La decisione di Saad Hariri di rinunciare all’incarico di primo ministro ha messo ancora una volta in luce le disfunzioni dell’assetto istituzionale libanese. C’è chi, opportunisticamente, invoca una revisione costituzionale. Ma tutto è rimandato alle elezioni del 2022. Se davvero avranno luogo…

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:39

Che cosa è in gioco nell’attuale crisi del Libano? Com’è nato lo stallo che ha portato alla rinuncia di Saad Hariri e quali sono le sue conseguenze? Questi sviluppi annunciano davvero un cambiamento del sistema politico del Paese? Queste domande, sollevate dall’opinione pubblica internazionale, sono le stesse che si pongono i libanesi. 

 

Sul piano puramente politico, la crisi che dall’ottobre 2020 ha coinvolto il capo dello Stato Michel Aoun e il primo ministro incaricato Saad Hariri riguarda l’interpretazione dell’articolo 53, comma 4, della Costituzione libanese del 1989, come ha precisato l’ex ministro degli Interni, Ziyad Baroud. Questo articolo subordina la formazione del governo a un “accordo” (ittifāq) tra il presidente della Repubblica e il primo ministro incaricato. Il termine “accordo” è indicativo. Nessuno dei due, infatti, dispone delle prerogative per imporre alcunché. Sono costretti a scendere a patti. E in quasi un anno quest’intesa non è mai stata trovata. Era possibile un’uscita di emergenza costituzionale? La risposta è no. I testi non la prevedono, e al Consiglio costituzionale non è stato attribuito il diritto di interpretare la Costituzione. Questo è il motivo per cui Saad Hariri ha dovuto rinunciare all’incarico, dopo aver constatato l’impossibilità di un accordo con il presidente Aoun.

 

Per spiegare questa impasse sono stati avanzati molti argomenti. Per esempio, il primo ministro incaricato si è lamentato, durante i mesi delle consultazioni, che il campo presidenziale stava cercando di ottenere, attraverso le condizioni che poneva, il “terzo di blocco”, cioè un terzo dei voti del governo più uno, necessari a bloccare l’azione dell’esecutivo in caso di disaccordo tra i due uomini. Il presidente Michel Aoun e la Corrente Patriottica Libera (CPL), guidata dal genero del presidente, Gebran Bassil, se ne sono sempre serviti.

 

Si è anche detto che il capo dello Stato voleva nominare tutti i ministri cristiani, o quanto meno avere voce in capitolo, mentre il primo ministro incaricato insisteva perché due ministri cristiani venissero dal suo campo, e fossero dunque vicini alla Corrente del Futuro intesa come corrente transcomunitaria.

 

 

Tra conflitti politici e bilanci sospetti

 

Lo stallo è stato spiegato anche alla luce della guerra inconfessata lanciata dal campo presidenziale contro il campo del primo ministro, la cui gestione è stata ritenuta responsabile del tracollo economico del Paese. In questa prospettiva, al capo dello Stato è stata attribuita la volontà di controllare i ministeri della Giustizia e dell’Interno, mentre era in corso una battaglia per la realizzazione di una revisione contabile dei registri della Banca del Libano il cui governatore, Riad Salamé, è nel mirino della campagna anti-corruzione.

 

Si è anche detto che mentre Hariri cercava di formare un “governo di scopo”, composto da indipendenti e rispondente alle esigenze del presidente francese Emmanuel Macron, il capo dello Stato tentava, da parte sua, di inserirvi degli elementi politici.

 

Ma in fondo, come dice l’ex ministro Ziyad Baroud, «quello che si racconta non è necessariamente quello che accade». Dietro lo stallo, Baroud vede sostanzialmente il compito che il nuovo governo dovrà assumersi e che si sintetizza nei due obiettivi seguenti: preparare le prossime elezioni parlamentari di maggio 2022 (il mandato dell’attuale Camera scade la domenica precedente il 20 maggio e la nuova Camera dovrà quindi essere eletta prima di tale data) e poi negoziare con la comunità internazionale, e quindi il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la ripresa economica del Libano, in default dal 9 marzo 2020, data in cui è stato deciso di non onorare una scadenza di 1,2 miliardi di eurobond. Secondo l’ex ministro dell’Interno, è perciò normale che una delle questioni in ballo nella formazione del nuovo governo sia stato, e continui a essere, l’insediamento di un esecutivo favorevole alla classe politica in carica.

 

Comunque sia, nell’immediato la decisione di Hariri ha avuto un impatto più politico che istituzionale. Abbastanza rapidamente, infatti, e grazie a serrate consultazioni parlamentari, è stato incaricato un nuovo primo ministro, Nagib Mikati, per formare il governo. I prossimi giorni e le prossime settimane ci diranno se il processo di formazione del governo di Mikati andrà incontro alla stessa impasse.

 

 

Le disfunzioni del sistema

  

Tuttavia, nel braccio di ferro tra Michel Aoun e Saad Hariri non si può non percepire una disfunzione costituzionale e l’esistenza di un disaccordo profondo sulle rispettive prerogative non tanto dei due uomini, quanto delle due grandi comunità. Resistendo alle proposte di Hariri, il capo dello Stato, in qualità di rappresentante dei cristiani, ha cercato di esercitare un “diritto” che la Costituzione nata dall’Accordo di Taif (1989) aveva ridimensionato, affidando l’esercizio del potere al Consiglio dei ministri, inteso come direzione collegiale.

 

La nuova Costituzione, per esempio, ha privato il capo dello Stato del diritto di voto nel Consiglio dei ministri. Gli è stato invece lasciato il diritto di partecipare alla formazione del governo, un diritto che Aoun ha interpretato nel suo senso più ampio. Da parte sua, Hariri ha cercato – in modo maldestro, e questo va detto, – di confermare nella pratica le ulteriori prerogative che l’accordo di Taif aveva concesso alla comunità sunnita. La testardaggine di Hariri nel proporre al capo dello Stato delle liste già pronte, l’ostinazione del capo di Stato nel voler essere associato a pieno titolo alla formazione del governo, e la mancanza di flessibilità dei due uomini, unita a una personale antipatia reciproca, hanno fatto il resto.

 

Saltando però alle conclusioni, alcuni osservatori hanno pensato che il deterioramento dei rapporti tra il capo dello Stato e il primo ministro incaricato riflettesse almeno in parte una “crisi di sistema”. Tali osservatori si basano in particolare sull’insistenza di Hezbollah e del movimento Amal, il “tandem sciita”, nel voler mantenere, qualunque sia il governo, il portafoglio delle Finanze, come leva da usare a fronte del potere decisionale dei maroniti e dei sunniti. Si tratta in pratica di una violazione della Costituzione, secondo la quale nessun portafoglio ministeriale può essere appannaggio esclusivo di una comunità, dal momento che tutti devono essere assegnati “a rotazione”.

 

 

Necessità o ricatto?

 

Questa condizione del tandem sciita è inaggirabile, pena la sua non partecipazione al governo, ma, è costituzionalmente impensabile, dal momento che la Costituzione precisa «che non è riconosciuta alcuna legittimità ai poteri che contraddicano il patto di vita comune» (Preambolo, j). In teoria essa potrebbe essere dunque utilizzata come argomento – o pretesto – per una revisione costituzionale profonda. Basandosi su dati demografici libanesi in parte empirici, sul calo percentuale del numero di cristiani rispetto alla popolazione totale (circa il 30%) e sulla realtà geopolitica del momento (in particolare l’ascesa della Repubblica islamica dell’Iran come potenza regionale), alcuni ultras di Hezbollah pensano che l’attuale regola della parità islamo-cristiana in Parlamento e nell’esecutivo abbia fatto il suo tempo e debba essere sostituita dal criterio dell’eguale rappresentanza parlamentare dei cristiani, dei sunniti e degli sciiti (regola dei tre terzi).

 

Ciò non toglie, tuttavia, che la legittimità di questa richiesta di riequilibrio politico rimanga fragile e sia fortemente contestata dalla sede patriarcale maronita, depositaria della legittimità storica del Grande Libano (1920). Il patriarca maronita, il cardinale Bechara Rai, non nasconde infatti la sua ostilità all’egemonia multiforme esercitata da Hezbollah sulle istituzioni libanesi attraverso le armi. Recentemente, il patriarca ha denunciato in particolare la violazione della sovranità del Libano da parte di Hezbollah, impegnatosi unilateralmente nella guerra siriana, e ha insistito sul radicamento arabo della Chiesa maronita. Da un anno, inoltre, si batte per la proclamazione della “neutralità attivadel Libano e chiede che questo “distanziamento” da tutti gli assi regionali, ad eccezione del conflitto arabo-israeliano, sia consacrato da una conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite.

 

 

Chi e quando?

 

«In ogni caso, se mai sarà necessario modificare alcuni aspetti dell’equilibrio politico in Libano, bisogna capire chi lo farà e quando», si è domandato l’ex ministro dell’Interno Baroud. La risposta alla domanda “Chi?” è, ovviamente, non l’attuale Camera, ma il prossimo Parlamento. Sarà dunque un Parlamento eletto democraticamente a farlo, quindi probabilmente quello che verrà eletto nel maggio 2022.

 

Quanto alla “tempistica” di questa costituente, secondo l’ex ministro potrebbero essere gli eventi stessi a imporla, se il Paese dovesse cadere preda di «un caos sicuritario generalizzato – non una guerra civile –, con il collasso delle istituzioni, l’affanno degli apparati di sicurezza (esercito e forze della sicurezza interna) o l’impossibilità di organizzare le elezioni legislative».

 

Nella classe politica, c’è qualcuno che spera nella realizzazione di questo scenario? «Certo», risponde Ziyad Baroud, il quale crede tuttavia che tale “costituente” rimanga un miraggio in questo «tempo morto» in cui il Libano, considerato dai grandi attori come quantità trascurabile, rischia di essere assegnato in un accordo regionale e internazionale alla potenza (la Siria o l’Iran) che avrà manovrato più abilmente per metterlo sotto tutela. È già successo, lo si ricorderà, quando il Libano fu attribuito alla Siria per ricompensare quest’ultima della sua partecipazione alla coalizione guidata dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein colpevole di aver invaso il Kuwait.

 

Il Libano naviga dunque in acque pericolose, nell’attesa di un salvataggio economico che ancora non si vede all’orizzonte e potrebbe dover aspettare le elezioni legislative del 2022 e l’ingresso in Parlamento di figure provenienti dalla “rivoluzione” pacifica del 17 ottobre 2019. A condizione che queste legislative si tengano. Ma, per citare un’ultima volta Baroud, questa scadenza sarà dichiarata «ineludibile» e si terrà perciò sotto la pressione della comunità internazionale, e innanzitutto della Francia, che non accetterà per alcun motivo il suo siluramento, nella forma di un rinvio tecnico destinato a durare.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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