Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:36:07

Uno dei temi che ricorre più frequentemente sulla stampa araba è la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra il mondo arabo e Israele. Questa settimana l’apertura di una nuova ambasciata d’Israele a Manama, che sostituisce quella aperta nel 2021, ha fornito lo spunto per una nuova serie di commenti. Sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arabi al-Jadid, l’egiziano Ahmad El-Jendy delinea lo stato dell’arte dei rapporti tra Israele e il Bahrein partendo dalle dichiarazioni di due studiosi del Centro israeliano di Studi sulla sicurezza nazionale, secondo i quali le relazioni tra Tel Aviv e Manama «si stanno dirigendo verso un vicolo cieco» e la pace con il Bahrein è sostanzialmente una «pace dimenticata». Le ragioni del «raffreddamento» sarebbero essenzialmente tre: le pressioni esercitate dalla società civile bahreinita, contraria alla normalizzazione (secondo i sondaggi, nel 2020 il 40% della popolazione era favorevole, oggi la percentuale è scesa al 20%), la politica aggressiva del governo israeliano nei confronti dei palestinesi e dei luoghi sacri dell’Islam, che acuisce l’ostilità araba nei confronti di Tel Aviv e, infine, il fattore economico: dall’accordo il Bahrein ha ottenuto un ritorno economico inferiore a quanto aveva previsto (nel biennio 2021/2022 il volume degli scambi tra i due Paesi ha raggiunto soltanto i 20 milioni di dollari). Diversi i segnali della disaffezione bahreinita verso gli Accordi di Abramo. Tra questi, la decisione presa lo scorso luglio dal piccolo regno di rinviare la visita del ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen a Manama, ma anche la scelta del ministero dell’Istruzione del Bahrein di sospendere la revisione dei programmi di studio, che prevedeva una mitigazione dell’ostilità verso Israele e l’aggiunta di alcune lezioni relative all’accordo di normalizzazione siglato con Tel Aviv. Quest’ultima decisione in particolare è conseguenza di una petizione firmata da alcune autorità religiose del Bahrein, secondo le quali gli emendamenti costituiscono «una violazione grave e inedita delle nostre costanti, dei nostri valori e della nostra appartenenza, ed è un’evidente presa di distanza dalla questione della moschea di al-Aqsa, ciò che noi rifiutiamo categoricamente». Tuttavia, il «raffreddamento dei rapporti», scrive al-Jendy, «non significa che gli accordi tra i due Paesi siano a un punto morto. Ad alti livelli infatti i contatti proseguono: inoltre i tentativi di raggiungere un accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita parrebbero essere stati mediati dal ministro degli Esteri del Bahrein, ‘Abdullatif al-Zayani, mentre l’attuale ministro israeliano del Turismo è stato il primo ministro dell’attuale governo a visitare Manama lo scorso giugno, su invito della sua controparte del Bahrein. Senza dimenticare le visite segrete effettuate dagli ufficiali militari israeliani in Bahrein.

 

Da diversi mesi, inoltre, sui media arabi si fanno previsioni su una possibile normalizzazione anche tra l’Arabia Saudita e Israele. Al-‘Arab, quotidiano panarabo con sede a Londra e vicino alle posizioni emiratine, si interroga su che cosa potrebbe significare per la Palestina la normalizzazione tra questi due Paesi e titola “Il peso politico saudita nella bilancia israelo-palestinese”.  «Alla luce delle mosse americane per normalizzare le relazioni tra il Regno dell’Arabia Saudita e Israele, i palestinesi si rendono conto che, questa volta, nuotare contro corrente non funzionerà e che la linea dura tenuta in occasione della firma degli accordi di normalizzazione tra gli Emirati, il Regno del Bahrein e l’entità israeliana oggi confliggerebbe con il realismo politico», scrive Hamid Qaraman. Il processo di normalizzazione non può essere fermato, ma l’Autorità palestinese può comunque cercare di ottenere un vantaggio. L’Arabia Saudita, tradizionalmente sostenitrice della causa palestinese, rappresenta dunque l’ultima possibilità per la Palestina di negoziare condizioni migliori con Israele, ed è per questo che la prossima settimana una delegazione palestinese si recherà a Riyadh. «L’Arabia Saudita eserciterà il suo peso politico a favore del processo di pace costruito dai palestinesi a partire dagli accordi di Oslo e, successivamente, attraverso le svolte politiche che però non hanno realizzato ciò che i palestinesi speravano, ovvero fondare il loro Stato su [le terre] occupate il 4 giugno 1967. Senza usare tanti giri di parole, l’interesse dei palestinesi oggi è legato, in un modo o nell’altro, a ciò che l’Arabia Saudita proporrà in cambio della “normalizzazione dei rapporti” con l’entità israeliana e a ciò che vorrà imporre agli Stati Uniti, i quali saranno attenti a garantire l’avanzamento del “processo di normalizzazione” secondo quanto sarà concordato tra le due parti, in virtù del fatto che l’Arabia Saudita è diventata uno dei Paesi sviluppati capace di imporre la propria visione politica». In definitiva, oggi i palestinesi possono trarre vantaggio dal nuovo posizionamento dell’Arabia Saudita sullo scacchiere geopolitico internazionale: «L’Arabia Saudita di oggi non è come l’Arabia Saudita di ieri, e questo è ciò di cui i palestinesi oggi hanno più che mai bisogno. Questo per diverse ragioni, la più importante della quale è preservare l’entità politica palestinese rappresentata dall’Autorità palestinese, il “nucleo dello Stato”, sostenendolo politicamente e finanziariamente».

 

Di segno opposto è l’editoriale pubblicato da al-Quds al-‘Arabi – “La Gerusalemme araba”, quotidiano panarabo fondato a Londra dalla diaspora palestinese – che ha titolato “La normalizzazione a servizio dell’espansione israeliana e dello sradicamento dell’idea dello Stato palestinese”. Ibrahim Nawar, economista e politologo egiziano, ripercorre la storia delle normalizzazioni tra mondo arabo e Israele, iniziata 44 anni fa con l’accordo tra Egitto e Israele nel 1979 a cui è seguito l’accordo di pace con la Giordania nel 1994, per arrivare infine agli accordi di Abramo nel 2020. A essere cambiato nel tempo è il paradigma su cui si sono fonda l’idea di normalizzazione: «la normalizzazione tra l’Egitto e Israele si fondava su un’equazione per cui la normalizzazione è il “prezzo della pace”, e la pace tra Israele e i Paesi arabi si fonda sul principio di “terra in cambio di pace”, ciò che in concreto significava la normalizzazione in cambio della fine dell’occupazione della Cisgiordania e del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Gli Accordi di Abramo del 2020, invece, si fondavano sul principio istituito da Netanyahu della “pace per la pace”». Mentre Israele storicamente ha sempre beneficiato delle normalizzazioni a livello politico, economico, militare e sicuritario, i Paesi arabi che hanno firmato gli accordi hanno sempre dovuto fare i conti con ondate di malcontento popolare, disordini e tensioni politiche interne. L’idea di Nawar inoltre è che il rifiuto popolare degli accordi di normalizzazione abbia favorito l’ascesa degli islamisti, seppure con modalità diverse secondo i Paesi. In Egitto gli islamisti si scontrarono con il regime nazionalista di Anwar Sadat, scrive l’editorialista, mentre in Giordania «la forza degli islamisti emerse nel Parlamento e nelle piazze politiche, in segno di protesta contro l’accordo di Wadi Araba (1994). Per questa ragione, tra il Palazzo hashemita e il Parlamento prevalse uno stato di tensione e vennero emanate delle leggi per fermare gli accordi di normalizzazione, ciò che finì per trasformare la pace israelo-giordana in una mera “pace fredda”, come fu nel caso dell’Egitto. Analogamente, la firma degli Accordi di Oslo a Washington nel 1993 fu la scintilla che accese l’influenza della corrente islamista palestinese a Gaza e in Cisgiordania». Sul versante israeliano, gli accordi di normalizzazione, in particolare quelli di Oslo, hanno invece favorito l’ascesa del «sionismo religioso» e l’aumento degli insediamenti. Nel 1979, ricorda Nawar, i coloni in Cisgiordania e a Gaza erano circa 10.000, all’inizio del 2023 erano oltre 700.000, di cui 503.000 in Cisgiordania e più di 200.000 a Gerusalemme Est.

 

 

Concluso il dominio francese in Africa, inizia quello dei golpe [a cura di Mauro Primavera]

 

In maniera quasi corale, la stampa araba ha interpretato il colpo di Stato in Gabon come l’ennesimo segnale della perdita di influenza e autorevolezza della Francia in Africa. Per il quotidiano panarabo al-‘Arab «il fallimento delle politiche francesi allunga la lista dei golpe africani» e la caduta dell’ennesima «tessera del Domino» mette in evidenza il fallimento di Parigi nel contrastare le milizie dello Stato Islamico. L’editoriale di al-‘Arabi al-Jadid è impietoso: «con l’insediamento del presidente Macron, la Francia sta vivendo la peggiore situazione in assoluto: con la sua presunzione e mancanza di esperienza, ha piantato un altro chiodo nella bara della perdurante egemonia su questo continente da lei usurpato […] così il trono dell’imperialismo francese si è sgretolato con incredibile rapidità», assistendo impotente ai colpi di stato in Burkina Faso, Niger e Gabon. La critica a Parigi continua in un articolo a firma del giornalista egiziano Wael Qandil dal titolo “Il giovane che sconfisse la Francia e mise in ritirata la francofonia”. Per capire chi è il giovane in questione basta guardare la vignetta di apertura: si tratta del presidente francese in carica, che dapprima afferma con malcelata ipocrisia: «rispettiamo le differenze che ci sono tra noi e voi», per poi aggiungere con fare assertivo: «ma questo non significa che noi vi rispettiamo!». Nel pezzo si sottolinea come in passato furono molti gli scrittori e gli intellettuali arabi che dichiararono la propria appartenenza alla cultura francese, talvolta a sproposito: «conoscevo uno scrittore egiziano che non aveva nemmeno finito la scuola superiore, ma che continuò a ripetere finché visse che era un figlio devoto della cultura francofona, anche se non era in grado di dire due frasi in francese». Così, mentre la Francia proseguiva l’occupazione e la colonizzazione dell’Africa e del Medio Oriente, le élite intellettuali arabe si lasciavano sedurre e affascinare dai numerosi legami e iniziative culturali che Parigi aveva cura di organizzare. Un clima che, però, ora sta declinando rapidamente, come dimostra il forfait dell’Algeria all’ultimo summit dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia tenutosi sull’isola tunisina di Djerba lo scorso novembre (ne avevamo parlato qui): «la Francia di Macron – prosegue Qandil – deve fare i conti con la realtà e individuare i fattori obiettivi e razionali che hanno spinto i Paesi del giardino della francofonia a preferire l’autoritarismo militare al posto della democrazia sostenuta dai francesi». L’autore riprende la metafora presente nel precedente pezzo di al-‘Arabi: Macron ha tradito i valori della Rivoluzione francese e rappresenta un «chiodo nella bara» della cultura francofona, a causa di alcune sue «dichiarazioni in cui emerge il razzismo e un assurdo senso di superiorità» rispetto alle culture di altri popoli.        

 

Un articolo di al-Sharq al-Awsat dal titolo “che succede alla politica francese?” descrive lo “stato confusionale” di Parigi e paragona la Francia di oggi al Vaticano della battuta che Stalin avrebbe rivolto a Churchill durante la conferenza di Jalta del 1945 a proposito di un possibile coinvolgimento della Chiesa nel processo di pace del secondo dopoguerra: “quante divisioni ha il Papa?”. «La stessa domanda si applica ai francesi: sono in grado, o quantomeno desiderano far scoppiare una guerra in Niger? Oppure si può immaginare che la loro posizione sia razionale?». «Ma la cosa più ironica – secondo l’autore, è che «Parigi parla della necessità di applicare il sistema democratico in Africa, e nel resto del mondo, mentre vieta ad alcuni suoi cittadini di indossare l’abaya: che cos’ha a che vedere questo con il pluralismo e con l’accettazione dell’altro? Inoltre la Francia vuole un sistema democratico in Niger, così come altrove, ma tenta di riabilitare i terroristi di Hezbollah in Libano». Queste contraddizioni stanno generando per il quotidiano panarabo una vera e propria «isteria irrazionale» che potrebbe innescare in Africa nuove spirali di violenza e flussi migratori. Al-Quds al-‘Arabi si allinea sul parere delle altre testate e sostiene che la serie di golpe ha portato a galla i gravi problemi sociali ed economici dell’Africa «ereditati dalla colonizzazione francese». Questi, pur rappresentando un «risveglio tardivo», non possono però essere la soluzione per lo sviluppo e la sicurezza del continente.  Ancora più fosco lo scenario descritto dalla testata filo-islamista al-‘Arabi 21: nonostante l’inesorabile declino della Françafrique, «la via dell’Africa verso la liberazione, diretta e indiretta, dal colonialismo occidentale è ancora lunga e il prezzo richiesto non è stato ancora pagato», mentre il posto lasciato libero dagli europei potrebbe venire occupato da nuove potenze straniere.

 

 

Il grande Kurdistan…che non esisterà mai [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Nelle ultime settimane Kirkuk, in Iraq, è stata testimone di scontri che hanno coinvolto i curdi da un lato e gli arabi e i turcomanni dall’altro. Al momento il bilancio è di quattro morti e decine di feriti. A provocare i disordini, spiega Faris al-Khattab su al-‘Arabi al-Jadid, è stata la decisione del Primo ministro Muhammad Shia al-Sudani di consentire al Partito Democratico del Kurdistan di Mas‘ud Barzani di riprendere possesso della sua vecchia sede a Kirkuk, dalla quale era stato espulso nel 2017, in seguito al referendum indetto dal leader del partito sull’indipendenza del Kurdistan iracheno. All’epoca, l’ex primo ministro Haydar al-Abadi, sostenuto dall’ Iran e dalla Turchia, aveva risposto assumendo il controllo di Kirkuk ed espellendo i Peshmerga, le forze curde ufficiali, dalla città. Dopo aver ripreso possesso della sua vecchia sede, il PDK ha issato la sua bandiera sull’edificio, divenuta il simbolo della ritrovata sovranità, e l’amministrazione curda ha voluto celebrare il momento storico stampando un francobollo contenente l’immagine di una statua (in memoria delle forze curde peshmerga a Kirkuk) che regge la bandiera del Kurdistan, sotto la quale campeggia la scritta “Kirkuk è il Kurdistan”. In risposta, la Corte Federale irachena ha dichiarato nulla la decisione di al-Sudani. «La questione di Kirkuk è tutt’altro che chiusa, scrive l’editorialista, e la posizione del governo, legato alle agende dei partiti e ad alleanze esterne rende difficile prendere decisioni nazionali che tutelino gli interessi della popolazione. Contrasti simili potrebbero perciò estendersi ad altri governatorati e aree contese, tra cui Ninive, Diyala, Sulaymaniyya ed Erbil».

 

A Kirkuk «va in scena uno scontro etnico», scrive Ammar Alsawad sullo stesso quotidiano che, in questi giorni, ha dato molto risalto a questo tema. La città vive scontri tra etnie dalla nascita dell’Iraq come Stato-nazione, senza contare che «da vent’anni a questa parte i curdi si adoperano per creare una realtà demografica a loro vantaggio, e sono arrivati al punto di soffocare qualsiasi altra presenza etnica che possa ostacolare l’annessione di Kirkuk alla regione [curda]». Ufficialmente non esistono prove del coinvolgimento degli Stati limitrofi, scrive Alsawad, ma è innegabile che esista un movimento regionale contro i curdi: «gli iraniani stanno intensificando l’attività militare e di intelligence nelle loro regioni curde e nel Kurdistan iracheno orientale a seguito delle proteste contro l’uccisione di Mahsa Amini. Chiaramente l’attività della Turchia è più aggressiva, visto che lancia operazioni militari su larga scala e occupa ufficialmente dei siti nel governatorato di Ninive. Pertanto, è difficile comprendere gli eventi senza considerare il contesto regionale».

 

«I sogni curdi sono diventati un miraggio; i leader curdi si illudevano di creare un grande Kurdistan, ma quel sogno finirà per privarli ​​del piccolo Kurdistan», scrive su al-‘Arab Farouk Yousif, poeta e critico originario di Baghdad, che ripercorre brevemente i momenti salienti della storia dei curdi iracheni. Fino al 1991 né l’Iran né la Turchia vedevano nei curdi iracheni un pericolo per la loro stabilità e sicurezza. A Baghdad c’era un governo forte che era riuscito a porre fine alla ribellione curda nel 1975, quando l’Iraq firmò con l’Iran un accordo di demarcazione dei confini tra i due Paesi. L’espulsione delle forze irachene dal Kuwait e la successiva decisione della coalizione internazionale a guida statunitense di chiudere all’aviazione irachena lo spazio aereo nella regione settentrionale del Paese favorì la riorganizzazione dei curdi. Ma il loro momento d’oro sarebbe arrivato nel 2003, dopo che «il regime iracheno cadde a seguito dell’invasione americana e i curdi riuscirono a costituire la loro entità indipendente nella cosiddetta regione curda che è, in realtà, uno stato nello Stato». I leader curdi, scrive Yousif, non hanno mai voluto considerare la sensibilità dei due paesi confinanti (l’Iran e la Turchia) e hanno continuato a insistere sulla necessità di creare un’entità politica curda indipendente. Ma non ci sarà nessuno stato curdo, perché l’Iraq, l’Iran, la Turchia e la Siria non lo permetteranno, conclude Yousif.

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