Laicità positiva /2. Per la teoria positivista, che ha dominato a lungo la cultura moderna, specie negli Stati Uniti, la scienza giuridica non era altro che l’analisi delle norme e la loro applicazione nei casi particolari. Ma quella teoria, che sembrava invincibile, è stata messa radicalmente in crisi.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:22

Migliore la società, meno diritto ci sarà. In paradiso non ci sarà legge, e il leone giacerà con l’agnello. […] All’inferno tutto sarà legge, e i processi saranno meticolosamente osservati» [1]. Così scriveva Grant Gilmore a conclusione del suo classico del 1974, Ages of american law. Gilmore coniò questo distico ad effetto per fotografare la visione pessimistica di diritto, politica e società resa celebre dal giurista americano e giudice supremo Oliver Wendell Holmes Jr. (1841-1935). Contrariamente al consueto ritratto di Holmes come saggio ed elegante “yankee dell’Olimpo”, Gilmore lo dipinse come un uomo «duro e spietato», prostrato e scottato dalla crudeltà della guerra civile americana e dal potere divorante della Rivoluzione industriale.  Secondo Gilmore, tali esperienze avevano reso Holmes «un pessimista acre e incallito che nella vita umana non vedeva altro che una continua lotta in cui ricchi e potenti impongono il proprio volere a poveri e deboli». Fu questa visione cupa della natura umana a dar forma a una visione altrettanto cupa del diritto, della politica e della società. Per Holmes, la legge di questo mondo non è guidata da alcuna legge celeste. Il diritto serve a evitare che la società e i suoi membri scivolino nell’abisso dell’inferno, ma non può nulla per guidarli nella loro ascesa al cielo.  Holmes è stato il «gran sacerdote» di una nuova «era della fede» nel diritto americano – scriveva Gilmore con voluta ironia – che sostituiva un’epoca precedente dominata dalla Chiesa e dal clero. Questo nuova età della fede nel diritto americano era in parte il prodotto di una nuova fede in quella teoria positivista della conoscenza che furoreggiò in America tra la fine del diciannovesimo e il ventesimo secolo, facendo eclissare precedenti teorie della conoscenza in cui la religione e la Chiesa occupavano un posto di maggior rilievo. La svolta positivistica del diritto procedette in due stadi. Il primo fu lo stadio scientifico. Ispirati dal successo della prima rivoluzione scientifica i giuristi europei del diciottesimo secolo e quelli americani del diciannovesimo inaugurarono un metodo giuridico in tutto e per tutto scientifico e rigoroso quanto quello delle nuove scienze matematiche e fisiche. A suffragio di tale pretesa, i giuristi di quel periodo produssero un numero sbalorditivo di nuovi codici, enciclopedie, dizionari, manuali e altre sintesi giuridiche che ancora abbelliscono, e appesantiscono, gli scaffali delle nostre biblioteche. Il secondo stadio della svolta positivista nell’ambito del diritto fu filosofica. Un nuovo movimento – variamente conosciuto come positivismo giuridico, formalismo giuridico, e giurisprudenza analitica – cercò di ridurre la materia del diritto al suo nucleo più essenziale. Se la fisica può essere ridotta alla “materia in movimento” e la biologia alla “sopravvivenza del più adatto”, allora il diritto e gli studi giuridici potevano essere a loro volta ridotti a un oggetto essenziale. La formula fu concepita alla metà del diciannovesimo secolo, segnatamente da John Austin in Inghilterra e da Christopher Columbus Langdell in America: il diritto si risolve nelle regole concrete e nelle procedure messe in atto dal sovrano e applicate dai tribunali. Molte altre istituzioni e pratiche possono essere normative e importanti per la coesione sociale e la concordia politica. Ma non si tratta di diritto. Esse stanno al di là di ciò che Austin chiamava «la provincia della giurisprudenza propriamente detta». La teoria positivista del diritto, che trionfò nelle università americane dagli anni ’90 del diciannovesimo secolo in poi, rese la scienza giuridica sempre più circoscritta e isolata. Il diritto era semplicemente la legge del sovrano. La scienza giuridica non era altro che l’analisi delle norme poste in essere e la loro applicazione ai casi particolari. Perché tali norme fossero poste in essere, se la loro creazione fosse un bene o un male, come esse influenzassero la società, la politica o la morale non era una questione rilevante per la scienza del diritto.  Holmes fu uno dei primi paladini di questa teoria positivista del diritto e del suo sviluppo. Egli rifiutava le concezioni più tradizionali con una serie di famosi aforismi che ancora oggi vengono spesso citati. Contro quanti insistevano sul fatto che la tradizione giuridica fosse più che il semplice prodotto dello sviluppo di una prassi, scriveva: «la vita del diritto non è la logica, ma l’esperienza». Contro quanti si richiamavano a una legge naturale superiore come guida della legge positiva dello Stato, Holmes sbottava: «non c’è alcuna incombente onnipresenza in cielo». A quanti sostenevano una giurisprudenza più radicata nei principi, Holmes replicava: «i principi generali non decidono i casi concreti». Contro quanti insistevano sul fatto che il diritto ha bisogno della cogenza di premesse morali Holmes diceva accigliato «sarei felice se potessimo sbarazzarci di tutta la fraseologia morale che penso abbia avuto la tendenza a distorcere il diritto. Anche nell’ambito dell’etica credo sarebbe un guadagno, almeno per le persone istruite, sbarazzarsi del termine e della nozione di peccato».  Nonostante la sua inedita preminenza all’inizio del ventesimo secolo, il positivismo giuridico americano non era privo di numerosi detrattori. Già negli anni ’20 e ’30 del ventesimo secolo, i sociologi del diritto sostenevano che la natura e lo scopo del diritto e della politica non potessero essere capiti senza il riferimento allo spirito di un popolo e del suo tempo – di un Volksgeist und Zeitgeist – come li definiva la loro controparte tedesca. Il movimento giuridico realista degli anni ’30 e ’40 utilizzò nuove intuizioni della psicologia e dell’antropologia per mettere in dubbio l’immutabilità e l’ineluttabilità del ragionamento giudiziario. Negli anni ’40 e ‘50, i fautori del rinato diritto naturale videro negli orrori dell’Olocausto hitleriano e dei gulag staliniani il pericolo di un ordinamento giuridico privo di pesi e contrappesi trascendenti. Il movimento internazionale per i diritti umani degli anni ’50 e ’60 spinse il diritto ad occuparsi più direttamente delle fonti e delle sanzioni dei diritti civili, politici, sociali, culturali ed economici. I movimenti marxisti, femministi e neo-kantiani degli anni ’60 e ’70 usavano la critica linguistica e strutturale per evidenziare le lacune e le false equivalenze delle varie dottrine politiche e giuridiche. Il Watergate e altri scandali politici degli anni ’70 e ’80 sottolinearono il bisogno di una comprensione più esaustiva dell’etica giuridica e della responsabilità politica.  All’inizio degli anni ’70, la confluenza di questi e di altri movimenti aveva evidenziato i limiti della sola definizione positivista del diritto. Giuristi di spicco dell’epoca – Lon Fuller, Jerome Hall, Karl Llewellyn, Harold Berman e altri – spingevano per una più ampia comprensione e definizione di diritto. Certo, essi erano d’accordo con i positivisti nel sostenere che il diritto consiste di regole – le regole scritte sui contratti, gli illeciti, le proprietà, le società e le altre materie più comuni. Certo, il diritto richiede una scienza giuridica propria, una “ragione artificiale”, come la definì una volta Sir Edward Coke. Ma il diritto è molto di più delle sole norme dello Stato e del modo in cui vengono applicate e analizzate. Il diritto è anche l’attività sociale con la quale certe norme sono formulate dalle autorità legittime e messe in pratica dalla persone soggette a tali autorità. Il diritto è la somma delle norme e dei processi politici di formulazione, applicazione e ricezione delle norme stesse. Il solo positivismo giuridico non poteva venire a patti con il diritto inteso in questo senso più ampio. Negli ultimi trent’anni, perciò, i giuristi americani hanno abbracciato gli studi giuridici interdisciplinari, leggendo il diritto attraverso i metodi e le intuizioni della filosofia, dell’economia, della politica, dell’antropologia, della letteratura, della biologia e di altre discipline. Il pendolo del diritto si è decisamente spostato rispetto alla posizione prevalentemente positivista di due generazioni fa. In alcuni casi si sta spostando troppo rapidamente. Il diritto è una modalità irriducibile della vita umana e dell’esistenza sociale; è più che la somma delle sue parti interdisciplinari. La ricerca giuridica dovrebbe essere sospinta, non oscurata, dai metodi e dalle intuizioni delle altre discipline. Il compito urgente dei nostri giorni è la creazione di un nuovo paradigma giuridico che ci permetta di distinguere i metodi legittimi e illegittimi dello studio interdisciplinare del diritto.   Studio Interdisciplinare Qualsiasi possa essere il nuovo paradigma degli studi giuridici, sarà necessario prendere in piena considerazione le fonti e le dimensioni religiose del diritto. Dal momento che la religione, nelle sue varie forme, ha dimostrato la sua inevitabile persistenza nelle nostre vite, tradizioni e ordinamenti giuridici. Nel corso del ventesimo secolo, la religione ha sfidato la triste pretesa dell’accademia occidentale secondo cui la diffusione della ragione e della scienza avrebbe lentamente condotto a un’eclissi del sacro e alla propensione alla superstizione. La religione ha anche sfidato la pretesa di nazisti, fascisti, comunisti e simili per i quali gulag e campi di sterminio, iconoclastia e roghi di libri, propaganda e controllo delle menti, avrebbero inevitabilmente condotto la religione all’estinzione. Ci troviamo infatti nel bel mezzo di un risveglio religioso, globale nella sua portata e spaventoso nel suo potere. La religione ha dimostrato di essere una condizione inestirpabile delle vite e delle comunità umane.  Di fatto, oggi è diventato più chiaro di quanto non fosse nei secoli precedenti che la religione e il diritto sono due elementi universali dell’esistenza umana, due fonti e sistemi di valori e credenze interdipendenti presenti in tutte le civiltà assiali. Diritto e religione, scrisse un giorno il giudice supremo Harry Blackmun, «sono parte integrante del calcolo di come un uomo dovrebbe vivere» e di come una società dovrebbe funzionare. Certo, la sfera e la scienza del diritto e della religione si sono trovate, secondo le circostanze, sia a convergere che a contraddirsi l’un l’altra. Ogni grande tradizione religiosa ha conosciuto sia il teonomismo che l’antinomismo – l’eccessiva giuridizzazione e l’eccessiva spiritualizzazione della religione. Ogni grande tradizione religiosa ha conosciuto sia la teocrazia che il totalitarismo – l’eccessiva sacralizzazione e l’eccessiva secolarizzazione del diritto. Ma la realtà dominante nella maggior parte delle aree e delle culture del pianeta, secondo molti studiosi, è interrelazione dialettica di diritto e religione. Ogni grande tradizione religiosa si sforza di confrontarsi con il diritto cercando un equilibrio tra il razionale e il mistico, il profetico e il sacerdotale, l’istituzionale e lo spirituale. Ogni grande tradizione religiosa si sforza di conformare le sue strutture e i suoi processi formali alle credenze e agli ideali dei suoi aderenti. Diritto e religione sono sfere e scienze distinte della vita umana, ma coesistono in un’interazione dialettica, e si richiamano e si fecondano costantemente l’un l’altra. Senza il diritto, la religione scade nel più piatto spiritualismo. Senza la religione il diritto scade nel vuoto formalismo. Diritto e religione sono istituzionalmente collegati. Giuristi e teologi hanno lavorato gomito a gomito, e talvolta si sono scontrati, per definire la giusta relazione tra gruppi politici e religiosi, per determinare le rispettive responsabilità, per facilitare la loro cooperazione, per delimitare le forme di supporto e protezione che gli uni possono garantire agli altri. Molte delle grandi dottrine costituzionali sulla Chiesa e sullo Stato – la teoria delle due città di Agostino, la teoria dei due poteri di Papa Gelasio, la teoria delle due spade dell’Alto Medio Evo, la teoria dei due regni della Riforma Protestante – si radicano sia nel diritto civile che in quello canonico, nella giurisprudenza teologica e nella teologia politica. Buona parte del diritto costituzionale americano relativo ai rapporti tra Stato e Chiesa è il prodotto sia delle dottrine giuridiche e politiche dell’Illuminismo che della teologia cristiana e dei dogmi morali.  Diritto e religione sono concettualmente legati. Entrambe le discipline attingono agli stessi concetti fondamentali sulla natura di essere e ordine, persona e comunità, conoscenza e verità. Sia il diritto che la religione implicano i concetti molto simili di peccato e crimine, patto e contratto, redenzione e riabilitazione, rettitudine e giustizia che invariabilmente si combinano nella mente del legislatore, del giudice o del giurato. Il concetto giuridico moderno di crimine, per esempio, si è formato sulla base della vecchia teologia ebraica e su quella medievale del peccato. Il concetto giuridico moderno di contratti dall’efficacia vincolante è stato forgiato nel crogiolo della teologia puritana del patto. Il concetto giuridico moderno delle finalità della pena si radicano nelle dottrine cattoliche delle cause della legge naturale e delle dottrine protestanti degli usi della legge morale. Sia il diritto che la religione attingono i concetti l’uno dell’altra per formulare le rispettive dottrine. La dottrina giuridica per cui la sanzione deve essere proporzionata al crimine commesso deriva dalla dottrina ebraica e cattolica dell’espiazione e del pentimento. La dottrina teologica della natura decaduta a causa del peccato si radica nei concetti giuridici di azione, complicità e responsabilità vicaria.   Le Molte Forme di Interazione Diritto e religione sono metodologicamente collegati. Entrambi hanno sviluppato analoghi metodi ermeneutici e analoghi modi di interpretare i loro testi di riferimento. Entrambi hanno sviluppato metodi logici, modi di dedurre precetti dai principi, di ragionare per analogia e precedenti. Entrambi hanno sviluppato metodi etici, modi di tradurre i loro valori e credenze più profondi in stili di comportamento prescritti o privilegiati. Entrambi hanno sviluppato metodi dialettici e retorici, modalità di sistemare e presentare argomenti e dati. Entrambi hanno sviluppato metodi per fornire prove e vincere controversie. Entrambi hanno sviluppato metodi di organizzazione, sistematizzazione e insegnamento delle rispettive materie. Questi metodi si sono reciprocamente influenzati. Di fatto lo stesso metodo viene talvolta semplicemente applicato sia a questioni religiose che giuridiche. Per esempio, il metodo dialettico medievale di armonizzazione di testi giuridici e teologici contraddittori della tradizione è emerso quasi simultaneamente nel dodicesimo secolo con il capolavoro del diritto canonico di Graziano Concordia discordantium canonum (1140) e lo scritto teologico di Pietro Lombardo Liber Sententiarum (1150). I primi moderni metodi topici di  collocare dati teologici e giuridici sotto loci retorici e analitici emerse simultaneamente tra i primi teologi e giuristi protestanti. Queste e altre forme di interazione hanno contribuito a rendere le sfere e le discipline del diritto e delle scienze religiose dipendenti una dall’altra: di fatto dimensioni una dell’altra, come sostenne Harold Berman. Da una parte, il diritto conferisce alla religione la sua struttura: l’ordine e l’ortodossia di cui ha bisogno per sopravvivere e fiorire nella società. Le strutture giuridiche e i processi – la Halacha nell’ebraismo, il diritto canonico nel Cristianesimo, la Sharî’a nell’Islam – definiscono e governano le comunità religiose e i rispettivi dogmi e rituali, costumi e morale. D’altra parte, la religione dà al diritto uno spirito: l’autorità di cui ha bisogno per esigere obbedienza e rispetto. La religione ispira i rituali delle aule dei tribunali, il decoro del corpo legislativo, lo sfarzo del potere esecutivo, tutti tesi a celebrare e confermare la verità e giustizia della legge. La religione dà alla diritto la sua correttezza strutturale, la sua “moralità intrinseca”, come la definiva Lon Fuller. Le norme e le sanzioni giuridiche, così come le leggi e le promesse divine, sono pubblicamente proclamate, conosciute da tutti, uniformi, stabili, comprensibili, prevedibilmente applicate, coerentemente messe in atto. La religione dà al diritto il suo rispetto per la tradizione, per la continuità di istituzioni, lingua, pratiche, per le consuetudini e la loro salvaguardia. Così come la religione ha una tradizione talmudica, una cristiana e una islamica, il diritto ha una tradizione di common law, una di civil law, e una tradizione costituzionale. Così come accade nella religione, anche nel diritto le pratiche del passato sopravvissute al tempo vengono abbandonate con trepidazione, e previa un’adeguata giustificazione. La religione dà al diritto autorità e legittimità, ispirando nei cittadini e nei sudditi un senso di riverenza per la legge e l’autorità costituita. Come la religione, il diritto possiede fonti orali e scritte, testi o profezie, considerati decisivi in sé. La religione ha Bibbia e Torah e pastori e rabbini che le spiegano. Il diritto ha costituzioni e codici e giudici e istituzioni che le applicano.  Fortunatamente, in anni recenti l’educazione giuridica americana si è aperta allo studio delle fonti e delle dimensioni religiose del diritto. L’associazione delle Facoltà americane di giurisprudenza, l’associazione americana alla quale appartiene la maggior parte dei professori di diritto, ha ora una sezione consistente di membri specialisti in diritto e religione, e una sezione in crescita di specialisti in diritto ebraico e diritto cristiano. L’index dei periodici di discipline giuridiche ha recentemente aggiunto la religione tra i temi sotto in quali gli articoli possono essere legittimamente classificati. Le biblioteche delle nostre Facoltà di giurisprudenza e l’ordine degli avvocati ricevono regolarmente periodici come il Journal of Law and Religion e il Journal of Church and State, così come una lista crescente di monografie, manuali e “casebook” su diritto e religione. Virtualmente tutte le Facoltà di giurisprudenza hanno ora almeno un corso base sulla libertà religiosa e le relazioni Stato-Chiesa. Un numero crescente di Facoltà di giurisprudenza impartisce ora corsi di diritto canonico, diritto ebraico, diritto islamico e diritto naturale. Le stesse Facoltà tengono sempre in debita considerazione il contributo delle religioni negli studi di etica giuridica, storia giuridica, giurisprudenza, diritto e letteratura, antropologia giuridica, diritto comparato, diritto dell’ambiente, diritto familiare, diritti umani e altri corsi fondamentali. Diverse Facoltà stanno organizzando programmi interdisciplinari in diritto e religione e diritto ed etica. La religione non è più solo la fissazione di stravaganti e isolati professori a fine carriera. Non è neanche la preoccupazione delle Facoltà d’ispirazione religiosa. La religione si trova ora allo stesso livello di economia, filosofia, letteratura, scienza politica, storia e di altre discipline come interlocutore del diritto, valido e prezioso. [Articolo tratto dal volume curato in collaborazione con Frank S. Alexander, Christianity and Law: An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge 2008]. [1] Grant Gilmore, The Ages of American Law, Yale University Press, New Haven 1977, 110-111.  

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