Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:44

Quando mancano pochi giorni alle prossime elezioni generali in Turchia, il clima è sempre più rovente non solo per i toni accesi, ma anche per gli scandali che stanno investendo la campagna elettorale e hanno indotto alle dimissioni alcuni noti esponenti politici dell’opposizione. In un momento in cui i mezzi di comunicazione diventano un tribunale virtuale di moralità, non sembra un caso l’improvvisa apparizione su internet di un sexy video tape, i cui principali protagonisti sono i membri del MHP, partito della destra nazionalista.

Data la loro condotta immorale in una società guidata da valori conservatori e famigliari, le dimissioni sono state d’obbligo anche se tra le fila dell’opposizione crescono i sospetti che dietro queste manovre ci sia la regia occulta dell’AKP che, al governo dal 2002, è accusato di voler escludere il terzo maggior partito della Turchia dalla corsa elettorale per ereditarne i seggi e ottenere la maggioranza dei due terzi utile per riscrivere la Costituzione. Le principali modifiche previste, così come preannunciato dall’esito favorevole del referendum del 12 settembre scorso, regolando la composizione della Corte Costituzionale e del Consiglio della Magistratura, accrescono i timori di infiltrazioni ideologiche all’interno degli organi preposti a salvaguardare il kemalismo, fomentando i sospetti che il partito al governo stia conducendo la Turchia in una direzione più religiosa e autoritaria.

È significativo, inoltre, sottolineare che negli emendamenti non si sia strategicamente inclusa la modifica della Legge dei Partiti e della Legge Elettorale che, con la sua soglia di sbarramento del 10%, assicura al partito in carica la posizione predominante all’interno del sistema, avviandolo quasi certamente alla nuova vittoria elettorale. Senza dubbio, però, la prospettiva del Partito della Giustizia e dello Sviluppo sta cambiando velocemente: la retorica utilizzata è molto più nazionalista rispetto al passato e l’AKP oggi teme visibilmente di perdere il vantaggio acquisito. Nonostante i fermenti, quello guidato da Erdoğan con le sue origine islamiche è un partito di grande successo nella storia politica della Turchia: negli otto anni di governo ha attirato un grande consenso sociale, che è sfociato nell’immensa vittoria delle elezioni generali del 2007, marcando il successo della leadership. La sua reale forza si deve alla combinazione di moderato riformismo politico e di conservatorismo culturale unito alla rapida internazionalizzazione del neoliberalismo economico e all’orientamento europeo che, delineando la politica come un servizio per tutte le persone, rappresenta l’essenza di questa organizzazione “pigliatutto”.

Non bisogna poi sottovalutare il ruolo del movimento guidato da Fetullah Gülen nel soddisfare le richieste delle classi medie musulmane e nel considerare l’Islam compatibile con il processo di globalizzazione, sfidando quella definizione territoriale ed isolazionista di “turchicità” propria della visione prima ottomana e poi kemalista. In realtà, tali aspetti possono contenere considerevoli minacce per il completo sviluppo della democrazia in Turchia. Tra queste è da annoverare nuovamente la tendenza ad una visione monolitica della volontà nazionale che, basata sull’interpretazione morale del governo, identifica la democrazia con le regole della maggioranza. E’ proprio in questo quadro di estrema polarizzazione sociale che la Turchia ha iniziato a vivere una fase di grande confronto tra le varie istituzioni dello Stato. Dietro le manovre dei casi Ergenekon e Sledgehammer, piani sovversivi organizzati da alcuni ex militari al fine di creare tensione e porre le condizioni per un colpo di Stato, l’AKP sta certamente sfruttando le opportunità offerte dallo scenario per mettere in luce quale sia l’asimmetria delle relazioni tra militari e potere civile. Tuttavia, i continui braccio di ferro con l’establishment, le irregolarità procedurali, i giudizi basati anche solo su sospetti e la violazione della privacy dei cittadini acuiscono la percezione che le operazioni in corso non siano sempre trasparenti e legali. A questo c’è da aggiungere che Erdoğan tende ad esercitare un grande dominio nello spazio pubblico nazionale: le pesanti misure fiscali imposte al gruppo editoriale Doğan Media, colosso dell’informazione turca, e gli arresti di numerosi giornalisti sono prova dell’intimidazione verso la stampa d’opposizione.

Tali dinamiche dimostrano tutta la fragilità della trasformazione in atto e sottolineano che, affinché si attesti un controllo e un governo realmente democratico, è necessario un sistema di checks and balances davvero neutrale. Negli ultimi anni lo zelo democratico connesso al processo di adesione all’Unione Europea ha subito un pericoloso rallentamento e contemporaneamente l’AKP ha rafforzato la sua posizione di potere, ma non ha agito in modo altrettanto efficace per rendere effettive le riforme previste nella sua agenda ed ha perso il supporto delle frange liberal-secolari. Senza dubbio non è attraverso un pragmatismo finalizzato prevalentemente alla vittoria elettorale e all’espansione del controllo politico sulla società che si genera un reale consolidamento democratico.