Laicità positiva /1. Nel 1995 Il cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, interviene alla Commissione consultiva nazionale dei Diritti dell’uomo. Il suo discorso offre ancora oggi un mirabile approfondimento di un tema sempre più decisivo e insieme discusso.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:21

Non riprenderò il dibattito teorico attorno alla separazione tra la Chiesa e lo Stato. Assumerò come punto di partenza la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, che mi sembra decisiva nella situazione attuale. Tra la Dichiarazione e i testi ufficiali della Chiesa cattolica sulla libertà religiosa, solennemente proclamati dal Concilio Vaticano II, vi è coincidenza di scopi e talvolta anche di linguaggio.  «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere ¬riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società» [Dignitatis Humanae, 2]. La riflessione sulla “espressione religiosa in una società laica” non si sostiene più soltanto sulla memoria di molti secoli di scontri, nel nostro paese, tra il pensiero detto “laico”  (a partire dalla fine del Medio Evo fino alla Rivoluzione francese e ai successivi secoli) e la religione cattolica nel suo rapporto con la Francia in quanto Stato e nazione. Un conflitto per la supremazia ha opposto due ambizioni contrastanti e ha avuto come esito la separazione tra Chiesa e Stato. Essa implica anche una presa d’atto di conflitti precedenti, come le guerre di religione, le persecuzioni subite dalle comunità ebraiche e l’opposizione in armi, da parte della nazione, all’avanzata dell’Islam. Questa lunga storia spiega come il pensiero laico sia nato dal sospetto e dalla lotta contro il clericalismo, vale a dire contro l’estensione del potere del clero cattolico alle leve di governo. E peraltro, inversamente, la tradizione gallicana ha creduto di poter legittimare l’utilizzo da parte delle autorità politiche della sacralità e dell’autorità del clero. Di ciò Napoleone non rappresenta né il solo né l’ultimo esempio. La disputa sulla scuola è stata uno degli ambiti nei quali questa lotta si è dispiegata nel secolo appena trascorso: siamo ormai distanti dalle sue manifestazioni più acute. Le peripezie dell’ultima guerra e del regime del maresciallo Pétain non sono estranee ai sospetti e ai risentimenti che eventualmente si manifestino ai giorni nostri, e questi a loro volta possono essere alimentati da quelle ambizioni politiche che strumentalizzano il fattore religioso. Ma fondamentalmente la posizione della Chiesa cattolica è chiara: riconoscimento del potere politico e del regime democratico, rispetto della libertà religiosa.  Nella situazione attuale la Repubblica laica, la sua costituzione, i suoi testi fondativi, le sue procedure, la sua giurisprudenza, la sua prassi amministrativa hanno configurato lo spazio da assegnare al Cattolicesimo, al Protestantesimo, all’Ebraismo e all’Islam già dai tempi dei dipartimenti francesi nell’Africa del nord. Si è verificata un’evoluzione nella giurisprudenza e anche nella mentalità. La laicità ha ricevuto un duro colpo all’indomani del Maggio ‘68; la nobile indipendenza e il rigoroso stile universitario hanno ceduto il passo a una libertà d’espressione più schierata e partigiana: un’evoluzione positiva per certi aspetti, ma nefasta per altri. Come reinterpretare il rispetto delle opinioni e delle convinzioni che sono alla base del prestigio dell’università e garantiscono la coesione della nazione francese, e come collocare, in questo contesto, il ruolo delle religioni?   Concezioni Ignorate Nella Dichiarazione congiunta che ho firmato l’11 settembre con Fodé Sylla, presidente di SOS Razzismo, il Pastore Steward, presidente della Federazione protestante di Francia, Henry Hadjenberg, presidente della CRIF e Dalil Boubakeur, rettore della moschea di Parigi, ho lasciato passare un’espressione che non mi convinceva pienamente: “Le comunità che compongono la Nazione”. La parola “comunità” è utilizzata in senso tecnico da ciascuna di queste religioni per indicare realtà differenti. Il Cattolicesimo ¬parla di “comunità religiosa” per designare un gruppo d’uomini e di donne legati da una regola particolare (le congregazioni e gli ordini religiosi); il Cattolicesimo conosce inoltre la comunità parrocchiale che raccoglie i fedeli di una parrocchia. L’ebreo osservante parla di “vita comunitaria”. Per l’Islam, la parola “umma”, cioè la “comunità dei credenti”, indica un’appartenenza globale. Il diritto francese ignora queste concezioni della comunità. Parlare di una “comunità nazionale fatta di comunità” rinvia al modello anglosassone nel quale possono coesistere diritti personali differenti. Questo modello non aggrega solamente cittadini e individui ma anche comunità identificate dalla religione. Non è così per la nostra tradizione repubblicana. Questa infatti riconosce, in nome del popolo francese, l’uguaglianza dei cittadini e attribuisce a ciascuno i diritti di espressione, di libertà religiosa e di associazione. La cittadinanza e i diritti che essa comporta non sono mediati da nessuna appartenenza comunitaria. Il linguaggio giuridico francese conosce due usi del termine “comunità”: la comunità urbana, che indica una organizzazione sovracomunale dotata di statuto proprio, e la comunità europea, un insieme di Stati. Ma si tratta di realtà che non sono definite dall’appartenenza a una religione. Dovremmo, in nome dell’appartenenza religiosa, pensare di adottare un ordine giuridico differente? Perché non sostenere l’ipotesi di adottare il diritto anglosassone, su questo punto simile a quello del Medio Oriente? La definizione della nazione attraverso la cittadinanza appartiene alla storia della Francia e della nostra cultura. È un fatto: la Francia ha costruito un’appartenenza politica e formulazioni giuridiche proprie. Pertanto lo Stato repubblicano deve agire con moderazione per garantire il diritto, altrimenti diventa totalitario. La riflessione sui doveri e i diritti dello Stato deve essere costante per garantire le libertà riconosciute ai cittadini. E peraltro questi ultimi possono appellarsi ai tribunali e all’opinione pubblica. Vorrei quindi perorare la causa della cultura francese e della storia religiosa del nostro paese. Ad essa appartengono come elementi di rilievo la precedenza del Cattolicesimo, il ruolo particolare dell’Ebraismo, l’influenza protestante e il recente afflusso islamico. La nostra cultura si è organizzata nel corso di lunghi e tumultuosi secoli. Le sue e nostre sorgenti sono religiose ma anche laiche. La nostra identità francese è politica. Come in tutti gli Stati europei prima della Riforma,  il Cattolicesimo ha alimentato l’identità francese, anche se non l’ha mai connotata in maniera specifica. La Riforma e la conquista  delle libertà civili anche in materia religiosa hanno portato a una definizione dell’identità nazionale, della cultura giuridica e del rispetto delle istituzioni in termini espressamente politici. Possiamo con ciò affermare che questa identità fondata sulla cittadinanza vieta qualunque espressione o manifestazione pubblica della religione? Questo sarebbe in ¬contrasto con la nostra cultura, che valorizza la libertà di coscienza e di espressione e i diritti di associazione garantiti dalle istituzioni repubblicane. Non esistono diverse culture francesi ma la cultura francese è composita. Occorre saperne accettare le luci e le ombre: fanno tutte parte della coscienza comune. In Francia l’identità nazionale è legata all’ambito politico, ma anche alla storia. La sua concezione unitaria non esclude ma tollera e onora la ricca diversità di un patrimonio millenario che non misconosce ma al contrario feconda le nostre differenti appartenenze. Questo avviene in materia di religione ma anche nei confronti di molte altre identità particolari. Le differenze visibili di etnia,  di religione, d’opinione devono assumere l’identità francese e così la arricchiscono. Io mi pronuncio a favore di questo modo libero e generoso di intendere un’identità resa forte dalla cultura e dalla storia.  Universalismo dei Diritti dell’Uomo Le religioni non determinano ulteriormente il ruolo dello Stato, esse non possono fare altro che riconoscerlo o prenderne atto. Lo Stato non può sostituirsi alle religioni e imporre alle coscienze una propria definizione dell’Assoluto: i cittadini devono poter scegliere secondo coscienza e in libertà. Su questo punto il diritto positivo deve garantire un diritto fondamentale della persona umana. La questione del fondamento dei Diritti dell’Uomo può portare lo Stato e le religioni a lavorare, ciascuno per la sua parte, alla verità, che è -liberatrice. Senza un fondamento adeguato, l’universalismo dei Diritti dell’Uomo – ai quali io aderisco totalmente – rischia di essere regionalizzato. Per esempio, quale Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo riconoscono gli Stati islamici? La Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo apre alla speranza di un ordine giuridico universale. È uno dei grandi dibattiti attuali e non va condotto con l’atteggiamento della conquista o della colonizzazione ma secondo ragione. Bisogna lavorare perché le differenti culture possano evolvere in modo che questa nozione non appaia come un prodotto esclusivamente occidentale ma manifesti il suo radicamento in tutte le culture dell’umanità. L’umanità va pensata come “una”. La laicità è un valore storico e culturale di prima grandezza. Non può essere ridotta a una determinazione giuridica. Non è iscritta, immobile, in un ideale empireo, è collocata nella storia, poggia su testi fondativi, è garantita da prassi giurisprudenziali, si traduce in azioni politiche. Essa rappresenta un saper vivere codificato che evolve con il succedersi delle generazioni. È alla laicità in quanto strutturante l’odierna cultura francese che si pongono nuove domande: si tratta dunque di concepirla con spirito libero, dando per certa la fine dei sospetti, per chiariti gli scopi di ciascuno, per superate con lealtà, ragionevolezza e cortesia le dispute.  Quali sono le nuove domande che nella nostra società francese si rivolgono alla laicità? La società è stata scossa da grandi mutamenti, dopo la prima guerra mondiale. Le trasformazioni intervenute hanno messo sottosopra gli equilibri interni alla vita sociale. Fin dall’inizio la Repubblica ha assegnato uno spazio alle minoranze religiose: ha accolto il Protestantesimo, ha riconosciuto i cittadini ebrei durante la Rivoluzione francese. Ma il ruolo del Cattolicesimo resta specifico in quanto di fatto costituiva una maggioranza. Era come se la religione cattolica svolgesse un ruolo di “pubblico servizio”, benché contasse solo sulle proprie risorse. Ma questa costruzione è stata profondamente sconvolta per tutto il ventesimo secolo, sia per ragioni ideologiche sia per motivi economici e sociali. Ci si è resi conto che così una delle correnti che alimentavano la memoria e la moralità pubblica veniva ostacolata, se non deviata? Oggi si parla molto di periferie desocializzate. Non dimentichiamo che, per esempio, a Sarcelles queste non sono state pensate né per i musulmani né per gli ebrei. Quando sono state costruite, dopo la seconda guerra mondiale, si trattava di far fronte a un’impennata demografica che in quindici anni aveva comportato, in Francia, il raddoppio degli edifici urbani. La desocializzazione che viene attribuita agli immigrati e della quale essi sono in verità le prime vittime è frutto dell’urbanizzazione realizzata nel paese durante l’onda lunga degli anni ‘50. Il Cattolicesimo paga il prezzo di questo sconvolgimento. In verità non ha più la possibilità pratica di garantire ciò che un tempo valeva per quasi tutta la popolazione francese: l’insegnamento religioso veniva impartito accanto alla scuola pubblica, alla Chiesa, al presbiterio; l’80% dei francesi era catechizzato! Venivano forse corrotti, o privati di principi morali? Attualmente le concrete condizioni della scolarizzazione e la scansione del tempo scolastico impediscono di esercitare ancora quel “servizio pubblico” a favore della memoria storica e spirituale. Questa tradizione resta accessibile soltanto ad alcune minoranze militanti. È materialmente impossibile garantire questa trasmissione culturale alla maggioranza. Chiedere allo Stato di assumersi questo compito costituirebbe una deriva molto pericolosa perché un’ideologia o una pseudoreligione di Stato potrebbe sostituirsi alla libertà religiosa dei cittadini e alla loro dignità personale. È più opportuno proseguire nella riflessione sulla cultura francese e sulla sua memoria. Qualche progresso si è realizzato per attenuare la sistematica eliminazione dall’insegnamento dell’aspetto religioso della cultura. Come parlare della cultura tedesca senza parlare di Lutero, o della storia della Francia senza evidenziarne le radici bibliche e cristiane? Certo ci vorrebbero degli insegnanti che guardassero con simpatia alla dimensione religiosa iscritta nella nostra civiltà. Anche se non spetta a loro il compito di trasmettere una fede o di inculcare convinzioni d’ordine trascendente. I nostri contemporanei si sentono spesso aggrediti da una sorta di mancanza di rispetto. La derisione accentua una deriva popolare aggressiva che può portare a conseguenze politiche. Nella nostra società vige la regola del rispetto: bisogna vigilare perché questa regola sia rispettata.  

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