La Grande Guerra non ha deciso solo nuovi equilibri nel Vecchio Continente ma ha anche determinato il ridisegno dei confini e dei poteri in Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:54

La Grande Guerra non ha deciso solo nuovi equilibri nel Vecchio Continente ma ha anche determinato il ridisegno dei confini e dei poteri in Medio Oriente. Forse proprio nei modi e nei contenuti di quella riorganizzazione si possono rintracciare i germi di problemi oggi all’ordine del giorno. 

Quando nel 1919 una delegazione egiziana (il Wafd) chiese di essere ammessa alla conferenza di Pace di Parigi, ci volle letteralmente una rivoluzione perché la Gran Bretagna accettasse di lasciarla partire dal Cairo. Ma la fatica fu apparentemente vana. […] Perché questi orientali s’immischiavano negli affari europei? […]

Era difficile vederlo, ma la bomba esplosa a Sarajevo aveva generato un’onda sismica i cui effetti continuano a perturbare la regione mediorientale (e con essa il mondo intero) fino a oggi. […]

Quando avevano a che fare con il Medio Oriente, gli Alleati si ricordavano improvvisamente di essere “potenze cristiane”. All’epoca nel Levante i cristiani orientali, considerati nel loro complesso, costituivano una presenza numerica significativa, stimata tra il 15% e il 20% della popolazione, un gruppo economicamente rilevante e culturalmente avanzato. Potevano dunque incidere nelle sorti del conflitto e francesi e britannici furono prodighi di promesse nei loro confronti. Quelli a cui andò probabilmente meglio furono i maroniti, che si videro riconoscere uno Stato indipendente, benché sempre a rischio di unificazione con la Siria, secondo gli oscillanti umori della politica di Parigi. Durante la guerra le truppe ottomane avevano quasi ridotto alla fame gli abitanti del Monte Libano. Memore di quella lezione, l’allora patriarca maronita chiese che la Regione autonoma (l’antica mutasarrifiyya) fosse estesa a comprendere anche regioni più fertili dal punto di vista agricolo, per non rischiare mai più il genocidio per fame. Secondo quanto racconta Georges Corm nella sua storia del Libano, gli fu proposta la “Valle dei Cristiani” nell’attuale Siria, abitata per lo più da ortodossi. Ma il Patriarca diffidava degli “scismatici” e preferì la valle della Beqaa, abitata in maggioranza da sciiti. Era così nato il Libano moderno, con il suo equilibrio instabile tra cristiani, sunniti e sciiti, un Paese che comunque avrebbe dato tanto al pensiero arabo e alla convivenza possibile tra gruppi religiosi diversi. 

Agli altri cristiani orientali andò decisamente peggio. Gli armeni furono vittime di una deportazione forzata decisa dalle autorità ottomane che si trasformò in un genocidio e la piccola Repubblica caucasica che vide la luce dopo la guerra, relitto della ben più ampia Armenia storica, fu inglobata quasi subito dai sovietici. Di genocidio si può parlare anche nei confronti degli assiri, a cui era stata promessa, a guerra conclusa, una regione indipendente nel nuovo Iraq, nella piana di Ninive. È impressionante constatare che un’identica promessa è stata rispolverata dopo l’invasione americana, che pure ha inferto un colpo durissimo al futuro della cristianità nel Paese dei due Fiumi. Promessa avvelenata, dato che prevedrebbe di far confluire tutti i cristiani in una micro-provincia cuscinetto tra sunniti e curdi, sradicando così la comunità cristiana dal suo legame con il Paese.

A differenza degli altri casi, nella vicenda curda la questione religiosa non entrava per nulla, ma il risultato non cambiò. Nel tentativo di indebolire al massimo la componente turca in quello che era stato l’impero ottomano, il trattato di Sèvres del 1920 concedeva ampie autonomie alle regioni curde, indicendo per il futuro addirittura un referendum per pronunciarsi sull’indipendenza. Quella del referendum in realtà fu un’autentica fissazione del periodo post-bellico, ma nel caso dei curdi rimase lettera morta. La reazione di Kemal Atatürk contro la Grecia portò al più equilibrato Trattato di Losanna del 1923, nel quale tuttavia la questione curda veniva accantonata. Incidentalmente, in questi anni di sconvolgimenti, la popolazione cristiana in Anatolia si azzerò quasi completamente. Romei residenti da millenni in Cappadocia, spesso di lingua turca e distinguibili dai loro vicini solo per la religione, furono costretti a emigrare in Grecia.

Leggere gli accordi, le dichiarazioni, i trattati che la diplomazia produsse tra il 1914 e il 1923 significa quindi imbattersi nei principali problemi del Medio Oriente contemporaneo. Pur nella diversità dei casi particolari, è comunque possibile ritrovare una tendenza comune. Per dirla in una parola, la prima guerra mondiale inoculò nella regione – e non solo, pensiamo ovviamente ai Balcani – il virus del nazionalismo. Nazionalismo vuol dire identità certe, nelle quali l’elemento religioso necessariamente entra con forza (non lo capirono i cristiani arabi), confini marcati, comunità normalizzate per poter essere finalmente “moderne”. Vuol dire insomma riduzione o perdita del pluralismo. A costo di un’ardita semplificazione si può dire che inizia allora il lungo processo che, per responsabilità locali e internazionali, conduce all’attuale crisi culturale del Medio Oriente. Una crisi che si esprime fisicamente nelle barriere e nei confini che dividono una regione tradizionalmente aperta e di passaggio. Chi prova a spostarsi oggi via terra non solo dagli Stati arabi a Israele, ma anche dalla Giordania alla Siria (prima della guerra, ovviamente) o dall’Iraq alla Turchia, lo può toccare con mano.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Tags