Mons. Ignazio Bedini, Vescovo di Isfahan dei Latini dal dicembre 1989 al gennaio 2015, ripercorre con la memoria gli oltre cinquant’anni trascorsi a servizio della Chiesa cattolica latina in Iran, e descrive la coscienza maturata sul significato di “presenza cristiana” in quel Paese

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:45

Che senso ha un fiore che spunta nel deserto? Eppure ce ne sono alcuni di bellissimi che fioriscono dove sembra che nessuno li possa vedere. Il senso di questi fiori lo conosce solo Dio. Ma di sicuro un perché ce l’hanno.

Sono parole pronunciate quasi sottovoce nella sua casa a Teheran da mons. Ignazio Bedini, salesiano, Vescovo emerito di Isfahan dei Latini. Un pensiero quasi sfuggito dalle maglie strette della sua riservatezza, un’immagine che getta un fascio di luce particolare sui cinquantadue anni della sua vita trascorsi in Iran. Più di mezzo secolo di vita a servizio della Chiesa latina nel grande Paese che tanto inquieta i vicini e l’Occidente intero, prima, durante e dopo la Rivoluzione, verrebbe da sintetizzare ripercorrendo le tappe storiche.

Ma il Vescovo da pochi mesi in pensione precisa: «Prima e durante la Rivoluzione. Il dopo deve ancora venire. E spero di vederlo». Mons. Bedini non spreca parole, ne usa poche e pregne di una lunga esperienza temprata in parti uguali da gioie e dolori, ma sempre fondata su una certezza che si è tradotta in uno stile particolare di presenza nel Paese a stragrande maggioranza musulmana. La certezza che la testimonianza di Cristo non ha bisogno di far chiasso, soprattutto dove ogni forma minimamente riconducibile al “proselitismo” non è permessa dallo Stato, ma di stare fedelmente dove si è chiamati a stare. In tempi di grande mobilità, dove alla prima difficoltà ci si mette in fuga, questa vocazione a “stare”, a esserci, è carica di una straordinaria potenza.

All’inizio del 2015 il missionario venuto da Sassuolo in Emilia, ormai giunto all’età della pensione, ha passato le consegne al suo successore. E dunque si è aperto un tempo non tanto di bilanci, che è compito di altri trarre, ma di racconto e di memoria. La smemoratezza sarebbe infatti una perdita per tutti. Il primo soggiorno in Iran di mons. Bedini risale al 1962. Il giovane Ignazio venne a Teheran per un tirocinio presso la scuola Don Bosco dei padri salesiani, che allora contava 1200 allievi e nel 1980 sarebbe arrivata a oltre 1800 iscritti. Il 90% di questi era costituito da musulmani, ai quali si aggiungeva una minoranza di ebrei, di zoroastriani e altri di varie appartenenze.

In seguito, terminati gli studi di teologia a Betlemme, venne ordinato sacerdote nella basilica del Getsemani per le mani del patriarca di Gerusalemme, mons. Giacomo Beltritti, il 21 dicembre 1968. Una volta ordinato fu inviato a Tehran dove è rimasto fino ad oggi. Salvo una breve parentesi, tra il 1980 e 1981, quando venne espulso insieme ad altri sacerdoti per via delle nuove regole imposte dal regime rivoluzionario, che stabilì che vi fosse solo un sacerdote per ogni chiesa. All’epoca le chiese dei Latini erano sei, quindi restarono in Iran solo sei preti latini, rispetto agli oltre trenta che c’erano prima.

Gli anni in cui la scuola dei salesiani eccelleva restano freschi nella memoria di sacerdoti, insegnanti ed ex-studenti. Capita ancora che questi, ormai professionisti in carriera, passino per un saluto, spinti da un senso di gratitudine: «Se non avessi studiato in questa scuola, non sarei quello che sono», osservano alcuni. Il clima era molto vivace per la dinamicità dei numerosi studenti, alcuni di famiglie di stranieri che risiedevano per lavoro a Teheran, ma anche di numerosi iraniani.

Ma prima della Rivoluzione la comunità tutta dei cattolici latini era fiorente; molti religiosi erano impegnati nell’ambito educativo oltre ai salesiani, i lazzaristi e i domenicani, per citare solo un paio di esempi. Lo scambio tra esperienze era effettivo così come il livello dell’educazione offerta era molto alto. Ma poi è accaduta la Rivoluzione del 1979 che ha cambiato i connotati del Paese: la scuola ha “cambiato gestione”, i preti sono stati allontanati, la maggioranza degli stranieri se n’è andata, il numero dei cattolici latini si è ridotto drasticamente. E subito dopo la rivoluzione è scoppiata la guerra con l’Iraq: otto anni eterni di disagio, bombardamenti, impoverimento, martellamento ideologico e propaganda da parte di chi governava uno Stato ormai sottosopra. In particolare non si è mai cancellato il ricordo delle bombe che cadevano anche a pochi metri dalla casa dei salesiani. C’è un muro nei pressi della chiesa che porta ancora oggi i segni del lavoro di una mitragliatrice che contrastava i colpi nemici.

Bagdad e Teheran giocavano al reciproco massacro, incastrate in una spirale di violenza che sembrava non volersi fermare prima dell’annientamento di entrambe le parti. Ma anche in quel tempo, in cui cadevano le bombe dal cielo, mons. Bedini non si è mosso. È rimasto nella capitale, «Perché era importante restare? – spiega – Capitava che telefonasse qualcuno della parrocchia che ci chiedeva se eravamo ancora qui. “Non andatevene, restate qui, la paura è troppa da affrontare da soli” ci dicevano». Per capire la paura di quegli anni basti pensare che molti di notte andavano a dormire fuori città, nel deserto. E i padri restavano lì. Una presenza silenziosa tra le pieghe di una quotidianità ferita dalla guerra, dalla fame, dalla scarsità di beni. «Per ricevere un pezzo di pane o un po’ di benzina o altri beni indispensabili occorreva alzarsi prestissimo e mettersi in coda per lunghe ore. Questa era la vita della gente qui, e anche la nostra». Infine un giorno la guerra con Saddam Hussein è finita e l’Iran ha ricominciato a ricomporre i pezzi, a ricucire ferite, a ridarsi un futuro tra passi avanti e passi indietro. Fino a oggi, una stagione che vede i tavoli internazionali alimentare nuove speranze in un popolo che chiede di aprire nuovi orizzonti.

Lungo il corso di questa storia, attraverso circostanze avverse ma anche di speranza, è maturata la coscienza di che cosa vuol dire essere una presenza cristiana in Iran, che esige un’attenzione sempre vigile rispetto agli sviluppi interni e geopolitici internazionali, ma che da questi non è ultimamente determinata: «Il semplice fatto di essere qui è in sé una testimonianza – spiega mons. Bedini. La Chiesa esiste qui. Se lei si affaccia alla porta della nostra casa vede passare tante macchine e tutti i passanti gettano un’occhiata alla chiesa, anche distratta, ma la notano: questa è già testimonianza. Sono piccole cose, certo, ma hanno un loro peso. I pochi cristiani di qui non devono sentirsi abbandonati. Si potrebbe considerare questa una modalità di presenza “passiva”. In realtà essa consiste nell’ascolto, nell’accompagnamento di quei pochi che ci sono. Questo stile di presenza, che nasce anche dal fatto che le leggi di questo Paese non ci permettono di fare un annuncio diretto del Vangelo né di accogliere persone di fede musulmana nelle nostre strutture, alla fine, ci ha permesso anche un certo dialogo effettivo con l’Islam».

Un esempio concreto di questo è la collaborazione avviata con alcuni studiosi iraniani che ha portato con successo alla traduzione del Catechismo della Chiesa cattolica in farsi. Uno strumento che permette agli iraniani di conoscere il Cattolicesimo a partire dalle sue stesse fonti, dal suo magistero, non esclusivamente attraverso fonti islamiche. Lo scopo della presenza cristiana in Iran, rileva mons. Bedini, è molto basilare, è amare e servire il prossimo: «La Chiesa ha canonizzato Charles de Foucauld che pregava nel deserto, e anche madre Teresa che non aveva come primo obiettivo quello di battezzare le persone che incontrava. Questa strada segnata da amore e servizio, proprio come indica a tutti i cristiani di ogni luogo Papa Francesco, può trovare il suo spazio anche nei paesi musulmani. Ma se questa presenza, per quanto esile, viene strappata dal Medio Oriente, poi sarà molto difficile recuperare. Si potrebbe chiamare la nostra sola presenza qui quasi una forma di annuncio silenzioso: si fa conoscere il Vangelo senza predicarlo fuori dalle chiese con le parole. Non c'è da farsi illusioni qui, ma c’è da avere speranza».

Perché quello iraniano, per mons. Bedini, è un grande popolo, che merita grande fiducia, anche se occorre essere realisti: la terra musulmana in generale è una terra difficile: «I primi salesiani andarono in missione in India nel 1922 e oggi là sono più di 2000. Mentre in Medio Oriente siano presenti dal 1892 e siamo sempre qui a “succhiare un chiodo”. Ma restiamo fiduciosi. Perché siamo testimoni di un Altro».

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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