempo di nuove manifestazioni contro il governo. Le proteste hanno avuto luogo nella regione del Khuzestan, nella parte sudoccidentale del Paese che si affaccia sul Golfo Persico. In parte abitata dalla minoranza araba, il Khuzestan è particolarmente importante per la produzione del petrolio iraniano perché ospita l’80% delle risorse onshore del Paese (non a caso, approfittando del caos seguito alla Rivoluzione islamica del 1979, l’Iraq di Saddam Hussein cercò di impossessarsene, riuscendoci dal 1980 al 1982). Tuttavia, come ha scritto Golnar Motevalli su Bloomberg si tratta anche di un’area che spesso soffre per la siccità e l’inquinamento, e le cui condizioni sono ulteriormente complicate da un’estate insolitamente calda che ha contribuito a generare la scarsità d’acqua di cui si lamentano i manifestanti.

 

Un breve passo indietro utile per inquadrare la situazione: come avevamo scritto in alcuni precedenti focus attualità, negli ultimi mesi in Iran si sono verificate delle proteste contro le continue interruzioni di elettricità, dovute anche all’incremento della domanda di energia per far fronte alle temperature elevate. La popolazione è dunque già gravata da questo problema, che in parte si sovrappone a quello idrico, oltre che dalla crisi economica.

 

Come spesso avviene, si guarda alle proteste che hanno luogo in Iran per cercare di capire la solidità del regime. Durante le manifestazioni di questi giorni non sono mancati i cori e gli slogan contro il regime, che si sono uniti alle richieste per ottenere un migliore accesso all’acqua, sia potabile che a fini agricoli e di allevamento.

 

Diversi video pubblicati su Twitter e su altri social network mostrano l’entità delle manifestazioni, durate almeno sei notti consecutive, e della repressione da parte delle forze dell’ordine, che finora ha provocato quattro morti. Con la solita postilla che ci accompagna nell’osservazione dei contenuti sui social network: come ha fatto notare Kian Sharifi alcuni dei video postati e descritti come prova delle manifestazioni in corso sono in realtà semi-fake, perché risalgono a manifestazioni del 2017.

 

Naturalmente le autorità iraniane hanno negato ogni responsabilità nella morte dei manifestanti, e il quotidiano filo governativo Kayhan ha al contrario accusato i “separatisti” e “controrivoluzionari”. Non mancano però figure illustri che hanno a loro modo abbracciato la causa dei manifestanti: se gli ex-presidenti Mohammad Khatami e Mahmoud Ahmadinejad hanno criticato la repressione delle forze di sicurezza, il pronipote di Khomeini ha preso le parti dei manifestanti attraverso la pubblicazione di una storia su Instagram. Anche la Guida Suprema Ali Khamenei venerdì mattina ha affermato che i manifestanti non possono essere biasimati (Reuters).

 

Come ha scritto il Financial Times, la grande rabbia che provano gli iraniani a causa dell’inadeguatezza dei servizi forniti riflette un senso di tradimento nei confronti della Rivoluzione. L’ayatollah Khomeini affermava infatti che proprio l’acqua e l’elettricità sarebbero state disponibili gratuitamente per i poveri. Questo fa sì, prosegue il quotidiano inglese, che «un campo non politico come quello dell’elettricità sia visto dalla popolazione come un’area in cui possa avanzare le sue richieste politiche». Ma la conseguenza è anche che la gratuità di acqua ed elettricità sia percepita come un diritto acquisito. E come spesso accade per i Paesi produttori di petrolio e gas, al centro del problema sta la gestione delle forniture, che si intreccia con la crisi economica e soprattutto con la scelta di sussidiare le forniture: «non c’è una soluzione facile per un Paese che offre sussidi per un totale di 100 miliardi di dollari all’anno», pari a circa il 4,7% del prodotto interno lordo nazionale, afferma Arash Najafi. Il punto chiave è capire come rimuovere almeno in parte questi sussidi, che incentivano i consumi e gli sprechi, senza che chi faccia questa scelta sia costretto a pagarne conseguenze (per lui) insostenibili.

 

Non sono però questi gli unici problemi cui l’Iran si trova a far fronte. Questa settimana infatti è stato decretato un nuovo lockdown nella provincia di Teheran. Inoltre, secondo quanto affermato dal portavoce del governo Ali Rabiei, una commissione del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale ha espresso parere negativo circa la possibilità di riattivare l’accordo sul nucleare. La palla passa al nuovo governo presieduto da Ebrahim Raisi che entrerà in carica ad agosto.

 

In settimana l’Iran ha anche aperto il suo primo terminal petrolifero nel Golfo di Oman: un progetto iniziato nel 2019 e costato circa 2 miliardi di dollari, che secondo Hassan Rouhani dovrebbe permettere alla Repubblica Islamica di essere parzialmente indipendente dallo Stretto di Hormuz per le sue esportazioni di idrocarburi. A questo proposito, come ha ricordato al-Jazeera, è stato costruito anche un oleodotto per portare il petrolio della provincia di Bushehr fino al nuovo terminal.

 

Tornano gli attentati a Baghdad

 

Lunedì a Baghdad 30 persone sono morte e oltre 50 sono state ferite in seguito a un attentato suicida. L’attacco si è verificato nel mercato di Wahailat a Sadr City, quartiere a maggioranza sciita nella zona orientale di Baghdad. Come scrive la CNN il mercato era pieno di donne e bambini che si preparavano a festeggiare l’Eid al-Adha. L’attentato è stato rivendicato tramite Telegram da ISIS.

Dopo anni di violenza gli attentati a Baghdad erano diventati relativamente rari – l’ultimo a gennaio, ricorda France24. Ma un commento di un utente iracheno di Twitter descrive bene la sensazione della popolazione: «ogni Eid, c’è una tragedia a Baghdad. È impossibile festeggiare come il resto dell’umanità».

 

Il Pellegrinaggio rituale alla Mecca tra restrizioni sanitarie e digitalizzazione

A cura di Miriam Zenobio

 

La pandemia ha interrotto i piani di espansione del turismo, religioso e non, contenuti nella Saudi Vision 2030, secondo cui l’Arabia Saudita mira a raggiungere i 100 milioni di visitatori l’anno, di cui 30 legati al pellegrinaggio religioso entro il 2025. Considerato il più grande pellegrinaggio annuale del mondo, lo hajj, che in media richiama a Mecca più di due milioni e mezzo di persone, quest’anno è stato reso accessibile a soli 60.000 cittadini e residenti sauditi vaccinati. Tendendo conto anche della ‘umra, il pellegrinaggio minore che si può compiere in qualsiasi momento dell’anno, Mecca e Medina di norma attraggono fino a 9,5 milioni di visitatori ogni anno.

 

Tuttavia, per il secondo anno di seguito l’evento è stato contenuto per far fronte alla pandemia di Covid-19, che nel 2020 aveva convinto le autorità saudite a limitarlo al numero massimo di 10.000 partecipanti. Per mostrare come è cambiato il pellegrinaggio negli ultimi decenni, Al Jazeera propone una serie di infografiche, inclusa un’esperienza video a 360° per calarsi virtualmente nell’atmosfera dello hajj.

 

Oltre a fissare stringenti requisiti per la partecipazione, anche il ministero saudita dello Hajj e della Umra si è affidato alla sofisticata tecnologia dell’Internet delle cose per scongiurare il contagio, spiega il saudita Arab News. Dalle smart cards per prenotare i pasti e trovare l’alloggio assegnato tramite computer e applicazioni, ai braccialetti elettronici che monitorano i parametri vitali di ciascun pellegrino, fino ai robot sanificatori e distributori di bottigliette d’acqua Zamzam, la pandemia ha accelerato la digitalizzazione dei servizi legati al pellegrinaggio alla Mecca. Stando al ministero della Salute, il monitoraggio virtuale e le altre misure di distanziamento sociale avrebbero avuto successo e non ci sarebbero, perciò, casi riportati di coronavirus tra i pellegrini, riporta Al Arabiya da Riyadh.

 

Rassegna dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Questa settimana buona parte della stampa araba ha continuato a parlare della crisi libanese.

 

Su al-Sharq al-Awsat il giornalista e scrittore Hazem Saghieh si domanda quale delle due celebri espressioni – al-Nakba (lett. la catastrofe, espressione usata dagli arabi per descrivere la creazione di Israele nel 1948), o al-Naksa (lett. la battuta d’arresto, termine usato per descrivere la sconfitta araba nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967) – descriva meglio la situazione che sta vivendo il Libano. Sicuramente la prima, dice, per diverse ragioni: il sistema confessionale libanese è giunto al capolinea e non è in grado di esprimere una classe dirigente migliore di quella che ha governato fino a oggi; Hezbollah rimarrà ancora per lungo tempo un fattore influente nella società libanese e la sua sola presenza impedisce l’istituzione di un seppur minimo Stato; tutta la regione del Levante arabo sta crollando, dall’Iraq a Gaza, e nessuno può soccorrere nessuno; il Medio Oriente non rappresenta più una zona d’interesse per l’Occidente, che oggi guarda all’Asia e alla regione del Pacifico. Nel Levante arabo, conclude il giornalista, è iniziata l’«età delle tenebre». Nel vero senso della parola, visto che la regione è spesso senza elettricità.

 

Martedì scorso shaykh Amin al-Kurdi, segretario del Dar al-Fatwa libanese (l’istituzione preposta all’emanazione delle fatwe), ha guidato la preghiera in occasione della festa del Sacrificio alla presenza di molti esponenti della vita politica, sociale, sindacale e militare libanese. Nel sermone ha denunciato la classe dirigente che «affligge il Paese» ed è composta in maggioranza da «signori della guerra, persone corrotte o che tacciono sui corrotti». Al-Kurdi ha concluso dicendo che «la dignità del cittadino è più sacra di qualsiasi poltrona e di qualsiasi carica, e oggi questa dignità è offesa».

 

Al-Nahār ha denunciato il disastro del sistema sanitario libanese e ha parlato di un «inferno della salute» in cui le scorte di medicinali sono sufficienti per un solo mese, nelle farmacie non si trovano più farmaci sovvenzionati dallo Stato, l’Ordine dei farmacisti non riesce a incidere perché diviso al suo interno e lo Stato non ha mai davvero sostenuto la produzione locale di farmaci, che sono sempre stati perlopiù importati. 

 

Secondo il rapporto diffuso dall’Osservatorio della crisi dell’Università americana di Beirut, il Libano si sta avviando verso l’iperinflazione. I prezzi dei beni alimentari di prima necessità sono infatti saliti di oltre il 50% in meno di un mese e il reddito necessario a garantire il sostentamento di una famiglia è cinque volte superiore il salario minimo. La conclusione è che il Libano potrebbe diventare presto il Venezuela del Mediterraneo.

 

Per il quotidiano emiratino al-‘Ayn, il Libano starebbe invece diventando una Somalia, come tutti i Paesi che subiscono l’influenza iraniana: «È finita, il Paese non ha un governo, non ha alternative né opzioni se non aspettare di raggiungere il fondo dell’inferno. È l’inizio della “somalizzazione”». A rendere il quadro ancora più fosco contribuiscono, sempre secondo il quotidiano, lo Stato dell’economia parallela guidato da Hezbollah, che trova il modo di sfamare il suo “popolo”, cioè gli sciiti, ma non si cura del resto della popolazione; e il fatto che l’autorità della corruzione sia più forte dell’autorità delle istituzioni. Dal Libano però non arrivano solo cattive notizie.

 

La vittoria di una lista civica alle elezioni per la presidenza dell’Ordine degli ingegneri rappresenta un barlume di speranza in un Paese paralizzato dalla crisi ormai da quasi un anno. Dalla fine della guerra civile nel 1990 questo ordine professionale infatti è sempre stato controllato dai partiti tradizionali.

 

La piattaforma indipendente Megaphone ha ospitato una riflessione dello scrittore e artista libanese Samir Sekini, il quale ha celebrato il successo del sindacato che, dopo molti anni, è riuscito a smarcarsi dal controllo dei partiti al potere. Questi ultimi, secondo Sekini, hanno perso terreno perché non sono stati capaci di giustificare le loro scelte. Per l’autore, si tratta di un piccolo grande passo avanti: l’Ordine infatti non sarà il salvatore della patria (e neppure gli è chiesto di esserlo), ma può fare buon uso del suo potere per aiutare i gruppi sociali più emarginati e ridurre il caos sociale.  

 

Mentre molti quotidiani arabi, come si è visto, lanciano l’allarme Libano ormai da settimane, il giornale libanese filo-sciita al-Akhbār continua pressoché a ignorare i problemi nazionali, preferendo parlare del ritiro dalle Olimpiadi di Tokyo del judoka algerino Fethi Nourine, sostenitore della causa palestinese che non vuole gareggiare contro un atleta israeliano; o dell’Algeria, preoccupata che il Marocco stia usando Pegasus per spiare i suoi funzionari.

 

In breve

 

I combattimenti in Etiopia sono sconfinati dal Tigrè alla regione di Afar, dove secondo fonti della BBC le forze del TPLF avrebbero ucciso alcuni civili.

 

Secondo Husain Haqqani, ex ambasciatore americano in Pakistan, alcuni settori delle autorità pakistane sono lieti dell’avanzata talebana in Afghanistan. Tuttavia, scrive Haqqani su Foreign Affairs, si tratta di una vittoria di Pirro per Islamabad.

 

Nella zona di Afrin al confine tra Turchia e Siria i ribelli filoturchi della brigata Sultan Murad si sono resi protagonisti di gravi violazioni dei diritti umani che hanno portato 10 donne al suicidio, secondo quanto riferisce al-Monitor.

 

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