Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:39

C’è un dato che si cita oggi in Tunisia in più di una situazione, una specie di bandiera: 33.000. È il numero esorbitante degli scioperi e manifestazioni che si sono tenuti in tutto il Paese negli ultimi due anni. Il fatto poi che venga letto da qualcuno come prova della grande libertà acquisita dalla società, e da altri come espressione del caos imperante, dice molto dell’inquietudine che attraversa questo Paese. Tanta è l’agitazione della società e della politica che quasi l’anniversario dell’auto immolazione del giovane Mohamad Bouazizi del 17 dicembre 2010 sembra caduto in una sorta di oblio. Ne parla qualche giornale che si chiede dove sia finita la scintilla di Sidi Bouzid, ma grandi manifestazioni nel giorno dell’anniversario sono state evitate. Non a caso. Quel gesto che infiammò il popolo al punto da innescare il rovesciamento del regime al governo, oggi ricordato solo da qualche striscione che pende desolato su Avenue Bourghiba, resta tuttavia come un conto aperto. Tra i sentimenti più diffusi che si percepiscono nell’aria della capitale c’è quello dell’amarezza per una rivoluzione “confiscata”: confiscata dai partiti che non l’hanno guidata e che si sono imposti poi sulla scena fino ad assumersi il ruolo di attori unici. Ma ancora inarginabile. Mentre il tasso di disoccupazione oscilla tra il 16 e il 18%. Un breve passo indietro: dopo le elezioni del 23 ottobre 2011, viene avviato il lavoro della Costituente chiamata a scrivere una costituzione e traghettare il Paese alle elezioni nel giro di un anno. Ma i tempi si allungano indefinitamente, al punto che qualcuno parla di un “regime del 23 ottobre”. Nel frattempo si succedono due governi della Troïka (An Nahda, Ettakol, Congrès pour la Republique): a quello guidato da Jebali, dopo l’assassinio di Chokri Belaid del 6 febbraio 2012, succede quello di Laârayedh (già ministro degli interni di Jebali). Ma anche il cammino di questo governo si trova di fronte a una battuta d’arresto drammatica: il 25 luglio viene assassinato un altro esponente delle opposizioni, Mohamed Brahmi, fatto che scatena di nuovo tutto il Paese contro chi ha governato fino ad allora. Si apre una nuova fase turbolenta, con manifestazioni oceaniche e pressioni della società civile che chiede ad An-Nahda di andarsene. Cominciano una serie di trattative logoranti. Il partito che alle elezioni ha ottenuto la maggioranza relativa si trova a dover decidere se lasciare il potere o tentare di mantenerlo contro tutti, in entrambi i casi una sconfitta. Lo scorso 14 dicembre una nuova svolta: viene infine nominato il nuovo Primo Ministro, Mehdi Jomâa, un indipendente, già ministro dell’industria, un islamista “dolce” per alcuni, che dovrà subito attivarsi per rispondere alla “Feuille de route” imposta dal quartetto (composto dal sindacato UGTT, dall’organizzazione degli industriali, commercianti e artigiani UTICA, dalla Lega dei diritti dell’uomo e dall’ordine degli avvocati) che ha curato la mediazione tra la Troïka da una parte e il Front de Salut National dall’altra, nella fase critica apertasi dopo l’assassinio Brahmi: dovrà formare un governo indipendente e di tecnici competenti in una settimana, ottenere l’avvallo dell’Assemblea Costituente, poi portare a compimento il processo costituente, costituire l’Instance indépendante des élections, fare la legge elettorale, e fissare la data delle prossime elezioni. Tra l’altro gli è anche stato chiesto di azzerare le nomine “partigiane” compiute dalla Troïka a livello dell’amministrazione centrale per liberare posti occupati indebitamente. Il Front de Salut National si è astenuto dal voto, ma aspetta di vederlo all’opera. Il governo nascente è avvisato: il programma è ambizioso, ma i tunisini ci credono ancora. Credono ancora nella possibilità di riuscita del loro Paese. Non è il meglio, si dice, ma è un buon passo. Almeno il Paese è uscito dalla stagnazione. E il dialogo nazionale sta producendo qualcosa. Nonostante le ipoteche: Laârayedh ad oggi ha solo espresso l’intenzione di dimettersi, perché se anche uno solo dei processi che si devono concludere nelle prossime quattro settimane (composizione del nuovo governo provvisorio, conclusione dei lavori della Costituente, definizione della data delle elezioni) si arresta, An Nahda ferma tutto. «Noi siamo in transizione, ma non ancora una transizione democratica – sostiene il prof. Habib Kazdaghli, preside della Facoltà di Lettere, Arti e Scienze dell’Università Manouba. Le elezioni hanno aperto una stagione di inquietudine e le forze al potere non sono rassicuranti in questo senso. Abbiamo eletto un’assemblea per fare una costituzione, che ancora non c’è. La Troïka non ha rispettato l’accordo. Per fortuna la società civile ha reagito ancora una volta. Nascono nuovi soggetti politici che stanno riequilibrando le forze in campo: Nida Tunis per esempio, nata nel 2012, sta costringendo a nuove mosse chi è al potere perché aggrega le opposizioni troppo frammentate, tenendo insieme esponenti della sinistra e dusturiani». Quella che era protesta sociale è divenuta contestazione politica, per il preside: «Per andare a votare ho fatto una coda di cinque ore con mia moglie nel 2011. Vorrà dire pur qualcosa se il 50% allora non andò a votare. I giovani che hanno contestato non hanno votato. Non si riconoscono in nessun partito. E ad oggi non abbiamo ancora una costituzione perché ognuno ha una sua idea personale e non incontra quella altrui». Per Kazdaghli, che da cinque mesi è sempre accompagnato da una guardia del corpo a causa delle minacce ricevute da gruppi di estremisti islamici che lo hanno inserito nella lista nera degli infedeli da eliminare, il punto è che ormai è giunto il momento della verità per la Tunisia: «lo Stato è debole e il punto centrale è garantire il rispetto della legge, non dell’Islam». Le priorità assolute per la Tunisia sono due per Taïeb Zahar, direttore del periodico Realité: garantire la sicurezza e rassicurare gli investitori, quindi riavviare subito l’economia. Su questo si deve impegnare la classe politica, benché questa sia molto al di sotto delle attese dei cittadini. Zahar si augura che Jomâa riesca a mettere insieme una squadra di figure competenti, fossero anche ex-uomini di Ben Ali, basta che siano capaci di far uscire il Paese dalla crisi in cui è finito. In questa situazione di “fragilità del potere” può accadere di tutto: «Il rischio reale che corriamo – sostiene il direttore – è quello di una seconda rivolta, molto più devastante di quella del 2011, anarchica, che parta dalle periferie che si sono sentite emarginate e tradite da quanti hanno contribuito a portare al potere». Non si può governare pensando solo a Tunisi, al di fuori della capitale vi sono 9 milioni di persone che chiedono lavoro e cibo. Sono tre i fattori che possono spingere verso questa seconda ondata travolgente: la radicalizzazione dell’opposizione che chiede le riforme ma anche la caduta del regime attuale, la divisione interna alle élites al potere e il ruolo dell’esercito. Non è certo come quello egiziano, ma comunque ha le armi e fino ad oggi è rimasto in silenzio. «Se la Tunisia riesce nell’impresa – conclude Zahar – allora anche gli altri Paesi arabi possono sperare di riuscire a darsi una vera democrazia. Per questo abbiamo molti nemici che giocano contro. Pressioni straniere, non occidentali, che premono contro la nostra riuscita». I confini della Tunisia sono particolarmente porosi. Attraverso i 1600 km di confine con la Libia entrano quantità di armi anche molto sofisticate che finiscono nelle mani di cellule dormienti di jihadisti, che non si sa come o quando potranno decidere di attaccare. Intanto si addestrano nella aree collinari attorno alla capitale. Questo è un grave problema per An Nahda, che per Fayçel Naceur, membro del comitato politico del partito, in carcere da quando aveva 19 anni e per 10 anni, ha scelto «responsabilmente di lasciare il governo dimostrando di tenere al processo democratico più che ad occupare spazi di potere. Non è vero che il partito ha perso legittimità politica, così come è solo una montatura delle opposizioni la serie di accuse rivolte ad An Nahda di voler instaurare uno Stato islamico: l’unico obiettivo reale è quello di contribuire alla costruzione democratica, per quanto lenta e faticosa». Per l’esponente di An Nahda non si può non riconoscere quanto ha contribuito alla riconciliazione nazionale un primo ministro come Laârayedh che, dopo sedici anni di carcere, in cui fu torturato per sei mesi consecutivi, divenuto ministro degli interni, ha stretto la mano a quei funzionari che l’avevano torturato, dimenticando tutto e perdonando. «Questa è l’unica intenzione di chi oggi lascia il governo: lavorare per il popolo. Al contrario di chi oggi si ripresenta sulla scena, come Essebsi, che con i suoi 84 anni rappresenta il vecchio: Nida Tunis è solo una coalizione temporanea contro di noi, che unisce gauchisti con mafiosi dell’era Bourghiba e Ben Ali e che vuole ricostruire quell’epoca». E del resto questo impegno democratico l’avrebbe dimostrato anche con il pugno di ferro nei confronti dei salafiti: scendevano in piazza sempre più rumorosi e tracotanti, ogni venerdì manifestavano, fino a pochi mesi fa. Finché la Troïka sarebbe riuscita a controllarli e a ridurli al silenzio. Infatti oggi a Tunisi non si vedono in pubblico. Sembrano scomparsi. Ma per Hamadi Radissi, professore di scienze politiche all’Università di Tunisi, dopo l’assassinio di Brahmi hanno dovuto sparire dalla circolazione a causa della reazione popolare, che non li sopportava più. Per Redissi i salafiti oggi si sono divisi in due: da una parte sono andati sulle montagne, ad addestrarsi come guerriglieri; dall’altra si sono ritirati nelle moschee. E prevede che ora torneranno allo scoperto, a dimostrare che solo con un partito islamico “moderato” al governo, la situazione può restare sotto controllo. Per il professore An Nahda ha perso l’aura di vittima grazie alla quale aveva ottenuto il favore del popolo alle elezioni e ha mostrato il suo vero disegno. L’estrema fluidità dell’attuale panorama politico tunisino è ben rappresentata da una figura emergente nel dibattito pubblico, quella di Manar Skandarani: imprenditore di successo in Europa nel commercio del kebab negli anni ‘80 e ‘90, vanta la conoscenza di cento Paesi e 9 lingue diverse; incarcerato negli Stati Uniti, in Brasile e in Germania con l’accusa di terrorismo tra il 2005 e il 2006 («per l’Occidente un musulmano che ha successo economico non può che essere un terrorista»), Skandarani è rientrato in Tunisia nel 2012 come consigliere del Ministro degli Esteri, incarico che ha svolto per otto mesi. Poi, per disaccordi con la linea politica, è uscito da An Nahda per fondare un nuovo partito di centro che «svolga il ruolo di ponte tra il vecchio e il nuovo». Non ha ancora deciso il nome preciso, ma sarà conservatore e liberale. Skandarani è convinto della necessità di creare un dialogo tra i soggetti politici in campo che fino ad oggi non hanno saputo confrontarsi realmente. Punta sull’idea di “riconciliazione”. La Tunisia ha molte carte da giocare, con l’aiuto dell’Europa può diventare come Dubai o Singapore, secondo l’imprenditore. Deve solo sviluppare le sue potenzialità, che risiedono soprattutto nel fatto di poter contare su una popolazione giovane ben formata e colta. Nonostante si contino oltre 130 partiti nel Paese, per Skandarani c’è bisogno di una nuova formazione, piccola ma decisiva per l’equilibrio globale in questa che è solo una primissima fase di transizione, che durerà almeno vent’anni. Nida Tunis per lui, infatti, non è un vero partito, ma solo un club legato a una personalità forte. Il giorno in cui Essebsi, il fondatore, venisse a mancare, tutto il suo progetto politico franerebbe, perché raduna persone che hanno in comune solo il fatto di essere contro An Nahda, prive di un vero progetto politico. Ma Nida Tunis respinge ogni tentativo di delegittimazione: «Non siamo un incidente di percorso. Siamo un insieme di forze vitali del Paese, lavoratori, imprenditori, sindacalisti – spiega Mongi Sahrawi, sindacalista di lungo corso dell’UGTT, incarcerato al tempo di Bourghiba e di Ben Ali almeno tre volte per il suo impegno nella difesa dell’autonomia del sindacato, e oggi membro del comitato politico di Nida Tunis. «Il nostro è un partito neo-dusturiano. Come il primo Dustur ha contribuito alla nascita della Tunisia moderna, così oggi vogliamo avviare la nuova Tunisia post-rivoluzionaria. È An Nahda l’incidente di percorso, arrivata ad avere la maggioranza dei seggi grazie a una legge elettorale inadeguata. È vero che non abbiamo un’ideologia di riferimento, ma noi rappresentiamo l’anima della Tunisia, che non ha nulla a che vedere con l’islam politico». Parte del Front de Salut National, Nida Tunes si è astenuta al momento dell’elezione del nuovo Primo Ministro, ma crede che il governo provvisorio ce la farà a portare alle elezioni entro il 2014. Perché adesso non c’è più il tentativo di An Nahda di temporeggiare per prolungare il suo potere indefinitamente. 33.000 manifestazioni, 130 partiti politici più uno. Tre anni dopo quel 17 dicembre 2010, la Tunisia resta inafferrabile e affamata. Ma non si arrende. © RIPRODUZIONE RISERVATA