E anche la Londra multietnica e senza più bambini immaginata da uno scrittore inglese è portata sullo schermo da un regista spagnolo. Nelle pellicole più interessanti di questa stagione c'è l'attesa, o il bisogno, di qualcosa di positivo che riempia lo sguardo e il futuro. Non favole sentimentali e viaggi di evasione, ma realtà e fatti dove la speranza possa piantare solide radici.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:45

È l'uomo più politicamente scorretto che l'America abbia conosciuto. È stato arrestato mentre guidava ubriaco. Ha aggredito il poliziotto con insulti antisemiti. Ha sette figli. È stato eletto "uomo più sexy del mondo" da People Magazine. Una volta ha tentato il suicidio. Beve coca-cola. È un cattolico pre-conciliare. Ha vinto due Oscar per Braveheart. Porta stivaletti di serpente. Ha conquistato il mondo con un film in aramaico su Gesù. Sulla lavagna scolastica, Mel Gibson, starebbe in testa all'elenco dei cattivi. E il peggio è che lo sa: «Sento un profondo bisogno di essere perdonato», dice.

È un sentimento che lo definisce, molto più dei miliardi guadagnati con i vari episodi di Mad Max e Arma letale, e che definisce anche i personaggi che crea: «Ho visto un buco nell'uomo», dice Jaguar Paw, protagonista di Apocalypto, «profondo, come una fame che non sarà mai saziata». Magari è soltanto una fragilità in più: ma basta a spalancargli l'orizzonte del genio, un'evidenza che il mondo, pur tra molte e a volte giustificate polemiche, ha dovuto riconoscere da quando, nel 1993, si è spostato dietro la macchina da presa. Per questa ragione, e per molte altre, vale la pena di ascoltare Mel Gibson, australiano autarchico di stanza negli Usa. Se dice che Apocalypto, titolo del nuovo film sulla misteriosa scomparsa dell'Impero Maya, racconta «una storia che ha molte somiglianze con quella che viviamo oggi» dobbiamo credergli. E se traduce la parola "apocalisse" con "nuovo inizio", drizziamo le orecchie: parla di noi, della "rivelazione" che getterà luce nuova su questo millennio già così vecchio: «Anche in una società che finisce dice Gibson c'è una scintilla di vita, una speranza».

La Buona Notizia

È di un nuovo inizio che abbiamo bisogno: ormai è certo, ed è curioso che la fine e il principio, la morte e la rinascita, si identifichino, nei film più carismatici del momento, con la nascita di un bambino. Prendiamo I figli degli uomini, che come film è un po' così ma nasce da una suggestione significativa. Il potente romanzo da cui è tratto, The children of men dell'inglese P.D. James (Mondadori, 1993), inizia con queste parole: «Oggi, tre minuti dopo mezzanotte, l'ultimo essere umano nato sulla terra è rimasto ucciso in una rissa». Nel 2027 non nascono più bambini da vent'anni (attenzione, ci siamo!). Un mondo fatto di regole che hanno smarrito qualunque riferimento alle cose, dittatori e attentati, droghe liberalizzate che aiutano a sopire le ultime domande e kit per l'eutanasia dedicati agli anziani che ancora ricordano come eravamo: le conseguenze di un mondo alla fine. Il film di Alfonso Cuarón aggiorna l'allarme lanciato dal romanzo: fondamentalisti islamici con mitragliette al seguito, immigrati rinchiusi nelle gabbie, bombe che esplodono nel cuore di una Londra multietnica.

Sono le immagini che ogni giorno vediamo in tv, trasportate nell'autunno di una città incolore, a descrivere la "fantacoscienza del presente". Il protagonista ha perso un figlio e il dolore lo ha separato dalla moglie. Il destino gli offre una nuova possibilità con un'immigrata di colore che si scopre incinta, chissà di chi. Per questo bambino, per questa "speranzella" avvolta in panni sudici che ha fame e strilla, il professore stanco darà la vita. Nel romanzo della scrittrice ottuagenaria il finale è più suggestivo, più netto, con la madre che chiede all'uomo di battezzare il neonato: «Il rito riemerse dalla memoria della sua infanzia: bisognava far scorrere l'acqua, pronunciare delle parole. Con il pollice bagnato dalle proprie lacrime e macchiato del sangue della madre tracciò il segno della croce sulla fronte del bambino». La Diga Ideale Va bene, direte voi, ma sempre di Occidente si tratta. Del vecchio, vecchissimo Occidente che non sa dirci nulla di nuovo, sia che racconti del bimbo maya, in fuga con i genitori da un impero che collassa sotto la perdita di senso, o dell'ultimo uomo sulla terra, in un'Europa dove la scienza si è arrogata il diritto di distruggere la vita. Ma altrove? Nel nuovo impero, nella fabbrica del mondo, nella terra che conta tante anime quante l'Europa e l'America insieme moltiplicate per due? Come vanno le cose, a proposito di apocalisse, dalle parti del gigante asiatico, la Cina? Peggio che andar di notte, a giudicare dai film.

Un esempio viene dal film che ha vinto il Festival di Venezia. Per quanto ipercapitalista, la Cina, fino a prova contraria, è ancora comunista. E come la Russia di Stalin, va pazza per le grandi opere che la fanno importante agli occhi del mondo. Ha un sacco di operai a costo zero e ignora allegramente i problemi quotidiani di milioni di persone che abitano da quelle parti. Al centro di Still Life di Zhang-ke la colossale Diga delle Tre Gole: 185 metri di altezza, un invaso di 436 chilometri di lunghezza, 22,15 miliardi di metri cubi d'acqua. Man mano che procede la costruzione scompaiono: un milione di persone, quindici città, centoquindici villaggi. Tra questi, Fenjie, dove un minatore si reca per ritrovare la moglie e la figlia che non vede da quindici anni. Inutile dire che per riscattarle dovrà accettare di arruolarsi come schiavo. Intanto, però, l'acqua che vertiginosamente avanza, che sommerge il paese e annulla le residue identità di un popolo cancellato, è solo una delle tante metafore dell'apocalisse annunciata, antropologica prima ancora che ambientale. Tra il grigio del fango e dell'acqua, delle baracche e del cielo, un bambino canta una canzone: riuscirà la poesia a sconfiggere l'ideologia?

Un Nuovo Inizio

C'è ancora un luogo, tra l'Occidente e l'Asia, cui rivolgerci per trovare una strada: è la Russia, dove il "nuovo inizio" ancora non si vede, anche se la fine dell'impero data ormai quindici anni. «È il laboratorio di quel che accadrà nel mondo» giura Pavel Lounguine, regista de L'isola (Ostrov). Ha contato i monasteri ortodossi riaperti negli ultimi dieci anni: «Sono cinquecento», dice. Un buon segno. Era toccato a lui, nel 1990, esordire con Taxi Blues, un film che raccontava la paranoia e la disperazione legate alla fine di un mondo conosciuto, l'attesa impaurita del nuovo. E lo aveva fatto prendendo a prestito il volto espressivo di una celebre rockstar, Pyotr Mamonov. Nel frattempo, il musicista si è ritirato a fare l'eremita e torna oggi al cinema per raccontare "il bisogno di Dio". La storia del film ricalca un po' la sua: un marinaio russo uccide un superiore durante la seconda guerra mondiale e fugge in un monastero ortodosso, su un'isola di neve e di ghiaccio. Qui si converte e diventa un santo guaritore, uno starec, un "folle di Dio". Nell'inverno freddissimo e grigio che avvolge l'isola inospitale c'è un bambino, anzi, ce ne sono due. Il primo arriva trasportato dalla madre e torna indietro con le sue gambe «Perché Dio esiste». Il secondo non è ancora nato. La ragazza è sull'isola per chiedere una benedizione, un perdono preventivo al peccato che commetterà. «Vuoi una benedizione per uccidere?», urla il monaco mostrandole il pugno. «Eccola, la mia benedizione! Vuoi andare all'inferno e portarci anche me?». «Nessuno mi vorrà con un bambino», piange la ragazza impaurita. «Nessuno ti prenderà senza un bambino», risponde lui. «È già scritto. Avrai un bambino che sarà la tua consolazione. Un bambino d'oro». La ragazza scappa sconvolta: il monaco prende la pala e comincia a scavare nella terra, nel ghiaccio. È un sorriso inatteso, pieno di luce, quello che in primissimo piano gli illumina il volto bruciato dal freddo. Eccolo, il nuovo inizio: cos'altro?

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