Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:56

17 gennaio, il Cairo: il nostro taxi è imprigionato nel traffico, zona Doqqi. Un giovane si avvicina e ci butta in macchina un volantino. È un manifesto che invita con toni accesi a essere presenti in tribunale il giorno della sentenza per la strage di Port Said. Sembra una questione di poca importanza. In realtà la sentenza, arrivata il 26 gennaio scorso, scatena un’ondata di disordini che dalla zona di Suez si estende alla capitale. Scendono in campo i manifestanti, al Cairo fanno la loro comparsa i black block, viene imposto il coprifuoco in tre governatorati, la borsa crolla, la lira egiziana arretra, le opposizioni riunite nel Fronte di Salvezza nazionale attaccano duramente il governo Qandil (sempre più in bilico) e il Presidente Morsi, che dal canto suo invita al dialogo e a mettere l’Egitto al primo posto. Ma l’opposizione pone come condizione una revisione della legge elettorale in vista della formazione del nuovo parlamento. Il ministro della Difesa – un generale – intervenendo ieri all’accademia militare lancia un avvertimento chiaro: «Le sfide e le difficoltà politiche, economiche, sociali e di sicurezza che l’Egitto affronta attualmente rappresentano una vera minaccia alla sicurezza e alla coesione del Paese. Se questo scenario dovesse continuare senza un intervento da parte di tutte le parti coinvolte, ciò porterebbe a gravi conseguenze che influirebbero negativamente sulla solidità della Patria e sul recupero di stabilità». Com’è possibile che uno scontro tra ultras abbia innescato una tale catena di eventi? Il fatto è che la strage dello stadio di Port Said, il 1° febbraio 2012, non è stata un semplice scontro tra ultras. Al termine della partita tra Ahly (la più popolare delle due squadre di calcio del Cairo) e Masry (formazione locale) restano sul campo 73 morti e mille feriti. Con la sua sentenza la corte d’assise commina la pena capitale (salvo grazia del Mufti della Repubblica) a 21 imputati, ma non chiarisce la dinamica di quanto avvenuto. I tifosi dell’Ahly rappresentano una forza organizzata imponente e hanno avuto un ruolo determinante durante la rivoluzione nel resistere agli attacchi orchestrati dal regime di Mubarak. Pertanto una delle ipotesi avanzate fin da subito è che la strage sia da imputare a servizi deviati del regime caduto, che si sarebbero così vendicati degli oppositori. In un’intervista al quotidiano d’opposizione al-Yôm as-Sâbi’, Tahani al-Gebali, già vice-presidente della Corte Costituzionale, riapre però il dossier. La strage – sostiene – fu opera di professionisti e il risultato fu gettare il discredito sul Consiglio Supremo delle Forze Armate. Inoltre l’ex-giudice costituzionale prevede un verdetto di incostituzionalità per la nuova legge elettorale. Scena già vista nel giugno scorso, quando il Parlamento si sciolse a causa di un vizio nella legge elettorale, ma che potrebbe gettare il Paese nel caos. Due dati emergono con chiarezza: da un lato, la confusione che regna a livello istituzionale. «I Fratelli Musulmani sono forti, ma deboli per guidare il Paese» aveva dichiarato Gamal al-Banna nel dicembre scorso ad Arab West Report e i fatti sembrano finora dar ragione all’anziano intellettuale scomparso proprio oggi al Cairo, fratello minore del Fondatore dei Fratelli Musulmani, ma orientato su posizioni liberali. Nel frattempo però la situazione economica si deteriora. Gli ultimi scontri hanno imposto una battuta d’arresto ai negoziati per il prestito del Fondo Monetario Internazionale, di cui l’Egitto ha assoluto bisogno. «La gente è stanca», ripetono in molti. La vita quotidiana continua con i suoi ritmi, quasi a lato delle proteste, ma non si può tirare la corda all’infinito.