Gli eventi che hanno portato al crescere delle tensioni tra Arabia Saudita e Iran mettono in luce lo scisma che da sempre li divide: il primo Paese si vuole protettore della comunità sunnita, il secondo degli sciiti

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:06

Dall’epoca classica ad oggi scontri teologici e conflitti politici hanno reso sempre più profonda la discordia tra i due gruppi che si è avvalsa anche della polarizzazione Impero Persiano-Impero Ottomano. I tentativi di intesa e le accuse reciproche. «Dio è uno»: è la dottrina del tawhȋd, il principio cardine dell’Islam. Secondo una certa logica, poiché esiste un solo Dio, solo una via conduce a Lui: è la via diritta, quella della verità e dell’Islam, che dunque è presentata come l’unica. Il Corano, d’altra parte, esorta i credenti a non dividersi in sette (firaq) .

L’unicità divina sottintende l’unicità della dottrina e l’unità (wahda) della umma, la comunità dei credenti che riunisce tutti i musulmani. Si tratta però di uno schema ideale, dal momento che la storia dell’elaborazione dottrinale, così come quella delle società musulmane, mostra che l’Islam non è uno, ma plurale, e che i credenti non sono mai stati tutti uniti come un solo uomo attorno a un’unica concezione della religione. Un hadȋth (detto attribuito al profeta Muhammad) illustra bene questo ideale contraddetto, perché in sostanza dice, nelle sue diverse varianti, che la comunità musulmana si sarebbe scissa in 73 sette, 72 delle quali sarebbero andate all’inferno mentre una sola sarebbe stata salvata: “la comunità” per eccellenza (al-jamâ‘a). Naturalmente, se tutti si considerano gli eletti, non resta che determinare di quale “comunità” si tratti, ossia chi includervi e chi escludervi. I dotti dell’Islam hanno interpretato il termine in funzione dei loro rispettivi approcci. Alcuni vi hanno visto, semplicemente, i giusti, quanti seguono i precetti dell’Islam (Ghazâlȋ) ; altri hanno enumerato delle categorie precise (‘ulamâ’, esegeti, teologi…); altri ancora vi hanno individuato i sunniti (ahl al-sunna wa al-jamâ‘a), ciò che equivale a dire la maggioranza dei musulmani. Si vede bene come questo hadȋth abbia alimentato le discussioni e le polemiche tra i diversi rami dell’Islam.

L’eresiografia e le polemiche dell’epoca classica tra dotti sunniti e sciiti sono ricche di dibattiti e controversie e la storia dell’Islam è contrassegnata da eventi che sono stati utilizzati, e lo sono tuttora, come indicatori della discordia tra i due gruppi. Questa storia è traversata da conflitti politici, che si esprimono talvolta in termini confessionali e dottrinali miranti alla stigmatizzazione dell’“altro”. Lo stesso vale per la rivalità tra i blocchi formati rispettivamente dall’Impero ottomano e dall’Impero persiano i quali, a partire dalla fine del XVI secolo e dopo alcune conversioni avvenute in entrambi i campi, si trovarono a essere rispettivamente a maggioranza sunnita il primo e a maggioranza sciita il secondo. Tuttavia, nel complesso, gli sciiti erano in minoranza nel mondo musulmano e venivano dunque sospettati di devianza. Erano designati con i termini dispregiativi di râfida (coloro che rifiutano l’autorità dei primi tre califfi) o bâtiniyya (in riferimento all’esoterismo della loro dottrina) . Quest’ultimo termine rimandava anche ai ghulât («estremisti», sospettati di divinizzare Ali), che erano esclusi dall’Islam, mentre gli sciiti duodecimani, in generale, suscitavano critiche, ma non erano esclusi totalmente dalla comunità. L’amministrazione ottomana, dal canto suo, non ne riconosceva la specificità: gli sciiti si confondevano con i sunniti, dovevano far ricorso agli stessi tribunali e astenersi dal praticare i loro particolari riti, per lo meno in pubblico.

Un primo tentativo di avvicinamento fu intrapreso da Nâdir Shâh, dopo che nel 1743 ebbe assediato Basra. Trovandosi in una posizione di forza, incluse nelle clausole del trattato di pace che avrebbe sottoscritto con gli ottomani il riconoscimento della scuola giuridica ja‘farita (sciita). Gli ottomani alla fine rifiutarono, tuttavia il tentativo permise di organizzare a Najaf un congresso tra ‘ulamâ’ sciiti e sunniti. Fu quindi un fallimento solo a metà. Alla fine del XIX secolo gli ottomani intrapresero a loro volta un riavvicinamento nei confronti degli sciiti. L’iniziativa era dettata da due circostanze: le minacce esterne che scuotevano l’Impero e la diffusione dello sciismo in Iraq. Il sultano Abdülhamid II mise in atto una politica pan-islamica volta a consolidare la sua posizione di leader dell’Islam, riconciliando, in qualità di califfo, sunniti e sciiti e concludendo, in qualità di sultano, un’alleanza con l’Iran. I Giovani Turchi diedero seguito a questa politica, riuscendo così a mobilitare gli sciiti, che combatterono a fianco dell’armata turca nel jihad contro i britannici.

 

Congresso a Gerusalemme

Il pan-islamismo ebbe anche leader intellettuali e religiosi: su tutti, Jamâl al-Dȋn al-Afghânȋ al-Asabâdî, ma anche Kawâkibî, ‘Abduh, Rashȋd Ridà e molti altri che accompagnarono e perseguirono questa politica. L’idea di base, quella di Jamâl al-Dȋn, era semplice. L’incapacità dei musulmani di unirsi aveva accelerato il declino dei due grandi imperi e permesso le incursioni europee. Era necessario ricomporre il corpo dilaniato della umma per far fronte alle invasioni, eliminare le divergenze dottrinali e unirsi nell’azione politica. L’unione era il rimedio di tutti i mali. Anche se queste belle idee non furono prese in considerazione in occasione del processo di formazione degli Stati moderni in Medio Oriente, esse conobbero qualche successo.

Nel 1931 a Gerusalemme si tenne un Congresso islamico che riunì sunniti e sciiti. La preghiera presso la moschea di al-Aqsà fu diretta da uno di essi, il religioso iracheno Muhammad Husayn al-Kâshif al-Ghitâ’, che nel suo sermone invitò all’unità di fronte agli attacchi dell’Occidente e nella difesa della Palestina. Appelli simili furono ripetuti negli anni ’30 e ’40, così come un dialogo tra gli ‘ulamâ’ sciiti, come Zanjânȋ, e i rettori di al-Azhar, Marâghî e Shaltût. Nel 1948 un religioso iraniano, Muhammad Taqi Qommi, fondò al Cairo un’associazione per promuovere l’avvicinamento tra le sette dell’Islam (jamâ‘at al-taqrȋb), col sostegno degli ‘ulamâ’ di al-Azhar e dei politici egiziani. Essa pubblicò una rivista, Il messaggio dell’Islam (Risâlat al-Islâm), nella quale i dibattiti tra sunniti e sciiti mantennero toni cordiali e, soprattutto, conobbe il suo apogeo quanto Mahmûd Shaltût, rettore di al-Azhar, emise nel 1959 una fatwa che riconosceva il diritto ja‘farita quale quinta scuola di diritto islamico, accanto alle quattro scuole sunnite. Anche se l’associazione risentì della rottura delle relazioni tra l’Egitto e l’Iran, in seguito al riconoscimento di Israele da parte di Teheran nel 1960, e finì per cessare le sue attività alla fine degli anni ’70, essa era comunque riuscita a compiere un grande passo nella storia del taqrȋb.

Tuttavia, le buone intenzioni degli incontri e delle dichiarazioni di principio nascondevano un disagio dovuto ai limiti del movimento per il taqrȋb e alla stessa impossibilità di realizzarlo. Un vero avvicinamento avrebbe condotto o all’adozione di dottrine comuni (problema che non fu mai veramente posto) o all’assorbimento di una parte dell’altra, ovvero della minoranza da parte della maggioranza. Di fatto i dibattiti che si sono svolti tra sunniti e sciiti a partire dall’inizio del XX secolo contengono, oltre al perenne appello all’unità, tutta una serie di accuse contro gli sciiti da parte dei sunniti, alle quali seguono le risposte sciite, formulate sotto forma di difesa o di discorsi apologetici. Questo ha una duplice spiegazione: una dottrinale, l’altra politica.

I protagonisti sunniti dei dibattiti erano partigiani della Salafiyya, e perfino simpatizzanti dei Wahhabiti. Essi invitavano alla riforma e al raggiungimento di un’intesa tra le sette nel quadro di un ritorno al periodo dei salaf, i pii antenati, un’epoca sacralizzata e idealizzata. Tuttavia, gli sciiti avevano un’altra concezione della storia di questo periodo e buona parte delle loro dottrine era inaccettabile per la Salafiyya. Le due parti non sono state dunque in grado di comprendersi e hanno continuato, fino ad oggi, a polemizzare. Peraltro, grazie alla politica pan-islamica ottomana, e successivamente alla caduta dell’Impero e alla formazione degli Stati moderni, gli sciiti hanno acquisito sempre più visibilità e libertà. Essi hanno divulgato la propria storia, hanno potuto osservare i loro rituali, fondare tribunali ja‘fariti e cercare di conquistarsi una posizione nello Stato (in Libano). Si sono cioè trovati in un processo di affermazione della loro identità, che pertanto non erano disposti a negare, e più o meno in concorrenza con i sunniti (in Iraq, per esempio). Gli sciiti dell’Arabia Saudita sono stati i più discriminati dall’istituzione dello Stato moderno, d’obbedienza wahhabita: nel 1927 alcuni ‘ulamâ’ emisero una fatwa che chiedeva agli sciiti di convertirsi all’Islam.

Le polemiche andarono relativamente declinando fino alla rivoluzione iraniana e alla nascita della Repubblica islamica d’Iran, nel 1979. Di fatto, le prime reazioni dei movimenti islamisti sunniti furono piuttosto positive. L’appello lanciato da Khomeini ad abbracciare la rivoluzione islamica era diretto a tutto l’Islam e i tentativi di esportare la rivoluzione avevano come obiettivo tanto gli sciiti quanto i sunniti. Il suo discorso unitarista si fondava, ancora una volta, sulla necessaria alleanza musulmana contro l’Occidente e su un corpo di dottrine comuni. Dopo di lui Khamenei, nel 1990, avrebbe creato una nuova istanza di avvicinamento, il Majma‘ al-taqrȋb. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’80 in Egitto, in Giordania e in altri Paesi sono stati pubblicati alcuni scritti contro lo sciismo e le idee di Khomeini. Buona parte dei loro autori era formata da islamisti sunniti siriani in esilio che puntavano il dito contro l’alleato del regime che li opprimeva, un regime definito come sciita.

 

I punti del conflitto

Fenomeni di conversione, maggiore visibilità, processi d’integrazione nazionale, posizione di forza degli sciiti: sono state queste, fino a oggi, le cause ricorrenti che hanno suscitato le reazioni della parte sunnita. Prima di esaminare gli sviluppi della crisi scoppiata in seguito alla caduta del regime baathista in Iraq, nel 2003, soffermiamoci sul tenore delle controversie, il quale, a prescindere dalle circostanze, rivela una significativa continuità. Se taluni dibattiti hanno avuto luogo nell’ambito di un tentativo di avvicinamento, sono state formulate anche numerose tesi e fatwa per rifiutare il taqrȋb, come fece Ibn Bazz, mufti d’Arabia Saudita dal 1993 fino alla sua morte, nel 1999.

I riferimenti degli autori sunniti sono soprattutto le opere di Ibn Taymiyya (m. 1328), il pensatore neo-hanbalita che scrisse un trattato, il Minhaj al-sunna, per rispondere a un autore sciita, al-‘Allâma al-Hillî il quale, nel suo Minhaj al-karâma fȋ ma‘rifat al-imâma, aveva fatto l’elogio dello sciismo. Ibn Taymiyya emise inoltre alcune fatwa contenenti dei punti, che saranno poi ripresi, contro coloro che egli definiva bâtiniyya e che tacciava di miscredenza (kufr) e associazionismo (shirk). Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb, fondatore del wahabismo, formulò le medesime accuse.

Questi scritti polemici si basano in buona parte sulle accuse lanciate dai sunniti contro gli sciiti e le loro dottrine; non si entrerà nei dettagli, numerosissimi, ma si forniranno solo le linee generali.

La prima accusa tocca il principio cardine dell’Islam. Si rimprovera agli sciiti di non rispettare la dottrina del tawhîd, “associando” a Dio gli Imam e altri ahl al-bayt , da essi venerati. Il posto speciale che essi riservano ad Ali vale loro l’appellativo di «estremisti» (ghulât).

Secondo i loro avversari, contrariamente a quanto affermano, gli sciiti non hanno accettato il Corano, che sospettano essere stato falsificato (tahrȋf). Non solo, ma essi aggiungono due versetti alla vulgata: sono dunque loro i falsificatori. Inoltre non ammettono lo stesso corpus di hadȋth dei sunniti, e ne hanno formato uno proprio.

La dottrina dell’imamato (che è negata) porta gli sciiti a rifiutare la legittimità dei primi tre califfi. Non riconoscono l’autorità dei Compagni di Maometto, che insultano (sabb al-sahâba), e hanno un’immagine negativa di ‘Â’isha e di altre “madri dei credenti”. Più in generale, hanno una concezione errata del periodo dei salaf. Attendono il Mahdi.

Hanno introdotto innovazioni biasimevoli (bid‘a), come la dottrina dell’intercessione e il culto delle tombe degli Imam e dei santi, alcuni dei quali sono più venerati della stessa Ka‘ba della Mecca. Le loro commemorazioni annuali del martirio di Husayn prevedono molto pratiche ritenute bid‘a, oltre al fatto che in esse gli sciiti esprimono il loro odio per i sunniti.

La loro scuola di diritto diverge su molti punti relativi al culto e permette il matrimonio temporaneo, che essi utilizzano come mezzo per stimolare le conversioni (questione che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro). Praticano la dissimulazione (taqiyya), e dunque mentono perennemente sul loro vero credo, e seminano la fitna (discordia).

Lo scambio di accuse è reciproco. Ad esso vanno aggiunte altrettante idee preconfezionate, pregiudizi e stereotipi, mischiati a teorie del complotto e ad altre elucubrazioni. Le controversie assumono un carattere particolarmente violento tra gli sciiti e i wahhabiti. Ne abbiamo offerta una presentazione schematica, relativa ai temi più dibattuti. In ogni caso, è chiaro che molti di questi sono i fondamenti stessi dello sciismo e dunque non possono essere abbandonati né messi in discussione.

 

“Mezzaluna sciita”

Alla metà degli anni ’70 si cominciò a parlare di risveglio sciita in Libano, per effetto di Musa Sadr. L’avvento della Repubblica islamica d’Iran ha poi provocato un’ondata di shock. Il discorso politico-religioso sciita cominciò ad avere un’eco più ampia e un certo impatto sui movimenti islamici. Tuttavia, non riuscì ad ottenere quell’adesione all’esportazione della rivoluzione cui mirava la politica iraniana: da una parte, i movimenti sunniti presero rapidamente le distanze; dall’altra, i movimenti sciiti stessi, di molto anteriori alla rivoluzione iraniana, avevano la propria agenda e nutrivano riserve sui tentativi egemonici iraniani – per non parlare degli ambienti clericali schierati dietro l’a-politicismo del marja‘ Kho’i. Inoltre, dopo la morte di Khomeini nel 1989, la fiamma della rivoluzione si affievolì.

La caduta del regime baathista in Iraq, nell’aprile del 2003, e l’arrivo al potere degli sciiti nel contesto dell’invasione da parte degli Stati Uniti ha cambiato le cose. L’Iran ha acquisito potere nella regione, particolarmente nel Golfo persico, e l’Hezbollah libanese ha riportato nel 2006 una netta vittoria politica e militare contro Israele, ciò che ha accresciuto il suo prestigio nel mondo musulmano. Gli sciiti si sono affermati dal Mediterraneo al Pakistan. I leader dello sciismo politico, Nasrallah e Ahmadinejad, hanno guadagnato popolarità imponendosi come gli araldi dei mondi musulmani nei confronti di Israele e degli Stati Uniti, in un clima che sapeva di ritorno all’utopia rivoluzionaria cara agli anni ’70. In alcune manifestazioni si sono visti i ritratti di Nasrallah a fianco di quelli di Che Guevara o di Hugo Chavez.

Nel dicembre del 2004, in un’intervista rilasciata al Washington Post, il re Abdallah di Giordania lamentava l’esistenza di una «mezzaluna sciita»: più che fondata su una realtà tangibile, l’espressione manifestava il timore di veder emergere una sorta di «sciiti-stan», un’entità che si svilupperebbe dal Mediterraneo al Gange e attraverserebbe zone economicamente e politicamente strategiche, fedele in tutto e per tutto all’Iran. Anche il presidente egiziano Hosni Mubarak era turbato dalla crescente influenza degli sciiti, sempre sospettati di essere una quinta colonna iraniana. Nello stesso periodo il Marocco interrompeva le sue relazioni diplomatiche con l’Iran, accusato di diffondere lo sciismo in Marocco. In Giordania, sei sciiti furono giudicati davanti a una corte militare per aver promosso l’ideologia sciita. In Afghanistan, alcune opere sciite venivano buttate nei fiumi. In Arabia Saudita e in Bahrein alcuni sciiti furono arrestati mentre in Libano, nel maggio del 2008, si sono verificati scontri tra sciiti e sunniti. Infine e soprattutto, le violenze interconfessionali sono proseguite in Iraq e in Pakistan.

Nel frattempo si sono susseguiti i richiami contro il “ritorno della fitna, che avrebbe fatto il gioco dei nemici dell’Islam, e si sono moltiplicate le iniziative per tentare di calmare le acque e controllare la situazione. Nel 2004, il Messaggio di Amman ha rappresentato un passo verso la tolleranza, poiché ha riaffermato la validità delle otto scuole giuridiche (dei sunniti, degli sciiti e degli ibaditi) e ha proibito il takfȋr (l’accusa di empietà).

La questione è, in primo luogo, politica. Le tensioni sono legate alla presa di potere dell’Iran e alla sua presunta centralità rispetto ai mondi sciiti, fenomeni che tengono in allarme i regimi sunniti, a cominciare dall’Arabia Saudita, suo grande rivale nella regione. L’aspetto religioso è strumentalizzato. Occorre quindi decostruire i discorsi e analizzare ogni situazione, situandola nel suo contesto storico e sociale locale, e separare il politico dal religioso, o meglio, analizzare come i due si articolano. Gli sciiti dal 2003 hanno riportato numerose vittorie politiche e oggi hanno un peso maggiore sullo scacchiere regionale. Inoltre, anche se il fenomeno delle conversioni resta minimo, lo sciismo conosce un certo successo, in parte dovuto agli sforzi iraniani per diffondere una cultura religiosa sciita insieme razionalizzata e aperta alla spiritualità. Essa è in concorrenza con la visione salafita dell’Islam, che a sua volta ha guadagnato terreno.

Dall’inizio del 2011 il mondo arabo è traversato da sconvolgimenti senza precedenti, i quali traggono origine dalle popolazioni. Il loro motore non è dunque l’Islam, brandito come ideologia e “soluzione”. Le rivendicazioni oltrepassano ampiamente le divisioni confessionali, anche se potrebbero farle riemergere, come nel caso del Bahrein o dell’Arabia Saudita. Tuttavia è chiaro che in questi due paesi le rivendicazioni degli sciiti (siano essi maggioranza o minoranza), se reiterano tentativi di riconoscimento dei diritti delle comunità locali, fanno comunque eco alle parole d’ordine comuni a tutti questi movimenti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Sabrina Mervin, Sunniti e sciiti: divergenze dottrinali e tensioni politiche, «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 26-30..

 

Riferimento al formato digitale:

Sabrina Mervin, Sunniti e sciiti: divergenze dottrinali e tensioni politiche, «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/sunniti-e-sciiti-divergenze-dottrinali-e-tensioni-politiche.

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