Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:24:53

L’immagine che raffigura i risultati del voto all’Assemblea Generale dell’Onu ha fatto il giro del mondo. E mostra, tra le altre cose, il modo in cui i Paesi del Medio Oriente si sono mossi, anche se per capire le loro posizioni occorre andare oltre ai semplici voti.

 

La reazione dei Paesi mediorientali può essere suddivisa in tre macro-gruppi: quello pro-Russia, che senza troppe sorprese include Iran e Siria (unico Paese mediorientale a votare a favore di Mosca all’Assemblea Generale dell’Onu); quello che si oppone all’invasione, che è composto da Libano e Kuwait (due Paesi la cui storia recente è segnata dalle aggressioni straniere); e quello degli attendisti, tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto. È quest’ultima posizione, ha scritto Randa Slim sul sito del Middle East Institute, ad aver dato forma alla dichiarazione della Lega Araba del 28 febbraio, che evita accuratamente di menzionare l’aggressore e si riferisce all’invasione con l’accortezza di chiamarla «crisi», onde evitare di irritare la Russia.

 

La tendenza generale nel Golfo sembra essere quella dell’equilibrismo e dell’attendismo. I forti legami con Washington impediscono a questi Paesi di essere troppo espliciti nel sostegno a Vladimir Putin, ma non li abilitano nemmeno a una condanna decisa, nel timore di perdere un partner che recentemente si è fatto più importante. La posizione dei Paesi del Golfo, inoltre, riflette la loro natura di produttori di petrolio e gas. Alla vigilia del voto al Consiglio di Sicurezza il segretario di Stato americano Antony Blinken ha reiterato la sua richiesta agli Emirati Arabi Uniti di «costruire una risposta internazionale forte in supporto degli ucraini». Tuttavia, Abu Dhabi si è astenuta, al pari di Cina e India. Come si legge sul Financial Times, la decisione «sottolinea come [Emirati e Arabia Saudita] stiano perseguendo una politica estera più indipendente, mentre rafforzano le relazioni con gli avversari di Washington a Mosca e Pechino». «Non abbiamo più bisogno di un semaforo verde dall’America o qualsiasi altra capitale europea per decidere in merito al nostro interesse nazionale», ha affermato Abdulkhaleq Abdulla, professore di scienze politiche di Dubai. Interesse che in questa fase non contempla un aumento della produzione di idrocarburi, come invece richiesto da Washington per cercare di stemperare le tensioni sul prezzo del greggio. Al contrario i Paesi produttori del Golfo (Emirati Arabi e Arabia Saudita in testa) ritengono fondamentale il coordinamento in seno all’OPEC+ (dunque con la Russia) per favorire la ripresa economica dei Paesi produttori.

 

Non si tratta di una posizione semplice da mantenere: le pressioni americane e occidentali in generale sono forti (e aumenteranno). Di segno opposto invece la situazione interna, dove questo atteggiamento non pare creare problemi all’opinione pubblica, che non si è mobilitata in favore del popolo ucraino. La difficoltà in cui si trovano in primis gli Emirati Arabi è testimoniata dal voto in Assemblea Generale. In questa occasione Abu Dhabi ha manifestato un cambio di posizione, schierandosi a favore della risoluzione di condanna dell’invasione russa. Ciò indica – sostiene l’analista Cinzia Bianco alla CNN – «che gli Emirati devono ancora capire come muoversi in un mondo multipolare». I legami con gli Stati Uniti restano enormi, ma Karen Young (senior fellow al Middle East Institute) ha sottolineato che c’è un’affinità tra Putin ai governi del Golfo: «la frustrazione nei confronti degli Stati Uniti è che quando cambia l’amministrazione, cambiano le politiche, cosa che non avviene in Russia». Perché l’amministrazione non cambia, ci sentiamo di aggiungere. Ma come accennato, non è semplice mantenere questa posizione e lo sarà sempre meno man mano che la guerra in Ucraina andrà avanti.

 

La settimana scorsa abbiamo parlato diffusamente della Turchia. Come si è mossa Ankara nel frattempo?  Contrariamente a quanto ci aspettavamo (ed eravamo in buona compagnia), il Paese anatolico ha invocato la convenzione di Montreaux del 1936 per chiudere gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli alle navi dei Paesi belligeranti. In realtà, tuttavia, quella che potrebbe apparire una netta presa di posizione nei confronti della Russia potrebbe essere una valutazione più sfumata: Ankara, infatti, si attiene alla lettera della convenzione e lascia intatto il diritto delle navi di stanza nel Mar Nero di far ritorno alle loro basi. Questo, considerato insieme al fatto che le navi necessarie all’invasione dal Mar Nero sono in posizione da tempo, rende la decisione del presidente Erdogan sostanzialmente priva di reali effetti. E mostra in questo modo che «a meno che Mosca non provochi direttamente Ankara in qualche modo, le misure che la Turchia prenderà contro la Russia rimarranno probabilmente largamente simboliche». La chiusura degli stretti non è infatti stata finora accompagnata dall’adesione alle sanzioni occidentali contro il Paese di Putin, e nemmeno dalla chiusura dello spazio aereo ai velivoli russi o dei suoi oligarchi.  Una decisione in parte motivata dai forti legami economici tra i due Paesi, di cui avevamo già parlato nel precedente Focus attualità.

 

Uno dei Paesi che si è astenuto all’Assemblea Generale dell’Onu è il Pakistan. Un fatto che non sorprende, vediamo perché. Anzitutto, mentre l’invasione prendeva forma, il primo ministro pakistano Imran Khan incontrava Putin in Russia e di certo l’ex campione di cricket non si è recato a Mosca per tentare una mediazione. Ben più prosaicamente, come dichiarato dallo stesso Khan, l’obiettivo della visita era finalizzare l’acquisto di due milioni di tonnellate di grano e firmare accordi per l’importazione in Pakistan del gas naturale russo. La visita si situa nell’ambito delle relazioni complesse tra Stati Uniti e Pakistan, evidenziate dalle dichiarazioni di Khan secondo cui Islamabad non avrebbe dovuto aiutare gli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan. Il recente incontro tra Putin e Khan è il culmine di un riavvicinamento segnalato già a gennaio, quando il primo ministro pakistano ringraziò Putin per aver affermato che la mancanza di rispetto nei confronti del profeta Muhammad non poteva essere giustificata semplicemente con la libertà di espressione. Putin, ha detto Khan, «è il primo leader occidentale [corsivo nostro] a dimostrare empatia e sensibilità verso i sentimenti musulmani per il loro amato profeta». 

 

L’Azerbaijan, come il Marocco, è invece uno di quei Paesi che erano assenti al momento della votazione. Ma come ha scritto al-Monitor, poco prima del viaggio di Khan a Mosca era stato il turno del presidente azero, che aveva firmato una dichiarazione di cooperazione militare tra Baku e Mosca: Yerevan non dunque è più l’unica alleato della Russia nel Caucaso del sud. Un aspetto di non secondaria importanza alla luce dell’alleanza tra Azerbaijan e Turchia.

 

Oltre all’Iran, allineato alla Russia in funzione anti-occidentale (Khamenei ha sottolineato quanto l’invasione russa sia in realtà una risposta alle politiche americane), anche i ribelli yemeniti houthi hanno riconosciuto le repubbliche di Donetsk e Lugansk.

 

E Israele? Il Paese guidato da Naftali Bennett ha votato a favore della risoluzione dell’Assemblea Generale che condannava l’invasione della Russia, ma al tempo stesso il primo ministro si è detto disponibile a lavorare per la risoluzione del conflitto. Tuttavia, a causa della presenza russa in Siria, Bennett ha evitato di criticare apertamente la Russia e lo Stato israeliano ha rifiutato la richiesta avanzata dall’organizzazione “Amici israeliani dell’Ucraina” di fornire a Kiev il sistema di difesa missilistica Iron Dome.

 

Ma quali possono essere le conseguenze della guerra in Ucraina sul Medio Oriente? Secondo un briefing pubblicato da TSC, l’aggressione a Kiev ha trasformato la Russia in un pariah, ciò che «probabilmente rovescerà i progressi che [Mosca] ha avuto negli ultimi anni nell’aumentare la sua influenza sulla regione mediorientale». Inoltre, l’eventuale prolungamento del conflitto porterebbe verosimilmente la Russia a ridurre il suo impegno in Siria, spostando in questo modo la maggior parte del sostegno ad Assad sulle spalle iraniane.

 

I profughi vengono accolti. Tutti?

 

Secondo i dati diffusi dei media, in poco più di una settimana di guerra sono oltre 1 milione i profughi che sono fuggiti dall’Ucraina. Per la gran parte, sono stati accolti nei Paesi confinanti con un grande impeto di solidarietà. Ma cosa è successo quando persone africane, mediorientali o indiane che si trovavano in Ucraina si sono unite alle file di profughi che scappavano dalla guerra? Non sempre l’accoglienza è stata solidale. Al contrario, come ha scritto (tra gli altri) il Guardian, si sono verificati episodi di violenza e di discriminazione nei loro confronti. Si potrebbe pensare che si tratti di episodi isolati, ma non è così. E lo dimostrano numerose affermazioni – riassunte da H. A. Hellyer sul Washington Post – fatte su media di diversi Paesi. Nel dare ragione dell’empatia provata nei confronti dei profughi ucraini, un commentatore francese ha detto: «non stiamo parlando di siriani che scappano dalle bombe del regime siriano sostenuto da Putin; parliamo di europei che partono per salvare la propria vita su macchine che sono come le nostre». O un altro sulla BBC: «è molto commovente per me perché vedo persone europee con gli occhi azzurri e i capelli biondi essere uccise ogni giorno». Se da un lato è probabilmente naturale provare una maggiore empatia nei confronti di coloro che, per storia e geografia, percepiamo come più simili a noi, dall’altro i doppi standard sono qualcosa a cui non vorremmo abituarci. Soprattutto quando sottintendono una diversa considerazione del valore della vita di ciascuno.

 

Libia: si torna a due governi

 

Quando l’Europa, e l’Italia in particolare, cercano di trovare fonti alternative alla Russia per l’approvvigionamento di idrocarburi, viene naturale guardare alla Libia. Ma gli aggiornamenti che arrivano dalle ultime settimane fanno capire che noi rischiamo di restare delusi, mentre i libici probabilmente non troveranno ancora pace.

 

All’inizio di questa settimana, infatti, il parlamento di Tobruk, attraverso un voto le cui modalità sono state contestate, ha confermato la fiducia al governo di Fathi Bashagha. Tuttavia, il premier insediato a Tripoli con il sostegno dell’Onu, Abdul Hamid Dbeibah, ha confermato la sua intenzione di non abbandonare il potere. Sebbene non sia chiaro se la situazione porterà a un nuovo confronto armato tra le diverse fazioni, è evidente che si è oramai tornati alla situazione in cui in Libia ci sono contemporaneamente due governi rivali. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che Bashagha gode del sostegno anche di alcune parti della Tripolitania. I motivi di preoccupazione non finiscono qui: mentre da Misurata si spostavano verso Tobruk per il giuramento ufficiale, il ministro degli Esteri, Hafed Gaddour (con un lungo passato in Italia, da studente prima e da ambasciatore poi), quella della Cultura, Salha Al Druqi, e dell’Istruzione, Faraj Khaleil, sono stati rapiti e successivamente liberati dalle milizie misuratine che sostengono Dbeibah. Quest’ultimo, si legge su Agenzia Nova, ha immediatamente minacciato Bashagha di azioni militari, e l’analista Jalel Harchaoui, interrogato da Reuters, ha dichiarato che molto di ciò che succederà adesso sarà deciso dall’uso della forza.

 

Nel frattempo, tornando agli idrocarburi con cui abbiamo aperto il paragrafo, ieri la National Oil Corporation ha interrotto l’esportazione di petrolio dai terminali di Brega, Zueitina, Ras Lanuf, Sidra, Zawiyah e Mellitah citando come motivazione il «maltempo». Ma ieri, in Libia, splendeva il sole.

 

Il dilemma del mondo arabo. La voce dei siriani

Rassegna della stampa araba a cura di Michele Brignone e Chiara Pellegrino

 

Benché continuino a insistere sul carattere regionale del conflitto in Ucraina, gli Stati arabi sanno che le sue ramificazioni si estendono ben al di là dei confini europei. Questo li pone nella difficile posizione di doversi destreggiare tra Stati Uniti e Russia. Molti articoli della stampa araba riflettono questo dilemma. Su Al-Quds al-‘Arabī, lo scrittore e giornalista palestinese Suhayl Kiwan scrive che lo scontro non è «tra la dittatura e la democrazia»; è invece una «guerra per il perseguimento di interessi, influenza ed espansione, una guerra tra grandi e potenti di cui fanno le spese i piccoli e i deboli». Per questo invita gli arabi a non schierarsi, dal momento che anche loro hanno i propri interessi e non devono cadere nella logica del “o con noi o contro di noi”.  Benché con toni meno militanti, anche lo scrittore saudita Tawfik al-Sayf chiede agli arabi di spendersi per la pace e non per una delle parti.

 

Sul sito del quotidiano emiratino Al-‘Ayn, ‘Ali al-Sarraf ha descritto la posizione di Abu Dhabi rifacendosi all’esperienza dei Paesi non-allineati durante la guerra fredda, i quali con la loro «neutralità attiva» di volta in volta potevano propendere per uno dei due blocchi a seconda dei vantaggi che avrebbero potuto ricavarne.

 

Una visione diversa è offerta da intellettuali e giornalisti che, in modo diretto o indiretto, sono stati coinvolti nel conflitto in Siria. Il dissidente siriano Yassin al-Hajj Saleh critica su Al-Quds al-‘Arabī quella parte della sinistra europea che imputa l’escalation della Russia alle azioni di Joe Biden e Boris Johson. Se è vero, scrive l’intellettuale, «che Biden e Johnson fanno i propri interessi, sia a livello nazionale che personale, attribuire il problema scoppiato in Ucraina alle loro ambizioni, e non alla politica nazionalista, espansionistica e anti-democratica di Putin in Russia e nel mondo […] è un’aberrazione». Secondo al-Hajj Saleh, tale aberrazione è un difetto genetico della sinistra, come dimostra l’iniziale esitazione dei comunisti di fronte al nazismo, che il Comintern considerava una semplice variante dei sistemi politici borghesi. In tempi più recenti la sinistra avrebbe ripetuto l’errore in Libano e in Siria, schierandosi rispettivamente con Hezbollah e con Assad contro le malversazioni di Hariri e i problemi dell’Esercito Siriano Libero. Oggi, continua l’autore, «di fronte alla crisi ucraina la sensibilità della sinistra tradizionale europea sembra il prolungamento della sensibilità comunista davanti all’arrivo al potere dei nazisti: resistenza al manipolatore conosciuto e scarsa attenzione verso il tiranno nazionalista fanatico».

 

Gli fa eco sul giornale digitale indipendente al-Jumhuriyya, di cui è cofondatore lo stesso al-Hajj Saleh, il giornalista ispano-siriano Yassin Swehat, il quale afferma che «in questi giorni gli ambienti dell’opposizione siriana al regime di Assad vibrano per il sentimento che quanto succede in Ucraina li riguarda. Nelle ultime settimane, scrive Swehat, «è diventato normale leggere pagine e pagine di analisi e valutazioni che osano esplorare la strategia russa senza ricordare una sola volta l’intervento russo in Siria […], senza il quale non è possibile capire l’attuale guerra russa in Ucraina». E se ci sono valide ragioni per criticare l’Occidente e la leadership ucraina, queste non possono oscurare «il diritto degli ucraini all’autodifesa di fronte all’aggressione di un nemico come la Russia di Putin». Swehat non si limita a solidarizzare con gli ucraini, ma si identifica con loro. Come molti siriani conosce infatti i carri armati e gli aerei che ora li colpiscono, mentre «il padre che con le lacrime agli occhi e portando in braccio la figlia terrorizzata va alla ricerca di un rifugio» gli ricorda «il padre che nelle strade dell’Aleppo assediata corre sotto i bombardamenti di Assad e dei russi».

 

Sul fronte opposto si colloca il giornale libanese filo-Hezbollah Al-Akhbār, per il quale la guerra di Putin non solo è comprensibile, ma anche «giusta».

 

A queste riflessioni e prese di posizione si aggiungono le analisi sulle ripercussioni immediate della guerra in Ucraina, soprattutto in tema di sicurezza alimentare dei Paesi arabi. «La guerra colpisce il pane degli arabi», titola per esempio al-Jazeera. La Russia è infatti il più grande esportatore di grano al mondo (esporta il 18,4% del grano mondiale), seguita al quinto posto dall’Ucraina, che ne esporta il 7 %. Ciò significa che insieme i due Paesi esportano il 25% del grano mondiale. A sua volta, l’Egitto è il più grande importatore mondiale di grano (assorbe il 10,6% dell’export globale, per un valore di oltre 4 miliardi di dollari). A seguire l’Algeria (con il 3,3% dell’export globale), il Marocco (2,05%), e lo Yemen (2,3%), l’Arabia Saudita (1,6%) e il Sudan (1%). Nella fattispecie l’Egitto importa il 54,5% del suo fabbisogno di grano dalla Russia e il 14,7% dall’Ucraina.

 

La situazione è particolarmente preoccupante in Yemen. Qui, come sottolinea Al-‘Arabī al-Jadīd, i prezzi dei generi alimentari sono più che raddoppiati nell’ultimo anno, con il risultato che più della metà della popolazione deve ricorrere agli aiuti alimentari. Lo Yemen importa dall’Ucraina il 16,5% circa delle importazioni totali annue di grano, e dalla Russia circa il 17,5%. A differenza dell’Egitto, però, lo Yemen ha scorte sufficienti di grano solo per 3/4 mesi e sta valutando di importarlo dalla Romania, i cui prezzi sono vicini a quelli russi e ucraini.

 

 

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