Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:56:40

Se escludiamo gli sviluppi dell’ultima settimana, la stampa occidentale tende a ignorare le notizie che provengono dal Sudan. Al contrario, quella araba ha sempre dedicato ampio spazio alla politica sudanese, soprattutto a partire dalla deposizione dell’ex presidente ‘Omar al-Bashir e dal delicato periodo di transizione che negli ultimi giorni è degenerato negli scontri a fuoco tra due leader militari: Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, presidente ad interim del Consiglio Sovrano di Transizione e Mohamed Hamdan Dagalo, capo delle Forze di Supporto Rapido (FSR).   

 

E infatti la crisi in Sudan non è giunta inaspettata per la stampa filo-qatariota: «come previsto, è avvenuto lo scontro fra le milizie» esordisce un articolo di al-‘Arabi al-Jadid, che si interroga: «qual è la vera forza che si cela dietro a questi fatti di sangue?». La risposta è che il golpe altro non è che una mossa della Fratellanza Musulmana, che intende eliminare la sua più grande minaccia: Dagalo e le sue FSR, diventati «all’improvviso i nemici numeri uno dell’esercito». Infatti, sostiene al-‘Arabi, Dagalo e Burhan in passato sono stati «intimi alleati, entrambi coinvolti nei crimini di guerra del Darfur. Si sono spartiti i profitti derivati dall’arruolamento di mercenari nella guerra in Yemen, dagli investimenti sull’oro e da altri affari ottenuti grazie alle istituzioni militari». Soprattutto, «entrambi hanno un legame oscuro con Israele», mentre è evidente il loro collegamento con la compagnia mercenaria russa Wagner. Vi è tuttavia una differenza: Dagalo, detto anche Hemedti (traducibile come “piccolo Mohammed”), «si prepara a un ruolo più grande per il futuro scenario politico sudanese», mentre Burhan «si è limitato a mettere in atto un infelice piano per riportare al potere il movimento islamista». La faida intra-militare è stata efficacemente raffigurata dalla testata con una singolare vignetta: i due generali, travestiti da dinosauri, si azzuffano e si azzannano a vicenda mentre in lontananza si intravvede un asteroide che sta per impattare sulla terra, metafora della volontà popolare che (forse) porterà entrambi all’“estinzione politica”. Nell’articolo che segue si sottolinea che la crisi non è affatto un evento locale: «negli ultimi anni il Sudan si è trasformato in una arena di competizione e di lotta di potenze e di poli geopolitici regionali e internazionali». La conclusione del pezzo sembra però smentire la vignetta: «la fine della guerra militare non è imminente, alla luce del rafforzamento di ambo le parti […] ciò significa l’interruzione della transizione politica e l’aumento delle sofferenze per i sudanesi». Al Jazeera invita le parti in causa a raggiungere un accordo pacifico nel rispetto degli interessi della popolazione e che non rifletta interessi e agende degli attori esteri. Nonostante questa posizione apparentemente neutrale, in un altro articolo comparso sul sito dell’emittente di Doha, dal titolo «torneranno gli islamisti al potere in Sudan?», emerge una visione che guarda con favore al ruolo del movimento islamista, che pur rappresentando «la corrente politica più forte e diffusa, organizzata e avente legami e alleanze con molte altre formazioni sudanesi», rischia di essere messo in crisi dall’alleanza tra i militari e le Forze della Libertà e del Cambiamento, un’ampia coalizione di partiti e associazioni civili che potrebbe portare alla formazione di un nuovo esecutivo in funzione antislamista. Forse – ipotizza la testata – la ragione che spiega il comportamento di questo gruppo alleato con i militari è data dal «senso di inadeguatezza e di incapacità nello sfidare a livello politico o elettorale gli islamisti, che sembrano più preparati e fiduciosi nel vincere la tornata (elettorale)».      

 

Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista e attivista sudanese Shafi Khader Said pur ribadendo il fatto che la crisi fosse da tempo nota, aggiunge: «è vero che in Sudan il fallimento dei periodi di transizione ha portato in passato a dei golpe militari, e anche i successivi e brevi periodi di democrazia si sono rivelati dei fallimenti […] tuttavia, è evidente che i pessimi sviluppi dell’attualità sono di tutt’altro tipo rispetto a quelli del passato […] Questa situazione catastrofica esplosa a partire dal 15 aprile era prevista e attesa; solo un inesperto dalla vista corta si meraviglierebbe e si stupirebbe di quello che sta accadendo». Un editoriale del quotidiano panarabo precisa che l’intesa tra Burhan e Hemedti dipendeva anche dall’andamento della crisi in Libia e Yemen, dove erano presenti truppe sudanesi, ma soprattutto «dalle indicazioni di Abu Dhabi», che stava lavorando al processo di normalizzazione delle relazioni tra i due generali e Tel Aviv.

 

La visione della stampa emiratina è, non a caso, piuttosto diversa da quella espressa dai giornali filo-qatarioti. Al-Ittihad non nega la gravità della situazione attuale, ma individua la causa dell’attuale crisi nel lungo governo autoritario dell’ex presidente ‘Omar al-Bashir, apostrofato come un «membro dei Fratelli musulmani», capo «fondamentalista» di un «regime che, nell’arco di trent’anni, è stato influenzato dalle idee, teorie e sermoni ideologici della Fratellanza», facendo in modo che l’esercito si dividesse in correnti e fazioni. Quest’ultime vengono paragonate ad altri “esempi mediorientali da non seguire”, come il movimento libanese Hezbollah, gli Houthi sciiti yemeniti, le milizie siriane e irachene. Ci sarebbero, insomma, tutti i «presupposti di una guerra civile» simile a quelle generatesi a seguito delle Primavere Arabe del 2011. Per al-‘Ayn al-Ikhbariyya, che si differenzia su questo punto da quanto hanno scritto al-Quds al-‘Arabi e al-‘Arabi al-Jadid, l’escalation di violenza non era affatto prevedibile, anzi si tratta di un «conflitto inaspettato»: «la situazione in Sudan si è deteriorata in maniera non prevedibile e con un ritmo accelerato che non ha permesso a molti di spiegare o di comprendere che cosa stava accadendo. Non sono ancora chiare le ragioni che si celano dietro questi sviluppi rapidi e improvvisi». Il quotidiano panarabo (ma filo-emiratino) al-‘Arab traccia un ritratto piuttosto benevolo di Dagalo: il passato nella milizia dei Janjaweed nel Darfur e il business delle miniere d’oro è innegabile; tuttavia, il militare «dalle amicizie altolocate con sauditi ed emiratini» ha parlato, dopo la deposizione di al-Bashir nel 2019, della necessità di instaurare una «democrazia reale», aprendo il dialogo con diverse forze nazionali, opposizioni incluse, e interlocutori occidentali. L’obiettivo di Dagalo sarebbe quello di consegnare il potere nelle mani dei civili e «fermare la sequela di golpe militari» che hanno caratterizzato gli ultimi anni della politica sudanese. Ben diversa l’opinione del quotidiano sulla figura di Burhan, sintetizzata nel titolo: “il nuovo inganno di Burhan in Sudan…democrazia, ma all’ombra dei generali”. L’autore dell’articolo, il giornalista iracheno ‘Ali al-Sarraf, comprende le difficoltà della società civile sudanese nel prendere le parti di uno dei due generali, e per questo si permette di dare un “consiglio”: «i partiti della società civile sanno qual è la parte buona dello scontro. Sanno chi tra i due ha voluto stravolgere l’“accordo quadro”, così come sanno chi dei due era vicino alla rivoluzione che ha deposto ‘Omar al-Bashir e chi è più meritevole di fiducia». Secondo questa interpretazione, Burhan avrebbe approfittato della conclusione dell’accordo con Dagalo (integrare le FSR nell’esercito regolare) «vendendo la leadership del Consiglio Sovrano per un altro incarico». Il tutto senza considerare il fatto che il colpo di Stato da lui orchestrato il 25 ottobre 2021 contro Abdallah Hamdok si è rivelato disastroso, provocando la reazione indignata della popolazione e «fallendo nel convincere il mondo di meritare sostegno e fiducia». Non si trattava quindi un atto di buona volontà, quello di consegnare il potere nelle mani dei civili; oggi come allora, il generale si è mosso sulla base dei propri interessi e convenienze, avendo cura però di mascherarli sotto le insegne di un percorso democratico.

  

Anche la stampa saudita mostra sorpresa di fronte a quanto sta accadendo. Il giornalista palestinese Bakir Oweida scrive per Al-Sharq al-Awsat: «nonostante si fossero verificati diversi scontri per via di manifestazioni giovanili che chiedevano di completare la transizione democratica, fino all’alba di sabato 15 aprile non c’erano avvisaglie di un imminente escalation di violenza all’interno dell’esercito». Anche Salih al-Qulab, ex ministro giordano della cultura e dell’informazione, scrive con stupore che quanto successo giunge «completamente inaspettato», dato che «il Sudan è considerato da sempre come il Paese arabo più sicuro e tranquillo», almeno fino ai disordini attuali. Di particolare interesse un altro articolo della testata saudita, che sembra fare da contrappunto ai motivi ricorrenti nella stampa emiratina, e che invita a sostenere l’esercito regolare di Burhan («per quanto sia vero che nei suoi ranghi ci siano gli islamisti») e condannare le Forze di Supporto Rapido, aventi legami «familistici e tribali». Segue, poi, una stoccata a chi ha tentato di riabilitare la figura di Dagalo: «coloro che dicono di scommettere sul fatto che Hemedti è un difensore della democrazia, del governo civile, dello Stato di diritto sono dei disonesti che tralasciano volontariamente l’onta del suo passato di sangue in Darfur […] l’uomo non ha qualità democratiche e nemmeno militari; l’unica cosa che gli importa è la difesa dei suoi affari, che si sono ingranditi con il saccheggio delle risorse naturali del Paese».

  

Piuttosto poveri di contenuto, invece, gli editoriali dei giornali egiziani. Al-Ahram quasi non commenta la vicenda, limitandosi a pubblicare, tre giorni prima del “golpe”, qualche articolo retorico che elogia i legami culturali e storici comuni ai due Paesi. Dello stesso tenore il commento di al-Masri al-Yaoum, che descrive, in maniera piuttosto banale, il Sudan come un «Paese bello, vicino al cuore dell’Egitto e degli egiziani». Va invece all’attacco la testata filo-islamista Al-‘Arabi 21, che accusa il presidente al-Sisi di doppiogiochismo: «per quanto riguarda la posizione di al-Sisi nel cooperare con i Paesi vicini nello scenario regionale, rileviamo una lampante contraddizione nella posizione da lui adottata»: se in Libia sostiene le milizie non governative di Haftar contro quelle “regolari” di Tripoli, «nel caso sudanese mette sullo stesso piano l’esercito nazionale con le Forze di Supporto Rapido», chiedendo il raggiungimento di un accordo tra le due parti. Questo atteggiamento “neutrale” sarebbe per ‘Arabi21 espressione dei desiderata emiratini, al quale segue un amaro sfogo: «il ruolo egiziano a livello internazionale è in declino, e non abbiamo più voce in capitolo nelle grandi questione della nostra regione». La causa di questo declino? Naturalmente «il golpe militare del 2013» che ha messo fine al governo di Mohammed Morsi, «primo presidente eletto democraticamente».

 

L’arresto di Ghannouchi in Tunisia: qualcuno festeggia, altri denunciano [Chiara Pellegrino]

 

L’arresto di Rachid al-Ghannouchi, leader del partito tunisino islamista Ennahda è un’altra delle notizie che ha monopolizzato l’attenzione dei media arabi. Le reazioni di questi ultimi variano molto a seconda dell’orientamento e soprattutto della proprietà dei vari quotidiani. Il quotidiano panarabo londinese al-‘Arab, vicino alle posizioni degli Emirati Arabi Uniti, ha titolato «L’arresto di Ghannouchi è un segnale che lo scontro tra Ennahda e lo Stato è sempre più vicino» e si è domandato se la chiusura delle sedi del partito porterà anche allo scioglimento del movimento.  L’articolo riporta il sentiment diffuso negli ambienti politici tunisini filo-regime, secondo i quali «il discorso altezzoso di Ghannouchi e il suo accenno all’opzione della “guerra civile” dimostrano che il movimento Ennahda vuole preservare una realtà che gli consenta di prendere di mira le istituzioni statali con le sue campagne e le dichiarazioni dei suoi leader». Nello stesso editoriale si legge anche che «i riferimenti di Ghannouchi alla “guerra civile” evocano nella memoria dei tunisini le operazioni violente compiute da elementi affiliati al movimento nel 1987 e poi nel 1991 contro coloro che non condividevano le loro idee, compresi gli imam delle moschee e i membri del partito al potere».

 

Il quotidiano al-Sharq al-Awsat, di proprietà saudita e anch’esso fortemente ostile all’Islam politico, ha pubblicato un editoriale firmato dal politologo egiziano ‘Amr al-Shubaki, che ha elogiato la virata presidenzialista di Saied, esortandolo a proseguire nelle riforme e a tenere a bada i suoi detrattori: «C’è una corrente che, senza nessuna logica, si scontra con il progetto del presidente Said, rifiuta tutto ciò che è accaduto, parla di colpo di Stato, non riconosce la nuova Costituzione e chiede addirittura la destituzione del presidente, salito al potere attraverso elezioni democratiche libere in cui ha ottenuto il 76 per cento dei voti. Questa corrente definisce l’epoca precedente l’arrivo di Saied “epoca d’oro” in cui la Tunisia ha sperimentato la democrazia, benché una larga parte del popolo tunisino non la pensi così e la consideri un modello fallimentare». Secondo al-Shubaki, che sembra ignorare tutti i vizi dell’attuale regime, il progetto precedente l’arrivo dell’attuale presidente «soffriva di un problema strutturale, insito cioè nella Costituzione, che produceva un sistema incapace di azione, con due capi all’esecutivo: il presidente della repubblica e il primo ministro». «Il passaggio al sistema presidenziale rappresenta un punto positivo e necessario per la costruzione di un nuovo sistema politico in cui vi sia un solo capo dell’esecutivo, che è il presidente della repubblica, un parlamento che esercita una funzione di controllo, e un’autorità giudiziaria indipendente».

 

Anche il quotidiano emiratino al-‘Ayn ha di fatto celebrato l’arresto di Ghannouchi, titolando «Saied tallona i Fratelli tunisini [dichiarando] “guerra” a coloro che mancano di senso patriottico» e dando risalto ad alcune dichiarazioni del presidente: «Oggi stiamo conducendo una guerra di liberazione nazionale per imporre la nostra piena sovranità... non torneremo indietro». Lo stesso quotidiano ha titolato anche «La caduta di Gannouchi, il “padrino del terrorismo”. La Fratellanza tunisina esala i suoi ultimi respiri». Secondo il politologo tunisino al-Sahbi al-Siddiq, intervistato dal quotidiano, «Ghannouchi ha commesso molteplici crimini, ha affamato il popolo tunisino, ha distrutto un intero Paese e ha mandato la Tunisia in bancarotta, pertanto non dovrebbe restare impunito». Il leader di Ennahda, inoltre, sarebbe indagato anche per arruolamento di alcuni tunisini nelle fila dei gruppi terroristici in Siria e Iraq, e per riciclaggio, ha spiegato ancora il politologo.

 

Di segno opposto sono gli editoriali comparsi sui quotidiani filo-islamisti o filo-democratici, generalmente finanziati dal Qatar, come ‘Arabi21 o al-Quds al-‘Arabi. Il primo ha riportato stralci di una intervista rilasciata da Recep Tayyip Erdoğan  al canale turco Trt, in cui il presidente turco si è detto costernato per l’arresto di Ghannouchi e ha espresso la volontà di parlare personalmente con le autorità tunisine. Sempre ‘Arabi21 ha inoltre riportato un tweet della figlia del leader di Ennahda, Somaya Ghannouchi, che ha raccontato brevemente la dinamica dell’arresto del padre, un arresto che tradisce «la spregevolezza del colpo di Stato».

 

Al-Quds al-‘Arabi ha parlato di «processi tirannici che si radicano giorno dopo giorno» e ha scritto che «l’arresto, con il pretesto di una serie di accuse vaghe, tra cui quella di corruzione, insabbiamento del terrorismo, lesione della reputazione dell’esercito, complotto contro la sicurezza dello Stato o il tentativo di cambiare l’organismo di governo, resta una spada di Damocle sulla testa di coloro che rifiutano il dispotismo del Palazzo di Cartagine».

 

La Lega araba serve ancora? [Chiara Pellegrino]

 

Il prossimo 19 maggio a Riyadh si terrà il 50esimo vertice della Lega araba. Al-‘Arabi al-Jadid si domanda se la Lega abbia ancora ragione di esistere in questa forma o se invece sia diventata un’istituzione anacronistica che andrebbe sciolta. A suscitare la domanda è la consapevolezza dell’incapacità di questa organizzazione di incidere in maniera concreta: nei 78 anni della sua esistenza, le decisioni prese durante i vertici sono state sempre «lettera morta», «non hanno avuto alcun impatto effettivo a livello di attuazione e non hanno cambiato nulla nella realtà». Un esempio è «il vertice dei tre no, che si è tenuto nell’agosto 1967 in seguito alla nakba e che adottò lo slogan “nessuna riconciliazione, nessun negoziato, nessun riconoscimento di Israele”». L’autrice dell’articolo, Susan Jamil Hasan, si domanda che fine abbiano fatto questi tre no, visto che Israele ha aperto ambasciate e missioni diplomatiche in più di un Paese arabo, e stipulato diversi accordi economici con parecchi Stati. Un altro esempio è il vertice di Sharm el-Sheikh nel 2003, in occasione del quale i leader arabi hanno concordato sulla necessità di risolvere la crisi irachena attraverso vie pacifiche, evitando la guerra. Si è visto poi come sono andate le cose. Il cuore del problema è che «ciascun Paese arabo ha i propri problemi interni, i propri obiettivi e le proprie alleanze – intra-arabe, regionali e internazionali – che impediscono di adottare una posizione univoca sulle questioni calde della regione».

 

Sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista libanese Samir ‘Atallah invece ha manifestato le sue speranze nel vertice di Riyadh, dicendo che questa sarà la volta buona grazie all’intraprendenza del principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, «che considera ogni indugio una perdita di tempo» e che, per questo, pare molto determinato a trovare delle soluzioni concrete ai problemi che da anni attanagliano il mondo arabo.

 

Uno di questi problemi è senz’altro la questione palestinese, su cui si sono riaccesi i riflettori nelle scorse settimane in seguito alle violenze scoppiate intorno alla moschea di al-Aqsa. Su al-Jazeera Sulayman Saleh, professore di Comunicazione al Cairo, ha denunciato le colpe dei media che per partito preso sostengono Israele e non danno mai la possibilità ai musulmani di chiarire le loro posizioni. I toni dell’editoriale sono decisamente apocalittici: «è in corso uno scontro tra due visioni inconciliabili, per questo la moschea di al-Aqsa sarà causa di una guerra globale. L’arrivo al potere in Israele dell’estrema destra capeggiata da Ben Gvir prelude a un’esplosione che non può essere evitata, a meno che il mondo possieda la saggezza e si formi un’opinione pubblica globale che affronti i piani israeliani e costringa il governo israeliano a frenare gli estremisti». Obbiettivo della destra religiosa israeliana, ha spiegato Saleh, è «ricostruire il Tempio di Salomone sulle sue antiche rovine».

 

Il predicatore kuwaitiano che suscita l’ira dei sauditi [Chiara Pellegrino]

 

Un tweet del predicatore kuwaitiano Tareq al-Suwaidan (quasi 10 milioni di follower), ha suscitato le ire dei sauditi, costringendo il chierico a cancellarlo e porgere le sue scuse. Nel tweet, al-Suwaidan scriveva: «La moschea sacra [Grande moschea di Mecca] e la moschea di al-Aqsa sono sorelle; le ha unite la Rivelazione e le uniscono le luci e le benedizioni della Notte del Destino (Laylat al-qadr). Chiediamo al Signore, gloria a Lui, che presto le unisca anche la liberazione, e che ci conceda di pregare in entrambe». La notizia è stata riportata da ‘Arabi21 e successivamente commentata da al-‘Arab. I detrattori del chierico hanno immediatamente lanciato l’hashtag “al-Suwaidan vuole liberare la Mecca”. Secondo alcuni, «il contenuto del tweet di al-Suwaidan è un riferimento all’idea di internazionalizzazione delle due sacre moschee promossa dagli iraniani, oltre che dalla Fratellanza musulmana e dagli estremisti, e viene utilizzata nella propaganda contro l’Arabia Saudita per distorcere la sua immagine di pioniera del pensiero e dell’eredità islamica». Secondo altri, invece, è piuttosto sospetto il tempismo del tweet di al-Suwaidan, il cui obiettivo sarebbe stato offendere l’Arabia Saudita per punirla del ruolo preponderante che nelle ultime settimane ha giocato nella regione.

 

In questi ultimi giorni di Ramadan, i musulmani hanno celebrato la Notte del Destino, in arabo Laylat al-Qadr, momento in cui secondo la tradizione islamica l’angelo Gabriele avrebbe rivelato il Corano al profeta Muhammad e che, per questo, è considerata particolarmente benedetta da tutti i musulmani. Al-‘Arabi al-Jadid ha pubblicato una bella galleria fotografica delle celebrazioni e dei momenti di preghiera che si sono tenuti per l’occasione in diverse moschee del mondo, da Mecca a Sarajevo. Lo stesso ha fatto il quotidiano saudita al-Riyadh pubblicando una serie di fotografie scattate dall’alto che ritraggono le migliaia di pellegrini in preghiera a Mecca per la Notte del Destino.

 

Cent’anni dalla nascita di Nizar Qabbani [Chiara Pellegrino]

 

Il 21 marzo scorso ricorreva il centenario della nascita di Nizar Qabbani, poeta di origine siriana tra i più amati nel mondo arabo (ne avevamo parlato qui). Al-‘Arabi al-Jadid ne ha celebrato il ricordo e il genio: «Probabilmente Nizar non è superiore ai poeti che lo hanno preceduto o ai suoi contemporanei, a renderlo unico è lo stile apparentemente semplice ma in realtà inarrivabile (al-sahl al-mumtani‘). Affascinati, i ragazzi e le ragazze leggono le sue poesie, in segreto o pubblicamente, e le trascrivono nelle loro lettere. E se lui, o lei, vuole esprimere il suo amore, trascrive le parole di Nizar nelle sue lettere e brucia il bordo del foglio, e non menziona il nome del maestro dell’amore Nizar, cosicché sembra che sia lei la poetessa o lui il poeta».

 

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