Il crollo dell’Unione sovietica costrinse Mosca ad adottare una politica mediorientale minimale e pragmatica. Ma nel 1999, le dimissioni di Yeltsin e l’arrivo al Cremlino di Vladimir Putin aprirono una nuova fase, caratterizzata da un crescente protagonismo russo

Ultimo aggiornamento: 30/11/2022 15:42:15

Questa è la terza puntata della serie “La Russia in Medio Oriente”. Qui è disponibile la seconda sul periodo 1917-1989.

 

La dissoluzione dell’Unione Sovietica nel corso del 1991 rappresentò un vero e proprio terremoto geopolitico a livello globale. Terminata la Guerra Fredda, gli Stati Uniti d’America rimasero l’unica “superpotenza”, apparentemente priva di avversari. In effetti, nei primi anni di esistenza della Federazione russa, nata dalle ceneri dell’Urss il 26 dicembre 1991, l’influenza del Paese in Medio Oriente, da anni in costante declino, subì una forte contrazione: esempio lampante della fine di un’epoca fu il voto favorevole di Mosca, il 29 novembre 1990, alla risoluzione n. 678 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 29 novembre 1990 che condannava l’invasione irachena del Kuwait, in un inedito allineamento con la posizione degli Stati Uniti.  

 

Una soluzione tampone

 

Il problema più urgente per la Russia consisteva nel risanamento della degradata situazione interna, eredità delle fallimentari politiche sovietiche. L’apparato burocratico disfunzionale, i comparti industriali divenuti obsoleti, talvolta fatiscenti, la paralisi economica generata dai piani quinquennali e dalle collettivizzazioni, col conseguente aumento dell’inflazione e della disoccupazione provocarono un profondo malessere sociale che assorbì gran parte dell’agenda governativa, riducendo le risorse da destinare alla politica estera.

 

Occorreva, poi, fare i conti con la riconfigurazione dello scenario eurasiatico. La frammentazione dello Stato sovietico aveva dato vita a nuove repubbliche nel Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaijan) e nell’Asia centrale (Kazakhistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Uzbekistan), quasi tutte a maggioranza musulmana. Mosca fu così privata di quella “prossimità geografica” che le aveva permesso di stabilire delle sfere di influenza al tempo degli zar e, successivamente, durante la Guerra Fredda. Il Cremlino dovette quindi ricalibrare il suo baricentro geopolitico lungo due direttrici: la prima mirava a riunificare, per quanto possibile, l’ex spazio sovietico attraverso la creazione di partnership e organizzazioni internazionali con i nuovi Paesi, come la Comunità degli Stati Indipendenti; la seconda intendeva spostare l’orientamento politico-economico da est a ovest, verso il mondo occidentale, portando all’introduzione del libero mercato e del sistema multipartitico, ispirato a quello delle democrazie europee e nordamericane. La retorica anticapitalista e anticoloniale, che tanto successo aveva avuto tra i regimi arabi nazionalisti, divenne un retaggio del passato.

 

Infine, vi era una ragione di natura securitaria che catalizzò l’attenzione del governo centrale. I confini dei neonati Stati centroasiatici si erano rivelati alquanto porosi, permettendo al crimine organizzato di sviluppare traffici transfrontalieri di armi e droga; la minaccia più grave veniva però dalla Cecenia, la regione a maggioranza musulmana che, non avendo ricevuto il riconoscimento di repubblica indipendente, insorse, dando inizio a una lunga guerriglia e provocando gravi attentati terroristici di matrice jihadista.   

 

L’insieme di queste dinamiche portò il primo presidente della Federazione, Boris Yeltsin, a elaborare, in netto contrasto con la tradizione comunista fondata sul ruolo dell’ideologia e dell’egemonia culturale, una politica mediorientale minimale e pragmatica. Il Cremlino divise la macroregione in tre zone, secondo un ordine decrescente di priorità: una “più vicina”, che includeva Turchia e Iran, gli attori più rilevanti dal punto di vista diplomatico, economico e militare (nonché storici interlocutori della Russia zarista), una “mediana” che comprendeva il Golfo Persico, zona cruciale per via delle risorse di idrocarburi, e una “più lontana”, rappresentata da Israele, con cui furono le relazioni diplomatiche anche in ragione della numerosa comunità ebraica russofona, e dai rimanenti Stati arabi, un tempo perno della politica sovietica regionale e ora relegati ai margini dei piani geostrategici[1].

 

Per il Cremlino la “dottrina Yeltsin” rimaneva tuttavia una soluzione tampone, una deroga al dogma secondo cui la Russia rientrava di diritto nel novero delle (super)potenze mondiali. Una convinzione che tornò in auge già nella seconda metà degli anni Novanta, quando fu chiaro che le politiche del presidente non avevano prodotto i risultati desiderati, anzi: le riforme interne avevano generato ulteriori disordini sociali, mentre l’improbabile postura filoatlantica non era mai stata accettata dalla vecchia nomenklatura. Lo stesso Evgenij Primakov, ministro degli Esteri e poi premier, sostenne che il Paese non sarebbe tornato una superpotenza, fintantoché avesse guardato il mondo attraverso le lenti dell’unipolarismo. 

 

L’atteso mutamento di strategia cominciò con le dimissioni di Yeltsin nell’agosto del 1999 e l’elezione, il 31 dicembre successivo, di Vladimir Putin come suo successore. Ex funzionario del KGB, il nuovo capo dello Stato aveva vissuto con profonda delusione il crollo dell’Unione Sovietica – qualche anno dopo ebbe a dire che quell’evento aveva rappresentato «la peggior catastrofe geopolitica della storia del XXI secolo e una tragedia per il popolo russo»[2] – e promise che l’obiettivo principale del suo mandato sarebbe stato il ripristino della perduta grandeur.

 

Undici giorni dopo l’assunzione dell’incarico, Putin, ancora presidente ad interim in attesa del voto di marzo, firmò il “Piano di Sicurezza Nazionale”, manifesto della nuova visione geopolitica della Federazione. Gli aspetti chiave del documento erano, da un lato, il ritorno all’antioccidentalismo e, dall’altro, il marcato riferimento alle tradizioni e ai valori originari della patria. Questo discorso ultranazionalista si fuse immediatamente con le posizioni della Chiesa ortodossa, profondamente avversa ai sentimenti esterofili: la Russia – sentenziò nel 2000 l’allora metropolita Cirillo – doveva smettere di essere «l’eterno studente dell’Occidente» e dotarsi invece di una democrazia sui generis, depurata dal caos e dall’eccessivo individualismo[3].

Putin Kirill.jpgPutin e il metropolita Cirillo nel 2006 (Fonte: Wikimedia Commons)

 

Volontà di potenza, revanscismo e parossismo religioso furono i presupposti teorici sui quali venne immaginato uno spazio esclusivo e prioritario per gli interessi del Paese, il cosiddetto russkij mir, alla lettera il “mondo russo”, un’ampia fascia di territorio che, partendo dai Balcani, si estendeva lungo tutto il continente asiatico fino all’oceano Pacifico. La suggestiva formula non era rivolta soltanto alle minoranze russofone residenti all’estero, ma anche alle comunità ortodosse presenti in Europa e Asia, con l’obiettivo di estendere il raggio d’azione del Cremlino su regioni ritenute di alto valore strategico.  

  

Il ritorno in Medio Oriente

 

Si crearono così le premesse per il ritorno della Russia in Medio Oriente dopo più di un decennio di assenza, operazione resa possibile anche dalla congiuntura di inizio millennio. Negli affari interni, lo Stato aveva di fatto rinunciato alla svolta democratica per adottare un approccio semi-autoritario e dirigista, al fine di sanare la crisi socioeconomica, affidata a una cerchia di imprenditori e politici leali al potere centrale, e quella securitaria, terminata con la repressione delle milizie cecene secessioniste. Sul piano internazionale, gli attacchi dell’11 Settembre, l’ascesa del jihadismo globale e le campagne militari statunitensi in Afghanistan e Iraq misero in dubbio la validità della pax americana basata sulla visione unipolare e sulla diffusione “per osmosi” di democrazia e diritti umani.

 

Malgrado la cooperazione con la NATO avviata nei primi anni Duemila, e la convergenza con gli Stati Uniti sul tema della lotta al terrorismo jihadista, Mosca approfittò dell’invasione angloamericana dell’Iraq del 2003 per schierarsi apertamente, per la prima volta dalla caduta dell’URSS, contro Washington. Citando i principi enunciati nel Piano di Sicurezza Nazionale, il Cremlino si presentò ai Paesi del russkij mir come attore alternativo all’Occidente: agli interventi militari e alla politica dei cambi di regime contrappose il “principio pacifista” dell’inviolabilità degli Stati sovrani e dell’ordine costituito; alla “esportazione della democrazia” preferì lo sviluppo economico, l’intensificazione delle relazioni culturali e dei commerci.

 

Questo approccio trovò terreno fertile in un Medio Oriente che in quel periodo stava dando segnali di dinamismo e rinnovamento economico con promettenti, ancorché lievi, aperture nel campo dei diritti civili e politici. La Turchia di inizio millennio, ancora rivolta a Bruxelles e Washington, condivideva tuttavia la necessità russa di impostare le relazioni diplomatiche all’insegna del multipolarismo e del “pacifismo”. La dottrina “zero problemi”, enunciata in maniera molto ben definita nel 2008 dall’allora ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, ambiva quindi a trasformare gli scambi commerciali in uno strumento per la risoluzione delle contese internazionali. Turchia e Russia, lungi dal considerarsi avversari come al tempo degli imperi ottomano e zarista, intesero la loro partnership in maniera costruttiva, non competitiva e volta alla realizzazione di un benessere comune[4]. Esempio di queste politiche conciliatorie fu il placet di Ankara all’invio di armi russe nella parte ellenica dell’isola di Cipro, in cambio del quale Mosca svolse il ruolo di mediatore per la normalizzazione delle relazioni tra la Turchia e l’Armenia[5].  

 

Al di là della retorica pacifista, gli interessi economico-commerciali della Russia in Medio Oriente coinvolgevano tre ambiti: la vendita di armi ed equipaggiamenti militari, la questione energetica e l’approvvigionamento alimentare. Ciò permise di riaprire i canali con quei Paesi arabi che in passato si erano avvicinati all’orbita sovietica. Nel gennaio 2005 Putin incontrò a Damasco il giovane presidente Bashar al-Assad: la storica amicizia fra i due Paesi venne riconfermata attraverso la sottoscrizione di accordi di cooperazione nella ricerca, l’estrazione e il trasporto di gas naturale[6]. Tre mesi dopo fu la volta dell’Egitto, che dopo la morte di Nasser aveva molto ridimensionato le relazioni con Mosca per legarsi agli Stati Uniti. La visita di Putin al Cairo, la prima di un leader russo da quando Nikita Chruščëv assistette nel 1964 alla costruzione della Diga di Assuan, fu a tutti gli effetti un’operazione di rapprochement. L’energia fu il tema centrale dell’incontro, in particolar modo si discusse la possibilità di creare una partnership per la costruzione di centrali nucleari nel Paese nordafricano[7]. Dal Cairo, Putin si diresse a Tel Aviv, prima volta in assoluto per un inquilino del Cremlino: il presidente russo, nelle vesti di garante dell’ordine regionale, assicurò al premier Ariel Sharon che i missili venduti alla Siria non avrebbero messo in pericolo la sicurezza dello Stato ebraico e che il programma nucleare iraniano era ideato ai soli scopi civili[8].

 

Anche la Libia di Mu‘ammar Gheddafi riprese il vecchio ruolo di partner regionale. Nell’aprile 2008, durante una visita ufficiale di Putin a Tripoli, vennero firmati due memorandum: la “Dichiarazione politica sul rafforzamento dell’amicizia e cooperazione” e la “Dichiarazione di intenti sullo sviluppo e sulla cooperazione multisettoriale”, comprendente una serie di iniziative economiche, finanziarie e commerciali. Il Cremlino acconsentì, inoltre, a cancellare il debito da quattro miliardi e mezzo di dollari contratto dal Paese nei decenni precedenti; in cambio, Gheddafi assegnò alla Gazprom il diritto esclusivo di esplorare il sottosuolo sahariano e appaltò ad aziende russe l’ammodernamento della rete ferroviaria e la fornitura di mezzi militari di ultima generazione[9].

Putin Gheddafi.jpgVladimir Putin e Mu‘ammar Gheddafi durante la visita a Tripoli nel 2008 (Fonte: Wikimedia Commons)

 

Alla fine del primo decennio del XXI secolo, la Russia di Putin, dopo il difficile inizio post-sovietico, aveva conseguito notevoli risultati in Medio Oriente: ci erano voluti più di dieci anni per elaborare la nuova dottrina di politica estera, e altri dieci per intessere vecchie e nuove relazioni, avviando importanti partnership e mediazioni. La strategia si reggeva, però, su due assunti fondamentali che, a partire dal 2008, cominciarono a venire meno: prosperità economica e mantenimento dello statu quo. La crisi economica globale colpì duramente i piani di sviluppo dei Paesi arabi: il crescente malessere sociale, unito alle mancate promesse di riforme e democratizzazione, rappresentò una miscela esplosiva che generò, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, l’ondata di proteste e movimenti (proto)rivoluzionari noti come Primavere Arabe. Eventi che, come si vedrà nell’ultima puntata di questa serie, avrebbero costretto Mosca all’ennesimo mutamento di strategia.  

 

Qui il quarto approfondimento sulla Russia in Medio Oriente, dedicato all'ultimo decennio, dal 2011 al 2022.

 
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[1]Witold Rodkiewicz, Russia’s Middle Eastern policy regional ambitions, global objectives, «OSW Center for Eastern Studies», n. 71 (2017), p. 9.
[2] Nbc News, Putin: Soviet collapse a 'genuine tragedy', https://www.nbcnews.com/id/wbna7632057
[3] John Anderson, Putin and The Russian Orthodox Church: Asymmetric Symphonia?, «Journal of International Affairs, vol. 61, n. 1 (2007), p. 191.
[4] Fatih Özbay, The Relations between Turkey and Russia in the 2000s, vol. 16, n. 3 (2011), p. 72 https://dergipark.org.tr/en/download/article-file/816445
[5] Sergey Markedonov e Natalya Ulchenko, Turkey and Russia: An Evolving Relationship, «Carnegie Endowmnet for International Peace», 19 agosto 2011 https://carnegieendowment.org/2011/08/19/turkey-and-russia-evolving-relationship-pub-45383
[6] Cremlino, President Vladimir Putin and Syrian President Bashar al-Assad held bilateral talks, 25 gennaio 2005 http://en.kremlin.ru/events/president/news/32643
[7] Putin and Mubarak strike deal on nuclear cooperation, «Gulf News», 26 marzo 2008, https://gulfnews.com/world/mena/putin-and-mubarak-strike-deal-on-nuclear-cooperation-1.93162
[8] Putin visits Israel and tries to allay its security, «The New York Times» 29 aprile 2005, https://www.nytimes.com/2005/04/29/world/middleeast/putin-visits-israel-and-tries-to-allay-its-security.html
[9] Russia cancels Libyan debt, eyes arms deals, «France 24», 17 aprile 2008,  https://www.france24.com/en/20080417-russia-cancels-libyan-debt-eyes-arms-deals-tripoli

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