Le polemiche a distanza tra teologi cristiani e musulmani del Medioevo lasciano intendere quanto fosse profonda la conoscenza reciproca, pur contrassegnata da ostilità

Questo articolo è pubblicato in Oasis 17. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:17

 

Tra Cipro e Damasco. Lo scambio epistolare tra alcuni teologi cristiani e musulmani nel XIII e XIV secolo documenta, malgrado una diffusa ostilità e un intento spesso denigratorio, una profonda conoscenza reciproca. Storia di una controversia tuttora ristampata nell’editoria d’ispirazione salafita.

Nella primavera del 1321[1] venne presentata al dotto damasceno al-Dimashqî[2] una lettera proveniente dai cristiani di Cipro. Percependone immediatamente la natura provocatoria, al-Dimashqî iniziò a stendere una risposta che concluse all’inizio dell’estate dello stesso anno, portando così a compimento una corrispondenza originariamente cominciata forse un secolo prima. Questo complesso episodio dei rapporti islamo-cristiani spicca per la conoscenza reciproca che gli autori rivelano, oltre che per la loro prontezza nel manipolare le informazioni a proprio vantaggio e a dibattere con una ferocia veemente dietro una facciata di decoro.

La storia in realtà non inizia né con l’autore cipriota della lettera cristiana, né con al-Dimashqî nel XIV secolo, bensì con il monaco Paolo di Antiochia, Vescovo melkita di Sidone, circa un secolo prima. Quel poco che si sa di questo personaggio è noto dalla sua corrispondenza e non è neppure possibile stabilire con certezza il periodo in cui egli fu attivo. Potrebbe essere vissuto in un qualsiasi momento tra il secolo XI (attinse infatti alle opere di Elia di Nisibi morto nel 1046) e il secolo XIII, a cui risale la prima copia conosciuta della sua Lettera a un amico musulmano[3]. Poiché si tratta, come vedremo, di uno scritto provocatorio, è improbabile che i suoi argomenti siano rimasti a lungo senza risposta. Sembra infatti che il giurista egiziano al-Qarâfî (m. 1285) vi abbia replicato verso la fine del XIII secolo nelle sue al-Ajwiba al-fâkhira ‘an al-as’ila al-fâjira (Risposte fiere a domande insolenti). Potrebbe dunque non essere del tutto inappropriato collocare il periodo di maggiore attività di Paolo e la composizione di questa lettera agli inizi del XIII secolo[4].

La Lettera a un amico musulmano di Paolo costituisce la base della Lettera da Cipro che fu inviata ad al-Dimashqî suscitando la sua appassionata risposta. L’autore cipriota, un anonimo cristiano, editò in diversi modi il lavoro di Paolo. Perciò per comprendere il suo retroterra e le sue intenzioni è importante sapere qualcosa della lettera originale di Paolo e dei motivi per cui la scrisse.

Paolo chiarisce le circostanze del suo scritto nelle sue prime righe. Racconta di come si trovò in viaggio nell’Impero bizantino, a Costantinopoli e ad Amalfi, nell’Italia meridionale, attraverso il territorio “franco”, e a Roma. In queste regioni poté incontrare i capi delle diverse popolazioni e conferire con i loro esperti domandando la loro opinione su Muhammad. E rispondendo alla richiesta di un amico musulmano di Sidone, spiega ciò che essi hanno detto.

 

 

Improbabili esperti

L’intenzione dichiarata da Paolo è dunque trasmettere a un amico musulmano le opinioni degli esperti cristiani di diverse parti d’Europa su Muhammad. Tale idea non è totalmente impossibile. I nessi tra Costantinopoli, l’Italia, altre parti dell’Europa e il Mediterraneo orientale erano già saldamente consolidati e si sarebbero intensificati con l’inizio delle Crociate alla fine dell’XI secolo. Non era perciò strano che un Vescovo di una sede melkita di una zona governata dai Crociati viaggiasse nei centri più importanti della Chiesa, o che i cristiani europei e bizantini conoscessero sufficientemente l’Islam e il suo profeta da poter esprimere un’opinione informata su di lui. Ma quando scopriamo qualcosa di più su questi cristiani e sulla loro conoscenza dell’Islam, diventa estremamente difficile credere a quanto il Vescovo afferma.

Paolo infatti continua spiegando che questi esperti erano entrati in possesso di un Corano e leggendolo avevano scoperto una serie di ragioni che li avevano dissuasi dall’accettare l’Islam. Il corpo principale della lettera procede mettendo in evidenza una lunga lista di argomenti a favore delle dottrine cristiane che si troverebbero nello stesso Corano e che escluderebbero la necessità di abbandonarle. Si inizia adducendo una prova del fatto che Muhammad e il suo messaggio sono stati inviati esclusivamente per gli arabi e si procede mostrando come il Corano avvalori la fede cristiana in Cristo, negli Apostoli, nei Vangeli, nel monoteismo cristiano e nel culto cristiano. Il Corano riconoscerebbe addirittura la dottrina della Trinità che è comunque basata sulla ragione, l’Incarnazione, le due nature di Cristo e la morte della sua sola natura umana.

L’approccio adottato nella lettera di Paolo risulta qui particolarmente evidente: vengono raccolti versetti del Corano, citazioni bibliche e argomenti razionali per affermare che la Scrittura musulmana non solo non è destinata ai cristiani, ma di fatto approva la loro posizione.

La lettera prosegue difendendo l’uso in senso figurato di un linguaggio su Dio apparentemente antropomorfico e anche la pertinenza filosofica della definizione di Dio come sostanza e la logica dell’Incarnazione come espressione suprema della generosità di Dio verso la sua creazione nella comunicazione che Egli stabilisce con gli uomini facendosi uno di loro. La lettera si chiude con Paolo che candidamente suggerisce come questi argomenti facciano venir meno il conflitto tra le due fedi.

 

Esegesi creativa

Questa lettera relativamente breve offre una vivace difesa del Cristianesimo basata sia sulla ragione che sulla rivelazione. Ed è il ricorso a quest’ultima a destare più sorpresa, perché questi esperti sembrano capaci di scegliere dal Corano arabo versetti e parti di versetti che possono utilizzare a loro piacimento a sostegno delle proprie convinzioni. Per esempio, essi dicono serenamente:

Troviamo nel Libro la glorificazione di Cristo nostro Signore e di Sua madre e, e che Dio li ha resi un segno per i mondi. Le sue parole sono infatti: «E rammenta ancora colei che custodì la sua verginità, sì che Noi alitammo in lei del Nostro spirito e rendemmo lei e suo figlio un Segno per le creature» (Cor. 21,91).

È evidente che essi intendono questo versetto come un’affermazione della divinità di Cristo nonostante non vi sia qui alcuna indicazione esplicita in questo senso e benché ciò sia smentito in molte altre parti del Corano. Così facendo essi cristianizzano efficacemente il versetto. Ma essi si spingono ben oltre la reinterpretazione relativamente limitata dei versetti. Di tanto in tanto apportano modifiche al testo effettivo del Corano in modo da mutarlo in un senso favorevole alla dottrina cristiana, come quando rappresentano un Corano che racconta degli Apostoli di Cristo inviati a predicare il Vangelo:

[Gli apostoli] in questo Libro furono glorificati e esaltati: «Già inviammo i Nostri Messaggeri con prove chiarissime e rivelammo il Libro, perché gli uomini osservassero l’equità» (Cor. 57,25). Qui s’intendono gli Apostoli e i discepoli perché se s’intendessero Abramo, Mosè, Davide e Muhammad, avrebbe detto “rivelammo loro i Libri” e non “il Libro”, ossia il Vangelo.

Tutto ciò sembra convincente finché non vediamo che il versetto che essi citano è stato modificato: «rivelammo il Libro e la Bilancia». Il risultato netto è che il versetto è fatto per confermare l’insegnamento cristiano secondo il quale gli Apostoli furono inviati con un’unica scrittura comune, piuttosto che l’insegnamento musulmano secondo il quale Dio rivelò una scrittura separata a ciascuno dei messaggeri inviato prima di Muhammad. La più eclatante di queste riletture e alterazioni del testo coranico è l’interpretazione delle parole che aprono la sura della Vacca:

In merito al Vangelo, [il Corano] testimonia che esso è, con le sue parole, una guida per i timorati di Dio: «A.-L.-M. – Quello è il Libro scevro di dubbi dato come guida per i timorati di Dio» (Cor. 2,1-2). Ora, Alif, Lam e Mim sta per al-Masîh [il Cristo]. E “quel Libro” è il Vangelo, perché “quello” non può essere “questo”.

L’esegesi è creativa al massimo grado, mostrando chiaramente un’incuranza del Corano nel suo insieme e una sfrontata prontezza nell’isolare i versetti per leggerli in una prospettiva puramente cristiana.

Questo tipo di approccio al Corano suggerisce tuttavia che chiunque fosse il responsabile di tale originale esegesi non solo conosceva a fondo il testo, ma padroneggiava anche molto bene l’arabo. È dunque improbabile che si tratti di imprecisati esperti bizantini o europei, tra i quali nei secoli XII e XIII non è attestata alcuna conoscenza profonda del Corano. Piuttosto si può pensare a un cristiano orientale che parlava e scriveva l’arabo come lingua madre ed era immerso nella cultura musulmana.

È difficile non identificare nello stesso Paolo l’artefice o compilatore di questi argomenti esegetici provocatori, nel qual caso gli esperti che introduce diventano utili portavoce letterari che si possono assumere la responsabilità e la colpa di queste interpretazioni, consentendo a Paolo di preservare un contegno di cortesia e collaborazione proprio mentre nei fatti mina l’Islam

Considerato il carattere sovversivo e la critica implicita di un Islam subordinato al Cristianesimo, non sorprende l’ampia diffusione della lettera di Paolo. Essa fu confutata da molti dotti musulmani, tra i quali al-Qarâfî nel suo Al-ajwiba al-fâkhira ‘an al-as’ila al-fâjira e il grande giurista musulmano Ibn Taymiyya che all’inizio del XIV secolo la conosceva col titolo di Al-kitâb al-mantiqî al-dawla khânî al-mubarhin ‘an al-i‘tiqâd al-sahîh wa al-ra’y al-mustaqîm (Il trattato più eloquente dalla possente autorità che prova la solida fede e il retto giudizio).

In un qualche momento all’inizio del XIV secolo un dotto cristiano di Cipro venne a conoscenza della lettera di Paolo. Ne fece una revisione eliminandone alcuni elementi, modificandone altri e aggiungendo copiose citazioni dalla Bibbia e dal Corano ed è in questa nuova forma che la lettera fu inviata ai due dotti musulmani a Damasco, a Ibn Taymiyya nel 1317 e ad al-Dimashqî quattro anni dopo, nel 1321. In questa sede ci interessa principalmente la risposta di quest’ultimo.

 

Duello a distanza

La Lettera da Cipro inaugurava la seconda fase di questa prolungata corrispondenza e provocava due delle più lunghe confutazioni del Cristianesimo a opera di musulmani conservate fino a oggi. È dunque pertinente domandarsi in particolare in che cosa l’opera si distingua dall’originale di Paolo di Antiochia e quali possano essere state le intenzioni dell’autore. Mi concentrerò esclusivamente sulle divergenze più significative.

In sostanza il redattore cipriota si attiene strettamente allo spirito dell’originale di Paolo, preservandone la struttura, ma spiega anche nel dettaglio che, considerata la diffusione dei libri della Bibbia in 72 lingue, è poco realistico pensare che qualcuno possa essere stato in grado di alterarli. Quando arriva al commento di Paolo sugli ebrei ingiusti, l’autore scarica una seconda raffica di versetti tratti dai profeti dell’Antico Testamento per attestarne la perfidia e l’abbandono da parte di Dio. In questo ampliamento il redattore conserva la struttura di Paolo ma aggiunge molti versetti del Corano e dell’Antico Testamento, oltre ad alcuni dettagli sul fatto che la Bibbia non è stata alterata. Ciò gli permette in seguito di fare ampio uso di testi biblici a cui attribuisce un valore probante, in particolare nel suo ampliamento della sezione 36 di Paolo dove li utilizza per dimostrare la divinità di Cristo e la Trinità e spiegare perché gli ebrei non le accettano pur conoscendole.

Il redattore predilige chiaramente le prove scritturali come modo più ragionevole di presentare e provare la sua posizione. E dopo aver stabilito che il testo biblico non è stato violato, egli può utilizzarlo legittimamente come convincente fonte argomentativa. Il risultato finale è che la Lettera che egli prepara per essere spedita da Cipro poggia gli argomenti a favore del Cristianesimo su solidi fondamenti scritturistici, biblici e coranici, e utilizza le relative scritture nella loro forma originale[5].

 

La polemica sotto l’irenismo

Sembra quindi che l’autore cipriota sperasse di trovare ascolto non solo attraverso la forza intellettuale dei suoi argomenti ma anche attraverso il loro fascino persuasivo. Ma sotto questa superficie irenica si nasconde un’intenzione più profonda, che unisce la Lettera cipriota alla precedente composizione di Paolo nell’attentare alla validità stessa dell’Islam. Fu questo aspetto a spingere i dotti di Damasco alle loro ferventi confutazioni, poiché essi vi scorsero, secondo le parole di al-Dimashqî «una lettera esemplare nella cortesia ma estranea nelle intenzioni e scioccante nell’obiettivo», un documento che essi ricondussero a più ampie aspirazioni e strategie correnti all’epoca in cui fu scritta.

 

Questa intenzione è espressa all’inizio della Lettera, in cui gli esperti ciprioti con i quali l’autore si confronta spiegano come nonostante abbiano sentito parlare di Muhammad e sappiano che egli affermava di essere inviato da Dio, non vedono alcun motivo per dubitare della propria fede e seguirlo. Il loro argomento principale è che il Corano stesso, così come essi lo leggono, dice chiaramente che Muhammad non era un profeta universale ma un profeta inviato con un particolare messaggio in arabo per i pagani in mezzo ai quali egli viveva. A sostegno di quest’affermazione, essi mostrano nel resto della lettera come il Cristianesimo sia confermato dal Corano e dimostrabile sia tramite un fondamento biblico che razionale.

Nonostante l’autore non lo dica direttamente, questa logica implica che Muhammad non fosse null’altro che un predicatore locale, forse inviato col permesso divino, ma destinato esclusivamente a un gruppo pagano particolare per fornirgli i rudimenti monoteisti della vera religione. Inoltre, lo studio corretto del Libro che egli portò a queste popolazioni avrebbe dovuto indirizzarle verso il Cristianesimo e la verità piena che vi si trova. L’Islam è quindi una sorta di praeparatio evangelica, i cristiani non avrebbero dovuto abbandonare la loro fede per seguire ciò che era venuto in seguito, mentre i musulmani avrebbero dovuto essere tanto saggi da mettersi in cammino partendo dalla loro fede per cercare la verità perfetta.

Incentrata su questo intento più profondo, la Lettera può essere considerata uno sforzo audace, anche se conciliante, di affermare il corretto rapporto tra Cristianesimo e Islam e rovesciare le idee abituali che circolavano tra i musulmani del tempo e forse tra qualche cristiano orientale scoraggiato. Molti di questi infatti poterono leggerla come un saggio di teodicea, per il fatto che essa spiega l’origine e lo sviluppo dell’Islam come movimento divinamente ispirato per condurre fuori dalle tenebre un popolo particolare e avvicinarlo alla verità, confermando allo stesso tempo il Cristianesimo come incarnazione di quella verità che è attestata nello stesso Corano. Così, la Lettera esorta i cristiani ad aderire allo propria fede nonostante l’attuale supremazia dell’Islam e i suoi reiterati trionfi.

 

La reazione damascena

In accordo con la sua intenzione esplicita di rispondere dettagliatamente alla Lettera, al-Dimashqî la suddivide in parti diverse, alle quali risponde in 13 sezioni, precedute da una breve introduzione. Così la sua Risposta segue alla lontana la struttura della Lettera da Cipro e in ultima analisi della Lettera a un amico musulmano di Paolo, pur con una vasta gamma di argomenti supplementari e dettagli che fanno del suo lavoro una fonte importante per capire l’atteggiamento musulmano di quell’epoca nei confronti del Cristianesimo e più ancora la conoscenza delle dottrine cristiane, delle credenze popolari e le supposizioni che i musulmani avevano formulato a riguardo.

Le risposte di al-Dimashqî ai punti formulati nella Lettera da Cipro comprendono una vasta gamma di argomenti che spaziano dalla reinterpretazione dei versetti impiegati dall’autore cipriota e dalla dimostrazione dell’incoerenza delle sue dottrine quando considerate alla luce del monoteismo, alla poesia, alle prove tratte dalla pietà popolare, alle storie e agli aneddoti probabilmente trasmessi sempre e solo oralmente. Nella ponderazione degli argomenti e nel giudizio sui loro vantaggi e sui loro svantaggi il suo approccio non è forense, ma chiaramente polemico, rivelando il possibile pericolo di un brano e convogliando tutte le risorse disponibili per scongiurarlo.

L’autore cipriota avrebbe potuto sperare in una ricezione meno brutale. Ma ha trovato un musulmano furibondo per le minacce implicite che la sua Lettera poneva all’Islam sminuendo lo status universale del Profeta e oscurando la natura di Dio nelle relazioni trinitarie e incarnatorie, e non disposto a concedere la benché minima credibilità ai suoi tentativi di confermare il Cristianesimo in termini islamici. Nella sua Risposta, al-Dimashqî difende energicamente l’Islam e fa una critica pungente della religione cristiana. Egli espone i difetti della dottrina cristiana e dei suoi insegnamenti e dimostra ai cristiani come la loro fede sia piena di incongruenze. Al-Dimashqî risponde con passione e veemenza retorica a un tentativo che il cipriota aveva sperato potesse essere considerato con simpatia e misurata pazienza. Ma, come osserva T. Michel, non si tratta di «un teologo che risponde con attenzione ai teologi degli avversari. Piuttosto, la sua prospettiva è quella di un ardente predicatore (khatîb) popolare che difende la verità dell’Islam dalle sfide devianti che ha trovato nel Cristianesimo». Come tale, egli impiega elementi e argomenti che comportano la condanna e la ridicolizzazione dei suoi avversari invece di quelli che potrebbero convincerli pazientemente a rivedere le proprie convinzioni. Alcuni degli argomenti che impiega sono simili a quelli di Ibn Taymiyya in Al-jawâb al-sahîh li-man baddala dîn al-Masîh [La risposta corretta a quanti alterano la Religione di Cristo][6].

Al-Dimashqî compose la sua Risposta alla Lettera da Cipro tra il marzo e il giugno del 1321, in meno di quattro mesi. La palese velocità con cui la completò è indicativa della sua indignazione che ha probabilmente inciso sulla precisione del suo ragionamento in alcuni punti, con l’accumulazione di frequenti costruzioni aneddotiche che oscurano gli elementi centrali e la presenza di materiale che sembra solo marginalmente pertinente. C’è da chiedersi se al-Dimashqî consultò espressamente delle fonti scritte o se fece affidamento alla memoria e al sentito dire. Infatti egli non dà l’idea da nessuna parte di aver seguito strettamente delle argomentazioni contenute in un testo in suo possesso, ma dà generalmente l’impressione di citare a caso degli elementi nel momento in cui gli vengono in mente in funzione delle sue argomentazioni. Ciò è particolarmente evidente nei suoi riferimenti alla storia e al culto cristiano.

 

Un’ostilità argomentata

Dei primi anni della storia cristiana al-Dimashqî menziona frequentemente Paolo ed altri personaggi ed è fermamente convinto che Paolo e Pietro siano vissuti circa 150 anni dopo Cristo. D’altra parte sostiene che l’imperatore Costantino sia vissuto solo circa 100 anni dopo Cristo. Forse non sarebbe potuto essere altrimenti (anche se si sarebbe potuto immaginare che fosse consapevole del fatto che Pietro era un discepolo), ma il riferimento a Paolo che seppellisce la vera croce affinché la madre di Costantino la trovi, impossibile in base a questa cronologia, tradisce una semplice disattenzione. La sua profonda conoscenza del culto cristiano tuttavia risalta per contrasto. Egli infatti non solo sa parlare in maniera commovente degli effetti della musica d’organo suonata durante le messe cristiane, ma ricorda anche parola per parola le preghiera recitate in particolari celebrazioni. È evidente che non ha alcuna difficoltà a ricordare ciò a cui ha assistito quasi certamente in prima persona ma è meno coerente quando si tratta di ricordare fatti di cui ha acquisito una conoscenza di seconda mano attraverso i libri o altri mezzi.

Nonostante rechi i segni di una composizione frettolosa, manchi di cura del dettaglio e presenti tracce di intemperanza, la Risposta di al-Dimashqî è un documento di notevole valore per ciò che può dire degli atteggiamenti musulmani verso il Cristianesimo e delle basi fattuali che li supportavano, nell’ultimo periodo della Crociate. Essa dimostra che i musulmani avevano acquisito un grado considerevole di conoscenza di molti aspetti di quest’altra fede, biblici, storici ed ecclesiali, e avevano raggiunto una comprensione sistematica del motivo per cui i cristiani credevano quel che credevano e pregavano in quella maniera. Ma tutto era visto attraverso la lente del Corano e del suo monoteismo assoluto, così che le credenze e le pratiche cristiane erano ritenute carenti o devianti secondo il grado di divergenza da questa norma, invece di essere apprezzate per ciò che potevano essere in sé.

La Lettera alla gente di Cipro si colloca accanto a molti altri documenti di origine musulmana e cristiana dei primi secoli dell’Islam in cui spiccano la veemente ostilità, e l’intento denigratorio e confutatorio. Tuttavia essa si distingue dalle altre per la lunghezza e la vasta gamma di materiale da cui attinge gli argomenti e le prove apologetiche. Pur mancando della padronanza teologica presente nei migliori esempi di questo genere, essa non ha quasi rivali per la sua vivacità e ricchezza e per l’immagine che offre degli atteggiamenti interreligiosi in un momento in cui l’inimicizia era più accesa che mai.

 


[1] Un resoconto del rogo di chiese, sinagoghe, moschee e abitazioni private a Damasco, in Libano, al Cairo e in tutto l’Egitto nel corso di quell’anno è riportato da Taqî al-Dîn Ahmad al-Maqrîzî in Kitâb al-sulûk li-ma‘rifat duwal al-mulûk, Cairo 1941. Cfr. Rifaat Ebied, Inter-Religious Attitudes. Al-Dimashqi’s (d. 727/1327) Letter to the People of Cyprus, «Aram Periodical», 9 (1997) 1-2, 21.

[2] Shams al-Dîn Muhammad ibn Abî Tâlib al-Sûfî al-Dimashqî nacque a Damasco nel 654/1256 e morì a Safed nel 727/1327. Fu shaykh e imam ad al-Rabwah vicino a Damasco. Fu un giurista e geografo cui è attribuita una serie di opere giuridiche inedite, trattati sufi e un’opera geografica che lo rese molto noto. Diventò sordo dieci anni prima della morte. Per un resoconto della sua vita e delle opere si veda Douglas Morton Dunlop, “Al-Dimashķî”, The Encyclopaedia of Islam (seconda edizione), Leiden 1965, vol. II, 291; Carl Brockelmann, Geschichte der arabischer Literatur, Berlin 1902, vol. II, p. 130, Supplement Band, Leiden 1938, vol. II, 161; cf. Rifaat Ebied, Inter-Religious Attitudes, 21.

[3] Si veda Paul Khoury, Paul d’Antioche, Évéque melkite de Sidon, Beirut 1964. Cfr. anche Samir Khalil Samir, Notes sur la « Lettre à un musulman de Sidon » de Paul d’Antioche, «Orientalia Lovaniensia Periodica», 24 (1993), 180-190.

[4] Paul Khoury, Paul d’Antioche, 8-18.

[5] Thomas Michel (a cura di), A Muslim Theologian’s Response to Christianity: Ibn Taymiyya’s al-Jawab al-Sahih, Caravan Books, Delmar (NY) 1984, 96.

[6] Rifaat Ebied, Inter-Religious Attitudes, 24.

Tags