Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:04

Malgrado lo stallo di sabato 4 febbraio, quando il veto russo e cinese ha bloccato una dura mozione contro il regime di Damasco, è chiaro che l’Onu è alla ricerca di un accordo sulla Siria. Lasciare degenerare lo scontro sarebbe negativo per tutta la regione, ma l’equilibrio è ancora tutto da trovare. Il governo di Damasco conta sull’alleanza con la Russia (a Tartous, in Siria, c’è l’unica base navale russa fuori dal proprio territorio) oltre che sull’appoggio iraniano ed è ben armato. L’Occidente teme un coinvolgimento diretto perché non ha altre forze da investire dopo la campagna in Libia, e Israele finora ha mantenuto un basso profilo, forse perché preferisce occuparsi della minaccia nucleare iraniana, e probabilmente anche perché non è sicuro che il cambio di leadership a Damasco tornerebbe a proprio vantaggio.

L’Arabia Saudita e il Qatar invece, attraverso la Lega Araba, spingono fortemente per l’intervento – e probabilmente hanno già iniziato ad agire almeno finanziariamente, oltre che mediaticamente attraverso al-Jazeera. Anche la Turchia ha assunto una posizione molto ostile nei confronti di Damasco. La Siria insomma è al centro di un complesso gioco internazionale. Una cosa è certa: come ricordava in una recente intervista un monaco italiano che vive da molti anni in Siria, Padre Paolo Dall’Oglio, e che pure è noto per la sua posizione molto critica verso il regime, è del tutto fuorviante presentare i fatti semplicemente come uno scontro tra democratici e anti-democratici, anche se la questione della dittatura e della richiesta di libertà è e resta cruciale. Il fatto è che il Paese è religiosamente ed etnicamente composito e ogni giorno che passa si va sempre più verso la guerra civile.

La rivolta è iniziata in primavera, con epicentro nella regione costiera. Molti ricorderanno il bombardamento di Lattakia dal mare, quest’estate. Però nella zona costiera predominano gli alawiti, il gruppo sciita a cui appartiene la famiglia Asad, e altre minoranze (a livello nazionale) come i cristiani. Il risultato è che la rivolta è stata soffocata e la zona resta in mano al governo di Damasco, che anzi vi sta trasferendo i propri arsenali in vista della creazione di un mini-stato. I rivoltosi allora, oltre a continuare le azioni nel sud, nella zona di Der’a, si sono spostati nelle città in cui predominano i sunniti, come Hama e Homs, mentre Damasco e Aleppo restano in mano al governo centrale, ma sempre più come due isole, secondo quanto riferiscono diversi mezzi d’informazione. Homs è fondamentale perché controlla la via che unisce Damasco e Aleppo. È inoltre vicino al confine libanese, da cui affluiscono armi a favore dei rivoluzionari. C’è infine un elemento simbolico. Nel 1982 c’era già stata una rivolta sunnita contro il padre di Basshar, Hafez al-Asad, e aveva avuto come epicentro la vicina Hama.

Fu però stroncata con l’invio dell’esercito che cannoneggiò la città fino ad aver ragione degli insorti. Si parla di 10.000 vittime. Tutta questa storia di contrapposizioni settarie, che sembrava dimenticata, covava sotto la cenere e sta riesplodendo. Entrambe le parti hanno scelto la strada del conflitto e stanno giocando la carta comunitaria, non senza contraddizioni: quel governo siriano che denuncia l’intrusione di combattenti qaedisti, in passato incoraggiò la formazione di unità combattenti da inviare in Iraq in appoggio all’insurrezione anti-americana. Il cosiddetto esercito libero siriano, dal canto suo, ha scelto l’opzione della guerra di nervi: brevi comparse in un luogo, poi ritirata strategica prima dell’arrivo dei mezzi pesanti dell’esercito miliare. Si parla di 70 carri armati in movimento verso Homs a partire dal confine libanese, anche se è difficile verificare queste informazioni perché è in corso anche una guerra di propaganda. In sintesi il conflitto è ampio, chiama in causa tutti i principali attori mediorientali. Le due parti, regime e rivoluzionari, sono entrambe ben armate.

Più la guerra diventa settaria, cioè civile, meno probabilità hanno di emergere le richieste democratiche, sacrosante, che pure erano state all’origine delle proteste. Un ex-militante di Hezbollah ha dichiarato di recente al sito liberale Elaph: «La Siria si dirige verso una guerra civile alla fine della quale resterà solo cenere». La soluzione negoziale potrebbe prevedere una serie di riforme immediate per riequilibrare la gestione del potere tra i diversi gruppi religiosi siriani, probabilmente con l’abbandono da parte del Presidente. Ma allo stato attuale si tratta di un’ipotesi altamente improbabile.