Muhammad Mahdi Shamseddine elabora una visione generale di un Islam caratterizzato da clemenza e moderazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:55

Giurisprudenza creativa. Nei suoi Testamenti Muhammad Mahdi Shamseddine elabora una visione generale di un Islam caratterizzato da clemenza e moderazione. E chiama i fedeli musulmani a inserirsi nel mondo per contribuire all’edificazione di uno Stato civico che tuteli tutte le componenti di società complesse.

L’imam Shamseddine ha saputo restituire alla giurisprudenza islamica un ruolo creativo e vitale, immaginando una nuova convergenza tra le costanti della Legge e le novità della vita moderna. Shamseddine era un giurista completo (mujtahid mutlaq), una caratteristica rara negli ultimi secoli, in cui gli sforzi giuridici sono stati tendenzialmente rivolti ai soli rami del diritto e non ai loro fondamenti e si sono dispiegati in generale secondo una sola scuola giuridica di pensiero. A differenza di questo approccio, l’imam Shamseddine ha adottato il metodo della giurisprudenza comparativa tra tutte le sette tradizioni giuridiche, non limitandosi alla sola scuola ja‘farita (sciita duodecimana). Inoltre ha trattato per primo di questioni per lungo tempo trascurate, come il diritto ambientale e il diritto civico, e ha affrontato alcune questioni critiche come quella del diritto delle donne, della violenza armata e della teoria del potere nella comunità politica islamica moderna.

Caratterizzato da una sorta di “orgoglio della ragione”, Shamseddine non cercava una popolarità a buon mercato. Nei Testamenti (al-wasâyâ)[1] ha sviluppato una visione islamica generale, fondata su un Islam clemente e moderato. Clemenza è qui sinonimo di indulgenza e apertura che lasciano spazio all’altro, considerandolo un partner alla pari anche se diverso nell’equazione; mentre la moderazione implica il controllo di tutte le parti dell’equazione e una scelta cosciente per la giustizia e l’equità. Questo tipo di Islam dà fiducia ai suoi fedeli, chiamandoli a inserirsi in modo costruttivo nel ritmo dell’epoca odierna e a partecipare in maniera effettiva alla realizzazione del futuro, costituendo una valida alternativa al ripiegamento su se stessi o all’implosione tra le pareti del sé.

 

Comunicare con il mondo

L’epoca contemporanea, secondo l’imam Shamseddine, non consente più a nessuna tradizione religiosa una crescita o una rinascita entro mura serrate e anche i musulmani devono ormai fare i conti con tre condizioni imprescindibili: comunicare con il mondo; lavorare in maniera trasparente; e istituire forme di collaborazione con altri credenti, specialmente con i cristiani, per affrontare insieme la malattia che colpisce attualmente la civiltà e che si può caratterizzare come un brusco calo etico accompagnato da un aumento esorbitante di quella che l’imam definiva la «tendenza predatoria faustiana». Oggi più che mai la scena internazionale è dunque il luogo di un’interazione senza barriere e senza formazioni fisse e preformate. Con questa tesi Shamseddine prende una chiara distanza intellettuale e comportamentale rispetto a due tendenze: il fondamentalismo con il suo eccesso di violenza, e il salafismo legato a un passato lontano. Entrambi sono a suo avviso contraddistinti da molto entusiasmo e religiosità, ma poca pietà e comprensione (conoscenza).

Nell’avanzare le proprie tesi[2] Shamseddine ha ben presenti le tendenze principali che, emerse alla fine del XIX secolo, mirano a modernizzare gli arabi e il mondo musulmano. La prima di esse raccomanda una modernizzazione selettiva, in altre parole prendere le cose dall’Occidente dopo averle rimosse dal loro contesto culturale. La seconda insiste sulla modernizzazione dell’Islam dall’esterno, senza cioè tenere in considerazione la giurisprudenza islamica. La terza auspica che questa modernizzazione si realizzi attraverso l’imitazione e l’emulazione dell’Occidente, ciò che corrisponderebbe un completo tradimento di sé.

Tornando ai Testamenti, si può dire che essi costituiscono un appello indirizzato agli sciiti libanesi e degli altri Paesi perché sappiano integrarsi nei loro Paesi e nelle loro società astenendosi dallo sviluppare qualunque tipo di progetto separatista, politico o economico, in nome di qualsivoglia pretesto o denominazione. Tali progetti infatti sarebbero tutti artificiosi se non dannosi per la Shi‘a. La questione, centrale, è trattata a due livelli, uno realistico e pratico, basato sulla necessità dell’autoconservazione che insegna a evitare rischi indesiderati e avventure inutili, e uno più teoretico, proprio del diritto islamico. Si noti peraltro che interessi privati, necessità pubbliche e posizione giuridica islamica, dal punto di vista di Shamseddine, non dovrebbero mai confliggere né contraddirsi. Da qui deriva la tendenza, a mio avviso deliberata, a sottolineare fortemente i detti e le tradizioni di due Imam in particolare nella Casa del Profeta, l’Imam Ja‘far al-Sâdiq e l’Imam Muhammad al-Bâqir. Essi esprimerebbero un metodo di riforma progressivo in cui il pubblico ha la precedenza sul privato così da evitare la formazione, all’interno della comunità islamica, di una partigianeria dalla mentalità chiusa.

 

 

Né rivoluzione né dissimulazione

Questo orientamento confligge con l’impressione prevalente dello sciismo come movimento storico che in certi momenti si sarebbe spinto troppo oltre nel rifiuto, nella rivoluzione e nel rischio politico, mentre in altri sarebbe restato troppo introverso praticando la dissimulazione (taqiyya). L’imam Shamseddine, come peraltro altri intellettuali musulmani, ritiene che questa impressione sia valida solo se riferita a taluni movimenti sciiti al di fuori della tradizione duodecimana o che quantomeno si debba parlare di una confusione tra queste due anime. Proprio per questo, l’imam Shamseddine si rivolge agli sciiti chiedendo loro di non considerarsi come una minoranza nel mondo arabo e di non agire secondo quest’ottica. La storia infatti testimonia come il comportamento da minoranza abbia causato solamente danni alla Shi‘a e abbia alimentato un atteggiamento di sospetto nei suoi confronti. Inoltre il concetto di minoranza si presta oggettivamente, e a prescindere dalle intenzioni di chi lo invoca, all’ingerenza occidentale negli affari della regione, che si giustifica spesso proprio con il pretesto di “proteggere le minoranze”. Lo insegna la storia dell’Impero ottomano, come anche casi più recenti. A questo proposito è rimasta celebre la formula di Shamseddine:

 

Nella nostra regione araba e islamica non vi sono minoranze musulmane e minoranze cristiane; piuttosto sono presenti due grandi maggioranze: quella araba che comprende musulmani e non-musulmani, e quella musulmana che comprende arabi e non-arabi. Gli sciiti fanno parte di entrambe le maggioranze.

 

Se gli ebrei non avessero adottato il sionismo, l’imam Shamseddine li avrebbe probabilmente inclusi nella maggioranza araba. A ogni modo, Shamseddine sperava che i cristiani arabi adottassero questa visione non-minoritaria che, oltre a essere nel loro interesse, converge con le risoluzioni adottate dalle Chiese orientali, ortodosse e cattolica, come emerge ad esempio dall’Esortazione Apostolica Una speranza nuova per il Libano, redatta da Giovanni Paolo II nel 1997. Una tale visione darebbe ulteriore sostanza all’appello che Shamseddine rivolgeva al Cristianesimo del Levante «perché riconquisti una presenza piena ed efficace e un ruolo nel processo decisionale e nella storia, e perché istituisca un pieno partenariato con i musulmani sotto questo aspetto».

 

La non obbligatorietà di uno Stato islamico

Spostandoci ora al secondo livello, quello della giurisprudenza islamica, si può osservare che i Testamenti prendono posizione rispetto alla questione, piuttosto controversa all’interno dell’Islam politico attivo o teoretico, del «progetto di Stato nazionale» in contrapposizione o parallelamente al «progetto di Stato islamico» o «di governo islamico». A tale questione è legata quella di una società plurale e aperta, in contrapposizione a una società elitaria e pura, chiusa nella sua monocultura e nei suoi rituali. Il nocciolo della questione può essere riassunto in questi termini: a livello nazionale o nazionalista, i musulmani sono tenuti a istituire un governo islamico, dato che la dimensione politica per l’Islam è oggetto della legislazione divina e rappresenta un obbligo legale sottratto al dibattito? L’imam Shamseddine, nel suo libro Sulla sociopolitica islamica risponde nei termini seguenti:

 

Tutti i musulmani, a livello nazionale o nazionalista, devono necessariamente avere un sistema amministrativo e un governo che proteggano e garantiscano sicurezza e progresso. Ma che questo sistema e questo governo debbano essere islamici non è né assiomatico né evidente, così come non lo è per qualsiasi altra comunità politica contemporanea al di fuori del mondo islamico. Qualunque comunità politica infatti, per esempio quella americana o quella inglese, deve avere necessariamente un sistema amministrativo e un governo. Ma che al potere ci siano i laburisti/socialisti oppure i capitalisti/conservatori, la società nel suo complesso s’impegna a rispettare le norme e i principi della democrazia. Similmente, la comunità politica islamica può restare musulmana nella sua composizione e nella sua dinamica generale anche senza un sistema di governo islamico. È sufficiente che adotti un sistema non incompatibile con l’Islam inteso come credo della comunità. L’essenziale è che l’Islam trovi sostegno all’interno della Nazione (umma) e che la Nazione (umma) rimanga musulmana e unita.

 

In questo testo, fondato sui principi della deduzione tipici dei giuristi musulmani, Shamseddine stabilisce la non obbligatorietà di istituire uno Stato o un governo islamico. In altri suoi studi egli si spinge oltre e dichiara che è addirittura illegittimo istituire uno Stato islamico o tentare di istituirne uno in una società plurale, multiconfessionale e multi-religiosa, in cui le diverse componenti sono in uno stato di equilibrio o quasi-equilibrio, com’è il caso di molti Stati tra cui il Libano. Perciò la divergenza di opinione tra l’imam Shamseddine e alcuni attivisti islamisti non riguarda soltanto il metodo da adottare per istituire un governo islamico, se cioè si debba utilizzare la forza e l’imposizione oppure la persuasione e la democrazia. Il contrasto è più profondo e riguarda la posizione giuridica di partenza. Tutti i sostenitori dell’“idea libanese” dovrebbero meditare questa tesi, che nei Testamenti raggiunge un’ultima formulazione trattando la questione della “patria ultima”, cioè l’entità finale a cui i libanesi dovrebbero appartenere. Invitando ad adottare il sistema del confessionalismo politico, fondato sul consenso, e a regolarsi secondo il patto stipulato tra le comunità confessionali, Shamseddine esprime l’auspicio che «adottando questo sistema il Libano potrà diventare un faro luminoso e un modello per altre società caratterizzate da pluralità interna». Per Shamseddine insomma il Libano è più che un Paese, è un messaggio, per riprendere la celebre e talvolta abusata espressione di Giovanni Paolo II. E proprio per questa ragione egli prende posizione contro tutti quegli orientamenti che disprezzando tale esperienza invitano, volta per volta, ad arabizzare il Libano, o a islamizzarlo o a secolarizzarlo, partendo sempre dal presupposto che il problema risieda originariamente nella pluralità confessionale e in un sistema fondato sul mutuo riconoscimento delle varie componenti sociali.

 

Lavorare per uno Stato civico non religioso

Invitando gli sciiti a integrarsi nella loro patria e società, Shamseddine li chiama invece a lavorare per la creazione dello Stato nazionale. Come? Attraverso il partenariato, il consenso e la ricerca di un accordo con tutte le componenti della società nazionale nel quadro di uno Stato che deve comunque rispettare l’Islam e tutte le altre religioni, riconoscendole come fedi della società. Si può allora comprendere perché Shamseddine considerasse l’esperienza della Shi‘a libanese come l’unico modello di successo che gli sciiti abbiano saputo elaborare nei tempi moderni per situarsi correttamente in una società plurale. Da qui l’appello per una Ta’if irachena che, sul modello di quanto avvenuto in Libano alla fine della guerra civile, ponesse fine alle lotte interne tra sunniti e sciiti. L’individuazione di una formula politica possibile per la società irachena plurale, e non la riconciliazione tra l’opposizione e il regime di Saddam, avrebbe dovuto guidare per Shamseddine le scelte per l’avvenire dell’Iraq. Ma allora quale dovrebbe essere la natura dello Stato nazione? Secondo una tesi piuttosto nota, esso dovrebbe essere uno Stato civico non religioso. La sua natura “non-religiosa” non costituisce un problema per il musulmano praticante, significa semplicemente che l’Islam è rappresentato nella umma piuttosto che nello Stato. Lo Stato non è altro che uno strumento della società, creato in vista di questa. In sé, non ha nulla di sacro, non può prevalere sulla società o dominarla. Va da sé che l’autorità in uno Stato civico risiede nella società, ragione per cui, nella visione di Shamseddine, la democrazia non costituisce un problema.

Diverso è il caso di una società completamente o prevalentemente musulmana, com’è il caso dell’Iran, dove la Shi‘a non deve affrontare il problema dell’integrazione in un progetto nazionale o sociale più ampio e multiconfessionale. È naturale che una società di questo tipo possa pensare a istituire uno Stato islamico. Ciò che in questo caso è controverso non è tanto la natura dello Stato in sé (islamico/non islamico) quanto la fonte dell’autorità. Shamseddine ritiene infatti che «l’auto-tutela della umma (wilâyat al-umma ‘alâ nafsiha rappresenti oggi la soluzione sia per i sunniti, dopo la fine del califfato ottomano, sia per gli sciiti, dopo l’occultamento del dodicesimo Imam. In altre parole, è la umma a conferire l’autorità ai governanti attraverso la democrazia e la consultazione (shûrâ), due termini che – avverte peraltro Shamseddine – sono molto simili ma non completamente sovrapponibili. Anche solo da questa veloce ricognizione dei Testamenti si può dunque intuire l’attualità del pensiero di Shamseddine nell’ambito della giurisprudenza islamica e del suo necessario rinnovamento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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[1] I Testamenti furono registrati a voce poco prima della scomparsa dell’imam Shamseddine, nel 2001. Sono stati pubblicati dal figlio maggiore Ibrahim presso la Dar an-Nahar (Beirut 2002) e tradotti in francese inglese e spagnolo (Presses de l’Université Saint-Joseph, Beirut 2008).

[2] Sul rapporto tra le sue tesi e le tre tendenze si vedano i tre studi presentati alle conferenze del consiglio supremo degli affari islamici al Cairo: Al-Islâm wa-l-gharb (Islam e Occidente, luglio 1997);Mawqif al-islâm min al-‘’awlama fî-l-majâl al-thaqâfî wa-l-siyâsî (La posizione dell’Islam rispetto alla globalizzazione nell’ambito culturale e politico, luglio 1998); Nahw mashrû‘ hadârî li nahdat al-‘âlam al-islâmî (Verso un progetto di civiltà per la rinascita del mondo islamico, giugno 2000). Si vedano inoltre: Al-masîhiyya fî-l-mafhûm al-thaqâfî al-islâmî al-mu‘âsir (Il Cristianesimo nella concezione culturale islamica contemporanea, intervento tenuto nell’ambito della conferenza sul Dialogo islamo-cristiano, Roma, maggio 2000); Al-islâm wa-l-masîhiyya: târîkh mushtarak fî difâ‘ ‘an al-haqq (Islam e Cristianesimo: una storia comune in difesa del diritto, Lezione a Damasco, 2000). Da considerare infine anche il volume Fiqh al-‘unf al-musallah fî-l-islâm (Giurisprudenza della violenza armata nell’Islam), Beirut 2011.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ibrahim Shamseddine, Appello agli sciiti: integrati non egemoni, «Oasis», anno X, n. 19, giugno 2014, pp. 52-55.

 

Riferimento al formato digitale:

Ibrahim Shamseddine, Appello agli sciiti: integrati non egemoni, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2014, URL: 

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