Marocco/La nuova Carta si presenta come un’architettura complessa che, ridisegnando ruoli istituzionali, libertà e diritti fondamentali, punta a creare un nuovo equilibrio tra le competenze esecutive. Viene inoltre tratteggiata una nuova definizione delle funzioni monarchiche, distinguendo la funzione di comandante dei credenti dallo status di capo di Stato.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:48

Per comprendere la novità della Costituzione marocchina del 2011, è necessario tracciare prima di tutto le grandi linee della dinamica che ha guidato la redazione di questo testo, che ridefinisce in maniera ampia le prerogative di una serie di istituzioni, come pure i diritti e le libertà fondamentali, e l’organizzazione amministrativa e regionale del Paese. Per convinzione e per opportunismo, la monarchia marocchina non ha mai bloccato del tutto né il gioco istituzionale né il gioco partitico. Dopo la Costituzione autoritaria del 1970, vi fu la Costituzione del 1972, poi l’importante revisione del 1996. Il 1972 segnava la fine della drammatica illusione secondo la quale era possibile governare in spregio dei partiti. Due tentativi successivi di colpo di Stato avevano mostrato al re Hassan II che l’apparato di sicurezza sul quale egli sperava di fondare in modo durevole il proprio potere poteva voltargli le spalle. Il re decise allora di reintrodurre i partiti nel gioco politico. L’idea era di non puntare tutto su una sola carta; il 1996 preparava l’alternanza consensuale del 1998 e gettava le fondamenta della situazione attuale. È principalmente in rapporto a questa lunga sequenza che vanno considerarti i cambiamenti attuali. La riforma costituzionale del 2011 rappresenta, a nostro avviso, il proseguimento e l’ampliamento di una dinamica inaugurata dalla neutralizzazione di due situazioni potenzialmente conflittuali; una principalmente politica, a partire dagli anni ’90, l’altra principalmente sociale, a partire dal 1999. È nel proseguimento della dinamica di neutralizzazione di queste due situazioni che la Primavera araba e il Movimento del 20 febbraio hanno potuto fungere da leva riformista. Numerose evoluzioni istituzionali infatti indicavano da tempo un riorientamento della governance; al tempo stesso i lavori della Commissione consultiva sulla regionalizzazione, la creazione del Consiglio nazionale dei diritti dell’uomo e di un Consiglio economico, sociale e ambientale significavano un cambiamento in profondità delle relazioni tra governanti e governati. Del resto è partendo dalla regionalizzazione che il re, nel suo discorso del 9 marzo, ha annunciato l’istituzione di una commissione di riforma della Costituzione. Questo annuncio ha neutralizzato una terza situazione, quella nata dalla Primavera araba e dalle incertezze circa la volontà del potere marocchino di spingersi oltre nel cambiamento. Perciò non è assurdo pensare che questo potere abbia colto l’opportunità offertagli dal Movimento del 20 febbraio per accelerare le riforme, fondandosi su una domanda esplicita e beneficiando della mediatizzazione di una contestazione che esprimeva alcune delle aspettative socioeconomiche della popolazione. Le riforme sono apparse come una necessità politica consensuale e come il mezzo per evitare le crisi gravi di altri Paesi della regione. Ri-Politicizzare la Vita Pubblica Il testo della Costituzione s’inscrive chiaramente in una logica consensuale. Così, fin dal preambolo, l’espressione «Stato di diritto democratico» è utilizzata senza ambiguità. La scelta democratica fa da cappello a delle costanti federatrici che si articolano attorno alla nozione di «società solidale»: la libertà, le pari opportunità, il rispetto della dignità, la giustizia sociale, la libertà d’espressione, la libertà di culto. Il testo vuole essere rispettoso di una diversità culturale riconosciuta. Accanto alle componenti arabo-islamiche si fa riferimento all’eredità amazigh[1], saharo-hassaniana[2], ebraica, africana e mediterranea. Inoltre, numerose responsabilità politiche e soprattutto sociali, precedentemente confinate in ambito associativo, sono ora assunte dallo Stato attraverso la creazione di un certo numero di consigli, quali il Consiglio consultivo della famiglia e dell’infanzia (art. 32) o l’Istanza nazionale di probità e di lotta contro la corruzione (art. 167). La consacrazione di una monarchia costituzionale, democratica, parlamentare e sociale rivela una volontà di “ripoliticizzazione” della vita pubblica marocchina. I nuovi poteri forti accordati al Capo del governo, le garanzie assegnate all’opposizione parlamentare, la soppressione dell’articolo che conferiva il potere legislativo al re o ancora la creazione di meccanismi partecipativi di dialogo e concertazione (art. 139), istituiti a livello locale dai consigli delle regioni e dalle collettività territoriali, sono altrettanti elementi che attestano questa volontà. La nuova Costituzione presenta tre caratteristiche essenziali: la delimitazione di un ampio perimetro d’azione in favore di un Capo del governo che disponga dei mezzi necessari per svolgere efficacemente la sua funzione e, soprattutto, per controllare la maggioranza parlamentare che lo sostiene; l’affermazione dei poteri d’arbitrato e d’influenza del sovrano; l’istituzione di istanze indipendenti responsabili della protezione e dello sviluppo dei diritti. Questa separazione non mira tanto a separare i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, quanto a delimitare le sfere d’influenza di tre blocchi funzionali. È così che il Governo e il Parlamento sono funzionalmente legati piuttosto che porsi in opposizione o equilibrarsi a vicenda. Se la scelta del Capo del governo avviene necessariamente tra i membri del partito vincitore delle elezioni – secondo una logica parlamentare – questi dispone del diritto di scioglimento – ciò che rappresenta la razionalizzazione del parlamentarismo, tanto più necessaria dal momento che i governi marocchini sono sempre stati di coalizione. Il diritto di scioglimento contribuisce a fare del Capo del governo il vero “padrone” della sua maggioranza. Egli dispone inoltre della possibilità d’impegnare la responsabilità del governo su un progetto di legge, ciò che rappresenta un mezzo di pressione forte nei confronti del Parlamento, dato che rovesciare il governo significherebbe quasi sicuramente ritrovarsi davanti agli elettori. Queste misure gettano già di per sé le basi di un sistema parlamentare forte. Ma si tratta solo di una componente dell’architettura costituzionale laddove, normalmente, essa ne è l’elemento essenziale. Da questo punto di vista la nuova Costituzione differisce ampiamente dalle precedenti, le quali miravano innanzitutto a proteggere la Monarchia rispetto al Governo e al Parlamento. Questa mira invece a consolidare uno spazio di governo autonomo nel quale il Capo del governo è, de facto, direttamente responsabile davanti ai governati attraverso la mediazione delle elezioni. È la sua designazione obbligatoria tra i rappresentanti del partito arrivato primo alle elezioni a stabilire questa logica: gli elettori sanno chi mettono a capo del Governo e il Primo ministro sa che potrà rimanere al potere solo con il loro sostegno, dato che il re non può nominarlo liberamente (né sfiduciarlo) e che non può conservare l’incarico se il suo partito non vince le elezioni. Istituendo un Capo di governo e un Esecutivo distinti dal re, la riforma costituzionale ha creato un attore che ha tutto l’interesse ad attuare una politica che gli permetta di conservare il posto e la preminenza del proprio partito, mentre la monarchia non si fa carico del costo di queste (eventuali) trasformazioni, ma le arbitra. La logica parlamentare del testo è infatti limitata ma non invalidata dalle prerogative del sovrano. Queste vanno concepite a immagine dei poteri presidenziali all’inizio della Quinta Repubblica francese (tra il 1958 e il 1962), epoca in cui il Presidente non era anche il capo effettivo della maggioranza parlamentare, ma godeva comunque di una forte legittimità storica. I suoi poteri erano considerati il mezzo migliore per proteggere gli interessi fondamentali del Paese, evitando di collocarli al centro di negoziazioni partigiane. Questa concezione si avvicina allo spirito del costituzionalismo che consiste nel non lasciare tutte le decisioni alla logica della maggioranza. Nello stesso ordine d’idee, l’istituzione di una Corte costituzionale, collegata all’ampia dichiarazione dei diritti contenuta nella Costituzione e alla quale il cittadino può appellarsi, garantisce l’esistenza di una sfera indipendente di protezione e sviluppo dei diritti, sottratta anch’essa agli imprevisti della governance e dei conservatorismi elettorali. Dai Principi Costituzionali alla Loro Attuazione Molti degli innegabili progressi contenuti nel testo dipendono dalla loro applicazione, in particolare delle leggi organiche e delle sentenze della Corte costituzionale. Ciò non ha nulla di sorprendente in un dispositivo costituzionale, ma ricorda che un testo non è nulla senza la sua attuazione. Molte innovazioni, anche liberali, della Costituzione del 2011 sono stabilite solo come principi. Per esempio, la Costituzione dispone che «la Corte costituzionale è competente per riconoscere un’eccezione di costituzionalità sollevata durante un processo» (art. 133). Sarà una legge organica a fissare le modalità d’applicazione di questo articolo. E la legge potrà essere restrittiva, imponendo un filtro, o liberale, favorendo il rinvio alla Corte. Analogamente, viene affermato che «il diritto alla vita è il primo diritto di ogni essere umano» (art. 20). Questa disposizione può servire tanto a bloccare il diritto all’aborto come a permettere l’abolizione della pena di morte (che non è più applicata ma rimane teoricamente vigente). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati. In questo ambito la Corte costituzionale avrà un ruolo determinante. Se si passa alle disposizioni che riguardano la religione, si noterà la distinzione tra riferimento islamico e devoluzione dei poteri in materia religiosa. Contrariamente alla maggior parte delle Costituzioni degli Stati della Lega araba, il riferimento all’Islam è, nel caso marocchino, piuttosto laconico. L’articolo 3 ne fa «la religione di Stato», pur riconoscendo «il libero esercizio dei culti». Per inciso, si noti che l’articolo 4 reitera il motto del Regno: «Dio, Patria, Re». Benché la libertà di coscienza non sia riconosciuta nella Costituzione – nonostante la sua inclusione in una versione precedente – l’articolo 25 stipula che «sono garantite le libertà di pensiero, di opinione e di espressione in tutte le loro forme». Contrariamente alla tecnica di restrizione della portata della disposizione con il rinvio alla legge – che vi apporta dei limiti o ne condiziona l’applicazione – questo testo stabilisce un principio intangibile. È per questo che, come si vede, la preminenza dell’Islam non viene ribadita da un riferimento alla legge islamica (sharî‘a o fiqh). L’Islam, religione di Stato, è prima di tutto un riferimento nazionale. Il testo precisa infatti che nella sua «versione moderata», la «religione islamica» costituisce una delle costanti federatrici dello Stato, insieme all’unità nazionale, all’integrità territoriale e all’identità una e indivisibile della Nazione (art. 1). Gli articoli della Costituzione che fanno riferimento alla religione islamica mettono in evidenza quasi sistematicamente i principi di tolleranza e apertura, oltre che la libertà dei culti. Da queste disposizioni si può dedurre che la funzione ideologica della Costituzione è abbastanza ridotta, analogamente alla portata legittimatrice del riferimento all’Islam. A caratterizzare il sistema costituzionale marocchino è il fatto che l’esistenza di un Capo dello Stato a forte legittimità religiosa rende superflua l’insistenza sul riferimento islamico[3]. La Costituzione del 2011 non deroga a questa costante[4]. Capo di Stato e Comandante dei Credenti Ciò che distingue la nuova Costituzione è la dissociazione che essa opera tra le funzioni del re «Capo di Stato, suo Rappresentante supremo, Simbolo dell’unità della Nazione, Garante della perennità e della continuità dello Stato e Arbitro supremo tra le sue istituzioni» (art. 42) e il re «Comandante dei credenti» (amîr al-mu’minîn, art. 41). In altri termini, la Costituzione distingue i «due corpi del re» e s’impegna a ridurre la possibilità che l’uno s’appiattisca sull’altro. Nel lungo periodo si può immaginare una dinamica che approfondisca la demarcazione tra le due funzioni, in cui cioè il suo ruolo esecutivo di Capo dello Stato diventi sempre più arbitrale, mentre il suo ruolo di autorità religiosa suprema si eserciti in maniera vigorosa ed estensiva[5]. Allo stato attuale delle cose, occorre sottolineare che il re esercita i poteri di comando (imâra) dei credenti a titolo esclusivo. Ecco la formula completa dell’articolo 41: "Il re, comandante dei credenti, veglia sul rispetto dell’Islam. È il garante del libero esercizio dei culti. Presiede il Consiglio superiore degli ‘ulamâ’, incaricato dello studio delle questioni che il re gli sottopone. Il Consiglio è la sola istanza abilitata a pronunciare le consultazioni religiose (fatwa) accolte ufficialmente sulle questioni per cui viene incaricato e questo sulla base dei principi, dei precetti e degli obiettivi tolleranti dell’Islam. Le attribuzioni, la composizione e le modalità di funzionamento del Consiglio sono fissate per dâhir [decreto reale]. Il re esercita per dâhir le prerogative religiose inerenti all’istituzione del comando dei credenti che gli sono conferite in modo esclusivo tramite il presente articolo." Come si vede, nell’ambito del comando dei credenti il sovrano è totalmente autonomo: agisce per decreto reale (dâhir) non sottoposto a controfirma ministeriale[6], presiede il Consiglio superiore degli ‘ulamâ’ di cui stabilisce la composizione e il funzionamento, e tale Consiglio è il solo consesso abilitato a emettere pareri religiosi. Così la devoluzione differenziata delle competenze regali si accompagna a una definizione la più ampia possibile dei suoi poteri nell’ambito della regolamentazione religiosa. La questione che si pone è, allora, sapere a cosa corrisponde esattamente il comando dei credenti. Si noterà che tale funzione non è oggetto di una lista, né esemplificativa né a fortiori esaustiva, che enumeri le competenze che gli spettano[7]. A questo proposito si può dunque parlare di competenza residua o, meglio ancora, di sussidiarietà: tutto ciò che non è esplicitamente esterno alla religione è suscettibile di esservi incluso dalla volontà del comandante dei credenti. La storia recente ha fornito un esempio di questo tipo d’inclusione, quando il re si è impegnato nella riforma del Codice della famiglia (mudawwanat al-usra). La regolamentazione di questo diritto non inerisce alla religione stricto sensu, ma è piuttosto in virtù del comando dei credenti che Mohamed VI se n’è appropriato. Si possono immaginare una moltitudine di ambiti nei quali lo stesso meccanismo potrebbe essere azionato senza che il potere legislativo, esecutivo o giudiziario costituzionale possano più di tanto opporsi: libertà di coscienza, aborto, pena di morte, eredità, organizzazione pubblica del digiuno di Ramadan, legalità delle relazioni sessuali al di fuori del matrimonio, finanza islamica e molte altre.
[1] Il termine indica i berberi del Nord Africa [N.d.T.]. [2] Il riferimento è alle popolazioni che abitano il Sahara occidentale [N.d.T.]. [3] In relazione a questo tema si veda il capitolo di Mohamed Mouaqit in Baudouin Dupret (a cura di), La Charia aujourd’hui. Usages de la référence au droit islamique, La Découverte, Paris 2012. [4] Tra gli articoli che, sempre indirettamente, riguardano l’Islam, si noteranno quelli che concernono la formazione dei partiti politici e la revisione costituzionale: «I partiti politici non possono essere fondati su base religiosa, linguistica, etnica o regionale, o, in generale, su qualunque base discriminatoria o contraria ai Diritti dell’Uomo. Non possono avere come obiettivo quello di attentare alla religione musulmana, al regime monarchico, ai principi costituzionali, ai fondamenti democratici o all’unità nazionale e all’integrità territoriale del Regno» (art. 7, § 2); «Nessuna revisione può riguardare le disposizioni sulla religione musulmana, sulla forma monarchica dello Stato, sulla scelta democratica della nazione o sulle acquisizioni in materia di libertà e diritti fondamentali iscritti nella presente Costituzione» (art. 175). [5] Hassan Rachik iscrive tale dinamica nell’onda lunga della secolarizzazione della funzione sultanale, avviata con l’instaurazione del Protettorato e proseguita dal movimento nazionalista (si veda, tra l’altro, la conferenza tenuta alla fondazione Bouabid il 19 febbraio 2012, disponibile su . [6] Contrariamente a quanto vale per la maggior parte delle sue competenze di Capo dello Stato. [7] Invece le sue competenze di Capo dello Stato sono enumerate. Ecco la formula dell’articolo 42: «Il re, Capo dello Stato, suo rappresentante supremo, simbolo dell’unità della Nazione, garante della perennità e della continuità dello Stato e arbitro supremo tra le sue istituzioni, vigila sul rispetto della Costituzione, sul buon funzionamento delle istituzioni costituzionali, sulla protezione del voto democratico, dei diritti e libertà delle cittadine e dei cittadini, e delle collettività, e sul rispetto degli impegni internazionali del Regno. È il garante dell’indipendenza del Regno e della sua integrità territoriale nelle sue frontiere autentiche. Il re adempie a queste missioni tramite i poteri che gli sono espressamente conferiti dalla presente Costituzione e che esercita per dâhir. I dâhir, a eccezione di quelli previsti agli articoli 41, 44 (II capoverso), 47 (I e VI capoverso), 51,57, 59, 174 (I capoverso), sono controfirmati dal capo del governo.»
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