Lo scenario creato dalle rivoluzioni del 2011 in Nord Africa e nel Levante arabo ha costretto Mosca a ripensare il proprio ruolo nella regione. Tornato al Cremlino nel 2012, Putin ha puntato in particolare sul Mediterraneo per rilanciare le ambizioni imperiali russe

Ultimo aggiornamento: 30/11/2022 15:32:06

Questa è la quarta ed ultima puntata della serie La Russia in Medio Oriente. Qui è disponibile la terza sul periodo 1991-2011.

 

Come anticipato nella chiusura della terza puntata, l’ondata di proteste e movimenti rivoluzionari che a partire dal dicembre 2010 coinvolse i Paesi di Nordafrica e parte del Levante arabo vanificò la “grande strategia” elaborata dal presidente Vladimir Putin – ripresa nel 2008 dal suo successore Dimitrij Medvedev – per favorire il ritorno della Russia sullo scacchiere mediorientale dopo lo iato del periodo post-sovietico.

 

Per i vertici moscoviti le cosiddette Primavere Arabe assomigliavano alle “rivoluzioni colorate” e pro-occidentali che all’inizio degli anni Duemila avevano interessato alcune ex repubbliche socialiste, come la Georgia (Rivoluzione “delle Rose”), il Kirghizistan (Rivoluzione “dei Tulipani”) e l’Ucraina (Rivoluzione “arancione”). L’eco delle rivolte mediterranee giunse fino a Mosca, dove nel dicembre 2011 una folla di manifestanti scese nelle piazze della capitale imbiancata dalla neve per contestare la validità delle elezioni parlamentari svoltesi qualche giorno prima. La “Rivoluzione Bianca”, la più grande ondata di proteste dalla caduta dell’URSS, proseguì per i successivi due anni, seppur in maniera affievolita e innocua per la tenuta del governo. Secondo quest’ultimo, tutto ciò non poteva essere frutto di una coincidenza: le Primavere Arabe, lungi dall’essere sincere e genuine richieste delle popolazioni locali, erano state pianificate a tavolino dagli Stati Uniti e dai loro alleati in quello che pareva l’ennesimo atto di interferenza occidentale in Medio Oriente e in Asia.

 

Ciononostante, il Cremlino sottovalutò la portata degli eventi in corso nella sponda sud del Mediterraneo, probabilmente credendo in un rapido ripristino dell’ordine costituito come successo al tempo delle rivoluzioni colorate. La crisi dei poteri centrali fu, invece, cronica e irreversibile: in pochi mesi caddero i solidi e decennali regimi di Tunisia, Egitto e Libia, mentre in Siria le manifestazioni anti-Assad divennero sempre più estese e organizzate. A danneggiare gli interessi della Russia non fu tanto l’esilio del presidente tunisino Ben Ali e nemmeno la rivoluzione egiziana (che, pur bloccando la cooperazione avviata da Putin e Mubarak nel decennio precedente, non interruppe le relazioni diplomatiche), quanto il caos libico, culminato nell’ottobre 2011 con l’uccisione di Gheddafi. La perdita di uno dei principali alleati nella regione implicava infatti l’annullamento dei vantaggiosi contratti militari e delle concessioni in ambito energetico contenute nelle Dichiarazioni di Tripoli del 2008. Lo smacco peggiore si era tuttavia verificato a livello diplomatico: russi e cinesi avevano ceduto alle richieste della NATO acconsentendo, seppur con riluttanza, a non porre il veto alla Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che autorizzava la chiusura dello spazio aereo libico. Decisione che, col senno di poi, risultò determinante per la sconfitta finale del leader della Jamahiriyya.

 

Il nuovo scenario che si stava profilando costrinse Mosca a ripensare completamente il suo ruolo in Medio Oriente. L’elaborazione di una strategia efficace e coerente non poteva, però, essere improvvisata nell’arco di poche settimane: occorreva prima comprendere appieno l’evoluzione degli eventi, poi ridefinire dottrina e modus operandi dell’agenda estera e infine sostenerla con adeguate risorse economiche e militari. Processi che, naturalmente, richiedevano lunghi tempi di realizzazione.

 

In effetti Medvedev, politico allora di tendenze moderate e pro-occidentali, si limitò a una sorta di “piano d’emergenza”, basato su due punti fondamentali: il primo consisteva nel riallacciare le relazioni con i nuovi governi formatisi a seguito delle Primavere Arabe, come nel caso dei Paesi nordafricani (il Consiglio di Transizione Libico fu riconosciuto il 1° settembre, cioè quando Gheddafi era ancora in vita); il secondo, riassumibile nell’espressione “salvare il salvabile”, intendeva difendere quel poco che rimaneva dei vecchi apparati autoritari novecenteschi. In tal senso assunse un ruolo cruciale il regime siriano (alleato di Mosca dai tempi dell’Unione Sovietica) presieduto da Bashar al-Assad che, per porre fine ai movimenti di protesta, aveva fatto ricorso all’esercito, innescando una spirale di violenza che presto assunse i contorni della guerra civile.

 

Il cambio di strategia del Cremlino

 

Fu con il ritorno di Putin alla presidenza della Federazione, nel maggio 2012, che la Russia rientrò a pieno titolo negli affari mediorientali. Dopo un fallito tentativo di mediare la crisi libica, il leader russo liquidò la “dottrina Medvedev” e impostò una politica estera più assertiva, totalmente contrapposta a quella della NATO. Il primo cambio di rotta avvenne nell’agosto del 2012 all’interno dell’aula del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove Turchia e Stati Uniti stavano discutendo la possibilità di mettere ai voti una no-fly zone anche per il Paese levantino; questa volta, però, il ministro degli esteri Sergej Lavrov, memore di quanto successo in Libia, comunicò alle cancellerie occidentali che Mosca avrebbe posto il veto sulla risoluzione, bloccando sul nascere l’iniziativa[1].

 

Nello stesso periodo la Russia attivò, insieme all’Iran, linee di rifornimenti in soccorso del regime siriano, ormai prossimo al collasso a causa dell’isolamento internazionale e dell’avanzata delle opposizioni armate e dei gruppi salafiti jihadisti che avevano approfittato del caos generatosi per penetrare nel Paese e creare dei “quasi stati” nella Jazira (la regione all’estremo Nord-Est della Siria) e nel governatorato di Idlib. Da Sebastopoli salparono bastimenti carichi di armi, munizioni, carburante, medicinali e generi di prima necessità che, approdando nel porto siriano di Laodicea, permisero al regime di sopravvivere e di conservare territori vitali da un punto di vista politico e militare. Col passare del tempo, l’impegno russo in Siria sarebbe diventato sempre più continuo e strutturato, rendendo Mosca uno dei più importanti attori esterni del conflitto.

 

Il 12 febbraio 2013 Putin sottoscrisse l’aggiornamento del documento di politica estera, il Foreign Policy Concept che, pur ricalcando le disposizioni delle precedenti edizioni, sottolineava la necessità di adottare una politica estera sempre più multipolare, caratterizzata dal rispetto per l’indipendenza e per la sovranità degli Stati. «La capacità dell’Occidente – si legge al sesto punto – di dominare l’economia e la politica mondiali continua a diminuire. Il potere globale e il potenziale sviluppo economico sono ora più dispersi»[2]. Per far fronte al caos e alle crisi locali, il tradizionale uso del soft power doveva essere integrato con quello hard, di tipo coercitivo.

 

Per il presidente, la prova che l’approccio occidentale non fosse più un modello da seguire era data dal fallimento delle Primavere Arabe, le quali non solo non erano state in grado di democratizzare dal basso le istituzioni, ma ne avevano causato il collasso, favorendo di conseguenza l’ascesa dei movimenti salafiti e jihadisti (tra cui Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico di Iraq e Siria) e lo scontro tra etnie e confessioni religiose. Il metodo russo si basava, al contrario, su un approccio securitario “dall’alto”, volto a stabilizzare i Paesi sconvolti da guerre e disordini mediante il governo di “uomini forti”, spesso provenienti dall’esercito.

Incontro tra Vladimir Putin e Abdel Fattah al-Sisi nel 2015

 

Questa visione si riflesse nel sodalizio con ‘Abd al-Fattah al-Sisi, il generale dell’esercito egiziano che, con il golpe del luglio 2013, aveva posto fine all’esperienza politica del presidente Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza Musulmana. Ancora prima di succedergli alla presidenza, al-Sisi godeva già di un rapporto privilegiato con Putin, come testimonia il suo viaggio a Mosca del 13 febbraio 2014, appena una settimana prima dell’annessione russa della Crimea. Entrambi i leader erano interessati alla stabilizzazione della regione, dalla Libia alla striscia di Gaza e alla Siria, e alla definizione di una linea d’azione congiunta volta a contrastare il terrorismo dello Stato Islamico, minaccia esiziale non solo per il Paese nordafricano ma anche per il gigante eurasiatico, visto che molti foreign fighters dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi provenivano dalle minoranze musulmane di Cecenia e Daghestan. Su questo tema va ricordato che Putin aveva lavorato anche a livello interno, stringendo una solida alleanza col presidente ceceno Akhmat Kadyrov, un tempo ribelle indipendentista poi diventato uno degli uomini più leali del presidente.   

 

Nei giorni della crisi della Crimea si svolse anche il Terzo Incontro Interministeriale tra la Russia e il Consiglio di Cooperazione del Golfo in Kuwait. Il vertice, pur non ottenendo apprezzabili risultati, costituì un’ottima occasione per migliorare le relazioni con i Paesi più ricchi e sviluppati del Medio Oriente, soprattutto dopo l’isolamento e alle sanzioni applicate a seguito dell’annessione della penisola del Mar Nero. L’intesa con l’Iran nel sostenere Assad e i contatti intrattenuti con i ribelli yemeniti Houthi avevano però provocato qualche tensione con il Qatar e l’Arabia Saudita – col primo si sfiorò addirittura l’incidente diplomatico – che, per contro, sostenevano (e finanziavano) le opposizioni siriane più radicali e vicine al salafismo, mentre in Yemen difendevano il governo ufficiale di Abdrabbuh Mansur Hadi[3]. Fu necessario attendere la visita a San Pietroburgo del futuro principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, nella seconda metà del giugno 2015, per ufficializzare il rapprochement tra i due Stati. Anche in questo caso si trattò di un incontro più simbolico che operativo: il principe, in una delle sue prime missioni estere da Ministro della Difesa, riconobbe la Federazione come un attore chiave del Medio Oriente nonché partner di rilievo in ambito energetico e militare[4]; le divergenze politiche rimasero insolute, anche se le parti acconsentirono a riconoscere le altrui sfere di influenza. Ancora una volta il Cremlino adottò un approccio multiforme e multipolare, volto a dialogare con (quasi) tutti gli attori ibridi e statuali presenti, tutelare (e, ove possibile, massimizzare) i suoi interessi e mantenere l’equilibrio di potenza nella regione. Il tutto senza tralasciare la cornice ideologica enunciata nella dottrina del Concept, a difesa dell’ordine costituito, della stabilità statuale, della pace e della prosperità economica.

 

Pochi mesi dopo l’incontro di San Pietroburgo, il 30 settembre 2015, la Russia entrò direttamente nel conflitto siriano con una serie di bombardamenti aerei sulle postazioni dei ribelli di Idlib e Aleppo. L’intervento venne presentato come la risposta a una precisa richiesta di assistenza presentata dal governo siriano, ma in realtà aveva ragioni molto più profonde. In primo luogo, rilanciava la grandeur e le ambizioni del Paese al rango di grande (super)potenza, capace di restaurare lo statu quo e l’ordine dopo il caos provocato, secondo la visione russa, dalla NATO. In secondo luogo, la campagna serviva a sviare l’attenzione dall’annessione della Crimea e, soprattutto, a testare il livello di forza dell’esercito, dall’addestramento dei coscritti all’utilizzo di armi e mezzi di nuova generazione. Vi erano infine motivazioni di natura essenzialmente geopolitica, come la già citata alleanza storica con Damasco e la lotta al terrorismo di matrice jihadista. A queste si aggiungeva la difesa della base navale situata nel porto di Tartus che, stabilita nel 1971 come parte di un accordo siro-sovietico, costituiva l’estremo avamposto meridionale della flotta russa; l’eventuale perdita o danneggiamento dell’infrastruttura avrebbe reso inattuabile la strategia di soft-hard power nel Mediterraneo, specialmente per un Paese privo di sbocchi sui “mari caldi”. Grazie all’aiuto (non disinteressato) di Mosca il regime siriano passò, nel volgere di un biennio, da un atteggiamento difensivo a uno offensivo, riconquistando i principali centri urbani del Paese, tra cui Aleppo e la Ghuta damascena, per poi annettere gran parte dei territori rurali ricchi di risorse minerarie occupati in precedenza dall’ISIS.

Concerto dell'orchestra sinfonica del Teatro Mariinsky a Palmira, in Siria

 

La cooperazione e la competizione con la Turchia

 

La campagna siriana comportò una maggior grado di cooperazione con l’altro attore esterno al conflitto, la Turchia, schieratasi con una parte dei ribelli. Nonostante la contrapposizione geopolitica avesse provocato forti tensioni – tra cui quelle che seguirono all’abbattimento di un Sukhoi russo da parte di un jet turco nel novembre 2015 – i due Paesi riuscirono a trovare un modus vivendi, riconoscendo le rispettive sfere d’influenza: Ankara riconobbe di fatto la sovranità di Assad su due terzi del Paese arabo, ma in cambio fu libera di incrementare il proprio controllo, sia diretto che indiretto, sui territori settentrionali popolati dalla minoranza curda, considerata dal presidente Erdoğan come una minaccia alla sicurezza nazionale. L’iniziativa più ambiziosa fu l’avvio, insieme all’Iran, di un percorso negoziale tripartito, noto come Processo di Astana, che a partire dal 2016 si sostituì di fatto ai precedenti Colloqui di Ginevra, organizzati dalle Nazioni Unite per trovare una soluzione politica e pacifica al conflitto. Gli incontri diplomatici in Kazakistan si dimostrarono efficaci, benché iniqui nei loro risultati, nella ridefinizione delle frontiere (che permise al regime di recuperare numerosi territori) e del ricollocamento dei ribelli in “zone sicure” del Paese, identificate nella provincia di Idlib e nelle “zone cuscinetto” della Siria settentrionale occupate dall’esercito turco.   

 

I due Paesi si trovarono su fronti opposti anche nella crisi libica. Ankara si era schierata con il Governo di Salvezza Nazionale di Tripoli (sostituito nel 2016 dal Governo di Unità Nazionale riconosciuto dall’ONU) mentre Mosca sosteneva l’“uomo forte” della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar che nel maggio 2014 aveva fatto trasferire a Tobruq il parlamento formatosi in seguito alle elezioni non riconosciute dal GSN, dando inizio a una nuova guerra civile. I russi accrebbero gradualmente la loro influenza fino all’intervento militare: tra il 2018 e il 2019 comparve in Cirenaica il gruppo Wagner, una compagnia di mercenari russi nata durante l’annessione della Crimea e poi diffusasi in alcuni teatri di guerra mediorientali e africani. In Libia, la Wagner si unì, nel settembre del 2019, all’Esercito Nazionale Libico allo scopo di partecipare all’offensiva lanciata da Haftar su Tripoli per rovesciare il governo di al-Sarraj. Il GUN ricevette a sua volta assistenza da Ankara e, grazie alla fornitura turca di droni e sistemi di contraerea, riuscì a respingere l’attacco e ad estendere il suo controllo su quasi tutta la Tripolitania, stabilizzando la linea del fronte. Malgrado il fallimento della campagna, i mercenari continuarono a giocare un ruolo fondamentale nel “quasi Stato” cirenaico, presidiando le infrastrutture chiave e i campi petroliferi, talmente importanti da condizionare i negoziati e l’andamento della guerra intra-libica.  

 

Il Cremlino e la scommessa di un mondo multipolare

 

Alla luce di quanto visto, fornire una valutazione complessiva sulla (geo)politica russa in Medio Oriente non è semplice. L’aggiornamento del Foreign Policy Concept del 2016 definisce il modus operandi della Federazione come «trasparente, prevedibile, pragmatico» e in linea con norme e principi del diritto internazionale[5], ma la realtà è ben diversa. Il Paese ha violato nel 2014 e nel 2022 la sovranità territoriale di uno Stato indipendente, l’Ucraina, mentre ha ampiamente interferito negli affari interni di Siria e Libia senza coordinarsi con le organizzazioni internazionali. I russi non sono stati capaci di proporre, nei teatri di guerra o di crisi in cui sono intervenuti, soluzioni pacifiche e realizzabili, anzi hanno spesso contribuito a incrementare il livello di caos e violenza sostenendo figure militari piuttosto che politiche, civili o super partes.

 

D’altra parte, va osservato che l’azione del Cremlino è risultata determinante nell’indebolimento dei movimenti terroristi (anche se ciò non ha portato alla democratizzazione di regimi e società) e nel mantenimento dell’equilibrio di potenza fra i vari attori regionali, al punto da spingere alcuni analisti a definire il suo atteggiamento opportunista e predatorio[6]. Più in generale, la Russia riveste un ruolo cruciale per il Medio Oriente sotto diversi aspetti, dall’assistenza militare alla fornitura energetica e alimentare.

Incontro fra Vladimir Putin e Bashar al-Assad nel 2021

 

La guerra in Ucraina ha dimostrato l’alto grado di (inter)dipendenza che lega i Paesi arabi e Mosca, a cominciare dalla Siria. Il Paese è da otto anni il “campo di addestramento” dell’esercito russo che, come si è visto sopra, ha messo alla prova le sue capacità tattiche e logistiche, molte delle quali sono state reimpiegate nel Donbass. Il regime ha “contraccambiato” il soccorso fornito nella guerra organizzando un battaglione di mercenari siriani che ha preso parte all’invasione assieme alle forze russe, senza peraltro ottenere risultati apprezzabili. Damasco ha usato anche il suo “peso” diplomatico, votando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, unico fra gli Stati arabi, a favore dell’annessione e riconoscendo ufficialmente le repubbliche di Donetsk e Lugansk. A prescindere dall’efficacia di tali azioni, il conflitto lede gli interessi di Assad che vede i suoi principali sponsor, Mosca e Teheran, indebolirsi a causa delle crisi diplomatiche, economiche, persino politiche e sociali sopravvenute negli ultimi mesi. Il prolungamento a oltranza delle operazioni militari, la stretta delle sanzioni e l’intensificarsi delle proteste potrebbero portare russi e iraniani a disimpegnarsi nel Levante, con il conseguente rischio di destabilizzazione del regime siriano.    

 

Nella categoria dei “Paesi non ostili” rientrano altri e ben più influenti Stati. L’Arabia Saudita ha mantenuto una posizione equidistante, per non dire ambigua, sul conflitto: da una parte ha condannato l’“operazione speciale”, ma dall’altra ha ritenuto fondate le preoccupazioni di natura securitaria della Federazione, paragonabili a quelle del Regno nel conflitto yemenita. Ancora più significativa è la questione energetica, sulla quale Russia, Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo si giocano buona parte della loro politica di potenza regionale e internazionale[7].

 

Anche Israele, dopo l’iniziale solidarietà espressa all’Ucraina e al presidente Zelenskij (che ha origini ebraiche), è rimasto piuttosto neutrale: da una parte il premier Yair Lapid ha fortemente criticato l’intervento russo e espresso solidarietà al popolo ucraino; dall’altra il governo da lui presieduto si è rifiutato di fornire a Kiev il suo sistema missilistico “Iron Dome”, provocando la reazione indignata di Zelenskij, che ha accusato il Paese di aver rafforzato in questo modo la partnership russo-iraniana[8]. In effetti l’aiuto militare di Tel Aviv comprometterebbe le relazioni con Mosca, divenute strategiche con la partnership di lungo corso tra Putin e Netanyahu. Il ritorno al potere di quest’ultimo dopo le elezioni di novembre potrebbe rafforzare, almeno in parte, i rapporti con Mosca, necessari per il contenimento dell’influenza iraniana in Siria, oltre che per il peso specifico giocato dalla comunità ebraica russofona, la più grande del Medio Oriente, negli equilibri sociali e demografici di Israele.

 

La Turchia si è presentata come moderatore super partes organizzando una serie di incontri e negoziati al fine di risolvere, se non il conflitto, quantomeno le crisi energetiche e alimentari scaturite dal blocco delle esportazioni di grano e idrocarburi. L’iniziativa del presidente Erdoğan e la posizione geografica del Paese che controlla le rotte tra Mar Nero e Mediterraneo hanno fatto sì che la diplomazia turca assumesse un ruolo fondamentale nella vicenda. Allo stesso tempo Erdoğan potrebbe utilizzare gli ampi margini di manovra concessi per ridefinire gli accordi economici con l’Unione Europea e riprendere le operazioni militari nella Siria settentrionale.    

 

È difficile prevedere l’evoluzione delle dinamiche appena descritte, ma è evidente che esse stanno già modificando lo “statu quo” creatosi negli ultimi anni nel Mediterraneo allargato. Come si è visto, il Cremlino sta scommettendo sulla creazione di un nuovo ordine internazionale multipolare. Diversi Paesi arabi, in particolare Arabia Saudita ed Emirati sembrano aver fatto propria questa visione, smarcandosi dagli indirizzi di Washington, come dimostrano tra le altre cose il vertice di Gedda dello scorso luglio e la recente decisione dell’OPEC+, più simbolica che sostanziale, di ridurre la produzione di greggio, e muovendosi sulla base di quello che percepiscono come il proprio interesse.

 

 

Questo è il quarto ed ultimo approfondimento dedicato alla Russia in Medio Oriente. Qui la puntata precedente. 

 
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[1] Russia against no-fly zone over Syria, «Reuters», 18 agosto 2012, https://www.reuters.com/article/uk-syria-russia-lavrov-idUKBRE87H02R20120818
[2] The Foreign Policy Concept of the Russian Federation 2013, «Voltaire Network», https://www.voltairenet.org/article202037.html
[3] Elena Melkumyan, A Political History of Relations between Russia and the Gulf States, «Arab Center for Research and Policy Studies», dicembre 2015, pp. 14-15.  
[4] Bruce Riedel, Saudi’s star prince keeps rising, visits Putin in St. Petersburg, «Brookings», 19 giugno 2015, https://www.brookings.edu/blog/markaz/2015/06/19/saudis-star-prince-keeps-rising-visits-putin-in-st-petersburg/
[5] Russia’s New Foreign Policy 2016, «Indian Council of Foreign Affairs», 16 febbraio 2017 https://www.icwa.in/show_content.php?lang=1&level=3&ls_id=577&lid=519
[6] Cfr. Pavel K. Baev, Russia as Opportunist or Spoiler in the Middle East? «The International Spectator», no. 50, vol. 2, pp. 8-21.
[7] The Ukraine Crisis and the Gulf: A Saudi Perspective Interview with Abdulaziz Al Sager, «Institut Montaigne», 18 ottobre 2022 https://www.institutmontaigne.org/en/analysis/ukraine-crisis-and-gulf-saudi-perspective
[8] Zelenskyy blasts Israel, suggests Russia-Iran nuclear collusion, «Al Jazeera», 24 ottobre 2022, https://www.aljazeera.com/news/2022/10/24/zelenskyy-blasts-israel-suggests-russia-iran-nuclear-collusion  

 

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