Nel suo Sept morts audacieux et un poète assis, lo scrittore tunisino Saber Mansouri immagina una repubblica felice durata solo tre giorni. Una fiaba politica per riflettere sulla dittatura e sulla democrazia

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:32

Tunisia. 26 gennaio 2011. Davanti al tribunale dell’Istituzione Infallibile e alla sua Grande Vigilante, l’onnipresente e onnipotente apparato poliziesco, si svolge il processo agli otto traditori della Nazione che hanno osato fondare una Repubblica autonoma nel nord-ovest del Paese. Sette di loro saranno condannati a morte. L’ottavo, il poeta Amir, verrà graziato, ma non potrà mai più sedersi né scrivere versi.

 

26 maggio 2026. Davanti alla Suprema Corte Riparatrice dei mali del passato, siede l’ormai anziano poeta Amir. Il suo compito consiste nel far rivivere le testimonianze rese dai suoi sette confratelli durante il processo del 2011. Uno dopo l’altro, capitolo dopo capitolo, si snodano così le storie personali degli otto condannati. Parla l’uomo arroccato in cima alla Collina Blu. Parla l’avvocata che ha perso tutti i processi politici e guadagnato molto denaro. Parlano il medico che non voleva curare il notabile di Tunisi, il commerciante devoto, il futuro uomo politico tornato da lontano, la brillante giornalista inciampata nella gaffe del secolo, lo storico che faceva ricerca in una piccola isola bretone, Groix. E, in chiusura, parla Amir, il poeta finalmente seduto. Nei loro racconti si ricompone l’epopea che li ha portati a fondare la Repubblica di Font’Alba (Source-de-l’Aube), una repubblica felice durata solo tre giorni prima che il potere centrale la riportasse all’ordine, una repubblica basata su quattro principi cardine: autostima, fedeltà, verità e giustizia sociale. Dalle loro parole, fuoriescono il ritratto, a tratti caustico, di una Tunisia multiforme e piena di talenti individuali; la disincantata descrizione della riva sud del Mediterraneo, terra governata da despoti che tengono in pugno i loro popoli senza nutrire per loro neppure un briciolo d’amore; e una profonda riflessione universale sulla dittatura e sulla democrazia.

 

Il romanzo che racconta questa bella fiaba, politica ma per nulla ingenua, si intitola Sept morts audacieux et un poète assis (Sette morti audaci e un poeta seduto), ed è uscito nell’ottobre del 2020. L’autore, però, in numerose interviste ci fa sapere che la sua stesura è iniziata nel 2008 e si è conclusa nel 2019, cosa che rende quasi incredibile la presenza nel racconto di alcuni particolari che sembrano dettati dalla realtà più attuale (un esempio per tutti: il medico che non voleva curare il notabile di Tunisi intendeva fondare a Font’Alba un ospedale indipendente, completamente autonomo, che avrebbe prodotto da sé le medicine e i vaccini utili a proteggere tutta la popolazione).

 

L’autore del romanzo è Saber Mansouri, cinquantenne tunisino che da molti anni insegna Storia dell’antica Grecia nelle università parigine. Uno storico, dunque, come ben si comprende dalla puntigliosità con cui sono rintracciati i capisaldi del passato culturale e politico del suo Paese, da Aristotele alla caduta di Ben Ali, passando per la colonizzazione francese, il regno di Bourguiba e la rivolta popolare nella zona mineraria di Gafsa del 2008. Ma anche un filosofo, come dimostrano le riflessioni sull’autostima contrapposta all’odio di sé, e l’incessante interrogarsi su cosa sia, di preciso, la giustizia sociale e come la si possa effettivamente raggiungere.

 

Sette morti audaci e un poeta seduto è anche, per almeno due motivi, un romanzo controcorrente. In primo luogo perché Saber Mansouri, che ha al suo attivo già alcuni saggi e due romanzi pubblicati in Francia da case editrici di rilievo, sceglie di fare uscire questo suo importante testo con un editore tunisino, Elyzad, che dalla sua fondazione, nel 2005, porta avanti un progetto innovativo e felicemente ambizioso: promuovere autonomamente i propri libri, che sono in francese, senza passare per intermediari europei, con l’intento di dimostrare l’autonomia del sud rispetto a un nord monopolista, «convinto delle proprie prerogative [ma] pieno di fragilità rimosse»[1].

 

In secondo luogo, è un romanzo controcorrente perché, pur rientrando nel genere distopico che, soprattutto in Egitto, negli ultimi anni ha conosciuto una decisa impennata, non abbraccia la visione apocalittico/catastrofista che mette in scena un futuro disumano con esigue speranze di redenzione ma sceglie, invece, la strada dell’utopia in divenire. Invece di colpevolizzare una società in decadenza, rende omaggio alle tante virtù del suo popolo e, per estensione, ai dimenticati della terra intera. Pur non rinunciando ad ammettere che le aspettative non si sono (ancora?) totalmente realizzate, Saber Mansouri si discosta in toto dalla negatività e dalla delusione, per esempio, che ci descrive Basma Abdel Aziz in La fila[2], o dall’edonismo che mette in scena Ahmad Naji in Vita: istruzioni per l’uso[3], solo per citare quanto è uscito in traduzione italiana. E, considerando anche romanzi che non ci sono arrivati in traduzione ma hanno ottenuto innegabile successo in patria, si tiene ben lontano anche dalla violenza, dallo schifo, dal dolore che sono i veri protagonisti di Mercurio[4], del talentuoso e disilluso Muhammad Rabi‘.

 

Sette morti audaci e un poeta seduto, come si è detto, non è soltanto un romanzo tunisino. È anche un romanzo algerino poiché l’Algeria, cui il testo si riferisce sempre con il nome di Paese-Testardo (Pays-Têtu), è presente nel carattere dei protagonisti, nell’asperità del territorio, nella fratellanza che unisce due popoli separati da un confine imposto dall’alto.

 

È anche un romanzo arabo, perché i protagonisti sono rappresentativi dell’intera regione: «Sei sopravvissuto all’islamismo, al terrorismo, al salafismo, alla barbarie e a un’escalation linguistica che tentava di dare un volto al male del secolo nascente, all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, insomma all’inizio di un nuovo ciclo di distruzione del Medio Oriente, di quell’Oriente poco complesso, un territorio immenso, guidato da uomini che hanno innalzato a principio di governo il disprezzo per la loro gente; sì, fratello mio, sei sopravvissuto alla lenta distruzione della Mesopotamia e all’ininterrotta disfatta araba»[5].

 

Ed è, in ultima analisi, un romanzo decisamente mediterraneo. Attraverso le testimonianze dei vari personaggi, infatti, si ripercorrono eventi e contrade lontani nello spazio e nel tempo – la Francia, l’Iraq, la Libia, la Germania – ma uniti nella tessitura di un unico, non separabile, destino. Un destino fatto di commistione e di meticciato, dove lo scontro si fa incontro partendo, anche, dall’apprendimento della lingua dell’Altro: «Se ti rifiuti di imparare la lingua di Bossuet e di Renan, non capirai mai la tua storia, la storia del tuo paese e della grande fraternità che lega l’Algeria e la Tunisia; no, non capirai mai la colonizzazione, il protettorato, il maschile e il femminile; non afferrerai mai perché noi, i bretoni, abbiamo patito la guerra fin dal XIX secolo; non capirai mai perché, a fasi alterne, vi chiamiamo arabi, musulmani, berberi, mori, barbareschi, indigeni e non so cos’altro ancora»[6].

 

Sette morti audaci e un poeta seduto ha, infine, anche dei lati che lo pongono in continuità con autori che lo hanno preceduto. Il compianto Samir Kassir, per esempio, che nel suo piccolo capolavoro L’infelicità araba[7] dichiara: «[…] è soltanto recuperando la storia nella sua interezza e con tutti i suoi passaggi che si potrebbe pensare di mettere un termine all’infelicità araba»[8]. Ed è su questa scia che sembra porsi Saber Mansouri quando dichiara, in varie interviste, che il suo romanzo vuole «far risuscitare i popoli arabi, liberarli dalla loro prostrazione, affrancarli dalla sconfitta».

 

In continuità, ancora, con il decano, anche lui francofono, della letteratura marocchina, quel Driss Chraibi che con il suo ispettore Ali della Reale polizia di Casablanca, pubblicato in Italia da Marcos y Marcos, può essere considerato il precursore del genere poliziesco mediterraneo, e nei cui romanzi, esattamente come in questo Sette morti audaci e un poeta seduto, riverbera prepotente la capacità di leggere il mondo con sguardo modificato.

 

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[1] “Il sud del futuro”, intervista di Luca Scarlini a Elisabeth Daldoul in Almanacco, Festivaletteratura, Mantova 2020.
[2] Edizione originale al-Tābūr, Dār al-Tanwīr, Bayrūt/Tūnis 2013. Traduzione italiana di Fernanda Fischione, Nero, Roma 2018.
[3] Edizione originale Istikhdām al-hayāt, Manshūrāt Marsūm, al-Qāhira 2014. Traduzione italiana di Elisabetta Rossi e Fernanda Fischione, Sirente, Fagnano Alto 2016.
[4] ‘Utārid, Dār al-Tanwīr, Bayrūt/Tūnis 2014.
[5] Sept morts audacieux et un poète assis, Éditions Elyzad, Tunis 2020, p. 338.
[6] Sept morts audacieux et un poète assis, pp. 47-48.
[7] Edizione originale Considérations sur le malheur arabe, Actes Sud, Arles 2004. Traduzione italiana di Paola Lagossi, Einaudi, Torino 2006.
[8] L’infelicità araba, p. 29.