Le rivolte del 2011 sono state anticipate da una profonda trasformazione delle società arabe. Alcuni trend, però, ora indicano una variazione di rotta, mentre si profilano all'orizzonte anche gli effetti devastanti della pandemia di coronavirus

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:47

Le rivolte del 2011 sono state anticipate da una profonda trasformazione delle società arabe. In particolare, la diminuzione del tasso di fecondità, a cui è seguito un aumento del tasso di alfabetizzazione, ha indotto una serie di mutamenti che hanno finito per riverberarsi anche a livello politico. Da qualche anno, gli stessi indicatori segnalano una possibile inversione di rotta. Allo stesso tempo si profilano all’orizzonte gli effetti devastanti della pandemia di coronavirus.

 

Questo articolo rischia di diventare rapidamente obsoleto a causa degli imprevedibili sconvolgimenti degli ultimi mesi. La pandemia di Coronavirus che imperversa in tutto il mondo non ha risparmiato il mondo arabo, benché la sua gravità epidemiologica (incidenza di contagio, mortalità, etc.) sia lungi dal raggiungere i picchi toccati altrove, in particolare in America e in Europa. I Paesi arabi si differenziano inoltre per l’intensità con cui sono stati colpiti dalla malattia, alcuni essendo stati meno toccati di altri per ragioni solo parzialmente messe in luce.

 

D’altro canto, se in quest’area la pandemia e la sua mortalità sono state relativamente moderate, le loro conseguenze economiche, sociali e politiche saranno devastanti. Probabilmente più a queste latitudini che nei Paesi sviluppati. Mi pare quindi opportuno, una volta guadagnato un sufficiente distacco, studiare gli effetti della demografia sulle società arabe in tre tempi anziché due: la fase della transizione demografica, quella della contro-transizione e infine quella del ritorno alla transizione, trainata questa volta dalla povertà (poverty-led transition).           

(...)

Demografia ed evoluzione politica

 

L’idea che vi siano delle correlazioni tra demografia ed evoluzione politica non è nuova. Essa ha assunto tutta la sua rilevanza da quando Samuel Huntington, il famoso politologo americano, ha reso popolare il concetto di clash of civilizations (“scontro di civiltà”), collocandolo sin dall’inizio in un contesto conflittuale, e non uno qualunque: l’opposizione tra l’Occidente cristiano e l’Islam più o meno arabo. La demografia rappresentava per lui un asso pigliatutto: «La rinascita dell’Islam è stata alimentata da spettacolari tassi di crescita»,[i] proclama il libro, attribuendo il revival religioso alla potente crescita della popolazione. La demografia esplosiva di musulmani e arabi li renderebbe una progenie separata, diversa dal resto dell’umanità. L’affermazione non è priva di un certo razzismo, simile a quello della penna di Oriana Fallaci, la brillante giornalista italiana per la quale i musulmani «si riproducono come topi»[ii].

 

Eppure la demografia consente di dare un giudizio documentato, lontano dai preconcetti[iii]. Questa disciplina, che con i suoi numeri e le sue curve può sembrare arida, permette in realtà di raggiungere le intimità più profonde del comportamento umano, di misurarlo oggettivamente dalla nascita alla morte delle persone, di mostrare se ci sono differenze fondamentali tra gruppi e di evidenziarne le possibili convergenze o divergenze.

 

Sembra essere la fecondità il criterio demografico che meglio illustra le differenze tra i gruppi, soprattutto tra musulmani e cristiani, arabi e occidentali. La mappa del mondo mostra enormi variazioni: se nell’Africa saheliana una donna mette al mondo una media di quasi sette figli durante la sua vita fertile, in Estremo Oriente si accontenta di 0,9, come nel caso di Taiwan e della Corea del Sud. Una visione semplicistica collocherebbe automaticamente musulmani e arabi all’estremità superiore dell’intervallo di fecondità. Tuttavia, se i musulmani del Niger hanno in media sette figli per donna, quelli dell’Iran – per quanto Repubblica islamica – si accontentano di un 1,7, un dato inferiore ad alcuni Paesi europei. Nel mondo arabo la fecondità, lungi dall’essere omogenea, varia notevolmente da Paese a Paese. È perciò necessario riconsiderare le nostre idee manichee: non esiste un fossato insormontabile tra civiltà, in particolare tra quella musulmana e quella cristiana.

 

La transizione demografica

 

La transizione demografica è una realtà consolidata nel mondo arabo. A partire dagli anni ’70, la fecondità è infatti diminuita in modo significativo. Una rivoluzione demografica che consegue da altre rivoluzioni culturali, mentali, sanitarie, cominciate prima in Europa (da Martin Lutero nel XVI secolo) e poi diffusesi altrove, fino a raggiungere il mondo arabo, dal Marocco all’Oman, mezzo secolo fa. La forza di questa transizione è evidenziata dal grafico 1.

 

Grafico 1: Gli indici di fecondità dei Paesi arabi prima della transizione (a sinistra) e all’alba delle Primavere arabe (a destra)

Fonte: Statistiche nazionali dei Paesi e World Population Prospects delle Nazioni Unite riferito al 2019 e agli anni precedenti. Population.un.org/wpp/DataQuery e United States Census Bureau, census.gov/data.tools/demo/idb/informationGateway.php.

 

Una transizione certamente tardiva, ma sorprendente a giudicare dal numero medio di figli prima della transizione e intorno al 2005-2010. Le implicazioni, soprattutto politiche, di questo cambio di rotta sono molteplici. Un esempio tra tanti: alcuni politologi, sulla scia di Huntington, hanno spiegato la violenza politica del mondo arabo come effetto del suo youth bulge, ossia l’espansione della fascia demografica giovanile: quando nella piramide delle età di una data popolazione aumenta la proporzione di giovani in età “turbolenta”, diciamo tra i 15 e i 24 anni, anche la violenza politica tende ad aumentare. Il grafico 2 illustra questo fenomeno nel Maghreb e nel Levante arabo. La percentuale di giovani è effettivamente passata in alcuni casi dal 15-18% nel 1965 al 22-24% nel 2005. Ma la spiegazione della violenza politica attraverso la crescita demografica viene meno non appena guardiamo l’altra parte della curva, dove si intravede un crollo di questa bolla demografica tra il 2005 e il 2050: è forse scomparsa la violenza politica?

    

Grafico 2: Lo youth bulge nel Maghreb e nel Mashreq dal 1965 al 2050

Maghreb

Mashreq

Fonte: Si veda il grafico 1.

 

Con il profilarsi all’orizzonte di questa nuova demografia, si sarebbe quindi potuto scommettere su un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita. A insostenibili tassi di crescita naturale superiori al 3% all’anno sono seguiti tassi più moderati. Si è parlato di una “finestra demografica di opportunità”, di “miracolo demografico” (in parte esagerando) o più modestamente, di “dividendi demografici”. In effetti, la decelerazione demografica contribuisce all’aumento del risparmio nazionale e degli investimenti (e tra questi, i cosiddetti investimenti economici rispetto agli investimenti demografici). Di qui un aumento del PIL e delle opportunità di lavoro. Alla luce di una minore pressione da parte dei giovani in cerca di lavoro, era realistico prevedere una diminuzione dei disordini sociali e della violenza politica. Il grafico 3 mostra nel caso del Marocco come cambiano gli ingressi lordi e gli ingressi netti nel mercato del lavoro tra il 2005 e il 2030, un esempio che può essere proiettato su altri Paesi arabi.

 

Grafico 3: Ingressi lordi e netti nel mercato del lavoro marocchino, 2005-2030

Fonte: Alto Commissariato al Piano del Regno del Marocco, calcoli dell’autore in base a: Recensements de 2004 et 2014 et Enquêtes nationales sur l’emploi, Rabat, diversi anni.

 

Con una minore pressione degli ingressi nel mercato del lavoro, sarebbe migliorato anche l’accesso delle donne alla vita lavorativa. In una situazione di concorrenza meno feroce, le donne, il più delle volte relegate ai compiti domestici e all’accudimento dei figli, possono infatti trovare più facilmente un posto al di fuori dal tetto coniugale, tranne quando vi si oppongono radicate ragioni culturali.

 

Questa nuova demografia ha anche offerto ai Paesi arabi l’opportunità di colmare il loro ritardo in materia di scolarità, cercando di raggiungere i traguardi di alcuni Paesi un tempo sottosviluppati (come la Corea del Sud), dove il tasso di scolarità terziaria è ora vicino al 75%. I Paesi arabi hanno a lungo sofferto di una crescita inaudita dei bambini in età scolare, per esempio del 4% all’anno in Algeria: un abisso finanziario nel quale l’istruzione assorbe il 10% del PIL e un terzo del bilancio statale. Un altro effetto della transizione demografica è stato l’attenuazione delle disuguaglianze nei Paesi nei quali essa stava raggiungendo il suo apice. Questo può sembrare sorprendente. Tuttavia, prima della transizione (prima degli anni ’70), è noto che i settori poveri della società ricevevano una parte minima del reddito nazionale. Inoltre, ad aggravare le disuguaglianze, questa piccola parte del reddito nazionale doveva essere distribuita tra un numero elevato di persone in ogni famiglia. Il numero di figli per nucleo familiare era infatti molto più alto nelle categorie povere che nelle categorie benestanti a causa del diverso tasso di fecondità. La transizione demografica, estendendosi a tutta la società, ha permesso di livellare la fecondità, con il risultato di ridurre l’abissale divario nel numero medio di figli tra le diverse categorie sociali. Le disuguaglianze sono ancora diffuse in tutti i Paesi della regione, ma sarebbero ancora più acute se la transizione demografica non avesse mai avuto luogo.

 

Il mondo arabo, certamente in ritardo, stava vivendo questo processo universale di aumento del livello di istruzione della popolazione. All’origine di questi sconvolgimenti, si trova senza dubbio il protestantesimo, che ha generalizzato l’accesso alla lettura della Bibbia per tutta la popolazione. Uno degli effetti più inattesi di tale sviluppo è stata la secolarizzazione delle mentalità, che ha prodotto a sua volta una diffusione della contraccezione. L’aumento del livello di istruzione ha portato con sé anche disordini rivoluzionari, come nell’Inghilterra di Cromwell nel XVII secolo e nella Francia di Robespierre nel XVIII secolo. Oggi, le Primavere arabe del 2011 e i movimenti di protesta del 2019, indicano l’universalità di questi mutamenti.

 

L’accesso alla scuola primaria, un fenomeno oramai molto comune, ha accelerato il cambiamento. A questo proposito, il mondo arabo si trova oggi in una buona posizione: i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono alfabetizzati praticamente ovunque e indipendentemente dal sesso. Il grafico 4 lo evidenzia chiaramente, ma mostra alcuni ritardi (per livello di gravità) in Yemen, Mauritania, Marocco e Sudan.

 

Grafico 4: Percentuale di giovani (dai 15 ai 24 anni) per sesso (uomini a sinistra, donne a destra) che sapevano leggere e scrivere all’inizio delle Primavere arabe

Fonte: Dati nazionali e Istituto di statistica dell’Unesco, Literacy Statistics MetaData Information Table, 2015.

 

L’istruzione induce uno spirito per così dire “secolare”. La procreazione diventa un atto volontario, la cui decisione spetta solo alla coppia, senza che sia dettata dal potere, dalla tribù, dall’“antenato” (o... dalla suocera).

 

La transizione demografica comporta il crollo della mortalità, senza il quale la fecondità non sarebbe potuta diminuire in modo duraturo. È così che la speranza di vita nel mondo arabo è quasi raddoppiata dagli anni ’50 del secolo scorso, avvicinandosi ora agli 80 anni per le donne di alcuni Paesi. Tra gli altri suoi benefici, la diminuzione della mortalità ha sicuramente contribuito al declino del fatalismo, tradizionalmente molto diffuso nel mondo arabo. Soprattutto prima del progresso della medicina, l’individuo arabo era lo strumento del qadar (“destino”). Tutto era maktūb (“scritto”): le malattie, le pandemie, gli incidenti, la morte. Con una speranza di vita ormai elevata, oggi ci si sente “immortali”. Si tratta di un’illusione, che però ha il vantaggio di stimolare il morale dell’individuo.

 

Le gerarchie tradizionali sono entrate in crisi. Nella società patriarcale che prevaleva fino a non molto tempo fa, il padre dominava, terrorizzando i suoi figli e soprattutto le sue figlie. Fonte di disagio, egli era spesso analfabeta o scarsamente istruito di fronte a figli sempre più scolarizzati; il marito dettava la sua volontà alla moglie, anche lei molto spesso analfabeta o scarsamente istruita; la sorella doveva obbedienza al fratello. Man mano che si è diffusa, l’istruzione ha prodotto una serie di cambiamenti a cascata all’interno della famiglia, la quale però non è altro che il livello “micro”, la cui metamorfosi si ripercuote e si amplifica al livello “macro”, la società. Gli sviluppi sussurrati hanno inevitabilmente degli echi nella società: l’individuo che mette in dubbio l’autorità del padre sfiderà presto quella del “padre” della nazione (il monarca o il presidente, il più delle volte “a vita”).

 

Ma la transizione demografica, in tutte le sue componenti e con tutti i suoi annessi e connessi non è «un lungo fiume tranquillo». Sicuramente non nel caso dei Paesi arabi. La contraccezione, ormai quasi generalizzata nelle sue forme moderne o tradizionali, consente alla coppia di scegliere il numero dei figli in base alle proprie possibilità materiali. Ma implicando la liberazione del corpo della moglie, le consente di sfuggire al dominio del marito, un effetto che suscita inquietudini non solo in quest’ultimo, ma nella famiglia stessa.

 

Si parla poco della possibile relazione tra una transizione demografica che presuppone una certa dose di emancipazione (come l’emancipazione femminile, in particolare nella sfera sessuale) e i disordini sociali e politici che potrebbero derivarne. Nel mondo arabo si è assistito a una forma di radicalizzazione, soprattutto giovanile, che non è estranea alla transizione demografica e ai suoi presupposti, in particolare l’aumento del celibato forzato. Quest’ultimo ha generato una certa dose di frustrazione sessuale che, nel migliore dei casi, è stata investita in una forma di ritorno al passato (salafismo) e, nel peggiore, nella radicalizzazione politica. Un fenomeno che non è strettamente arabo o islamico, come mostrato nel caso dell’Irlanda cattolica dove i movimenti radicali (Sinn Fein e IRA) si sono nutriti della frustrazione dei giovani.

 

Non bisogna tuttavia esagerare questi atteggiamenti e comportamenti retrospettivi o radicali. Il nuovo modello familiare, con padre, madre e un numero sempre minore di figli, quello della famiglia nucleare, è stato ampiamente accettato. Possiamo spingerci oltre, affermando che alla famiglia numerosa e gerarchizzata del passato corrispondeva un regime politico autoritario. Di conseguenza, il passaggio a una famiglia ristretta appare una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per uscire dall’autoritarismo.

 

Accade spesso, come nel caso dell’Europa o del Nord America, che si evochi lo spauracchio dell’invecchiamento demografico, un effetto indotto dal passaggio a una minore fecondità. Nel caso dei Paesi arabi, si tratta di un rischio enormemente gonfiato per molte ragioni, inclusa la relatività del concetto di invecchiamento: a che età si può qualificare una persona come “vecchia”? Soprattutto, però, le caratteristiche della famiglia araba e la forza dei legami intergenerazionali sono tali che è improbabile che gli anziani siano lasciati a se stessi.

 

Fino agli anni precedenti alle Primavere arabe, il bilancio della transizione demografica è stato ampiamente positivo, con i vantaggi che superavano gli svantaggi. Limitare il numero di figli significa prendersi cura di loro e nutrirli meglio, istruirli fino all’università, dare loro più affetto. La famiglia ristretta consente inoltre rapporti più egualitari tra marito e moglie e tra genitori e figli. Bisogna sottolineare inoltre la metamorfosi conosciuta dall’istituto del matrimonio, che non è più quel vincolo sacro che è stato fino a non molto tempo fa. C’è stata invece l’ascesa del celibato maschile e soprattutto femminile e una forte diminuzione del cosiddetto matrimonio “arabo”, ossia l’obbligo (o la forte raccomandazione) di sposarsi tra cugini germani, o comunque tra parenti, per consolidare il clan. In Marocco, ad esempio, la proporzione dei matrimoni endogamici si è dimezzata tra il 1995 e il 2010, passando dal 30% al 15%. L’esogamia favorisce invece la mescolanza delle popolazioni, necessaria all’avvento di un vero Stato-nazione. Stimola l’apertura dei gruppi sociali l’uno verso l’altro e induce la modernità.

 

La traduzione politica dell’ascesa delle donne nella società si è manifestata all’alba delle Primavere arabe. Da Daraa a Sana’a, le donne hanno dimostrato di essere uscite dalla reclusione plurisecolare. Ben visibili nelle manifestazioni, e non solo in Tunisia o in Egitto ma anche nel lontano Yemen, hanno conquistato le piazze al pari degli uomini. Nel Hirak (il movimento di protesta, NdR) del 2019, prima che la pandemia lo arrestasse, esse erano ancora più presenti, da Khartoum a Bassora passando per Beirut. Uno dei motivi principali dell’ascesa delle donne è l’accesso all’istruzione universitaria ormai maggioritario tra le ragazze. Il grafico 5 mostra infatti che, nella maggior parte dei Paesi arabi, i tassi di scolarità delle ragazze di età compresa tra i 18 e i 24 anni (dunque relativo all’istruzione superiore) superano a volte di molto il tasso di scolarità dei ragazzi.

 

Grafico 5: Proporzione (%) dei giovani (ragazzi a sinistra, ragazze a destra) tra i 18 e i 24 anni che frequentavano l’università, all’inizio delle Primavere arabe

Fonte: si veda il grafico 4.

 

Queste osservazioni ottimistiche potrebbero sembrare ingenue alla luce delle battute d’arresto che si sono verificate un po’ ovunque, con la presa del potere da parte di partiti islamisti o autoritari, per esempio in Tunisia e in Egitto, e Paesi come la Siria e lo Yemen sprofondati nella guerra civile. Non è facile spiegare questi reflussi, ma è certo che i progressi sociali non hanno trovato echi favorevoli a livello politico, dove l’opposizione ai regimi in carica si è spesso dissolta in un pulviscolo di gruppuscoli. Va anche notato che gli arabi hanno conosciuto solo gli aspetti più ripugnanti dei partiti laici o “secolari”: dispotismo, repressione, corruzione.

 

Un’inversione di tendenza

 

C’è stata forse un’inversione di tendenza dopo questa fase favorevole? I Paesi arabi hanno fatto marcia indietro, sul piano demografico e, di conseguenza, a livello politico? Mentre celebriamo il decimo anniversario delle Primavere arabe (iniziate nel dicembre 2010, in Tunisia), possiamo affermare che gli sviluppi hanno risposto alle attese? Per misurare l’andamento della transizione demografica, gli specialisti prediligono il tasso di fecondità, piuttosto che altri indici come la mortalità, i matrimoni o altre unioni (consanguinee o meno). La fecondità è sicuramente l’indicatore che meglio riflette lo stato e le aspirazioni di una società, una sorta di psicoanalisi collettiva. Dopo il riavvicinamento che si è osservato tra il mondo arabo e l’Occidente, gli ultimi anni segnano forse una battuta d’arresto, o addirittura un’inversione di tendenza ricca di implicazioni? Questa ripresa della fecondità è il segno precursore di un cambiamento di mentalità, di una svolta nelle scelte essenziali della vita?

 

I Paesi in fase di “contro-transizione” demografica (aumento del loro indice di fecondità dopo una significativa diminuzione) sono oggi presenti in tutto il mondo arabo. È però necessario trattarli individualmente data la grande eterogeneità dei contesti.

 

Cominciamo con l’Egitto, Umm al-Dunyā (“la madre del mondo”) com’è chiamato dagli egiziani e spesso dagli altri arabi, il più popoloso e per molto tempo il più influente dei Paesi arabi. Con oltre 102 milioni di abitanti residenti e altri dieci milioni sparsi in tutto il mondo, l’Egitto è uno dei Paesi con la più alta densità al mondo se si tiene conto soltanto delle superfici non desertiche: quasi 2.600 abitanti per km2.

 

Grafico 6: La diminuzione e l’aumento del tasso lordo di natalità (per 1000) in Egitto a cavallo delle Primavere arabe (2000-2012)

 

Fonte: CAPMAS, Egypt Statistics, Demographic Birth Rate, https://www.capmas.gov.eg/, 2019.

 

Da un secolo e forse anche di più, le autorità del Paese (politiche e anche religiose), imbevute di modernismo, si preoccupano della forte crescita demografica, consapevoli dell’impellente necessità di ridurre la fecondità della popolazione. Senza molto successo, sotto i Khedivè fino a re Farouk. Solo Gamal Abdel Nasser, con il suo carisma (non privo di umorismo...), era riuscito ad avviare un programma di pianificazione familiare e convincere gli egiziani ad avere meno figli. Ma dopo la sua prematura scomparsa nel 1970, i risultati in questo campo sono stati sempre più flebili. Lo dimostrano gli aumenti dei tassi di natalità e di fecondità. La primavera egiziana, in particolare, ha paradossalmente rallentato il calo della fecondità. Così nel 2015 l’indice di fecondità ha superato i 3,6 figli per donna (secondo l’US Census Bureau, leggermente inferiore secondo la Divisione per la popolazione delle Nazioni Unite). Un tasso altissimo. Tenendo conto delle possibilità materiali del Paese e rispetto al Marocco, il 60% in più; due volte in più rispetto al Libano.

 

In Algeria, il secondo Paese arabo in termini di popolazione, la fecondità è in costante aumento, a prescindere dalla Primavera araba: dal 2,38 alla fine della guerra civile nel 2000-2005 al 3,05 nel 2015-2020.    

 

Grafico 7: L’inarrestabile aumento dell’indice di fecondità in Algeria (2000-2013)

Fonte: Office National de Statistique, Evolution des principaux indicateurs, Algeri, 2019.

 

Quanto alla Tunisia, che dai tempi di Bourguiba è “il modello”, la paladina della transizione demografica della regione e precorritrice delle Primavere arabe, la fecondità è passata da un livello “europeo” nel 2005, 2,02 bambini, a 2,27 nel 2010 e 2,47 nel 2014. Dati che hanno spinto un giornalista tunisino a esclamare: «Aiuto, il tasso di fecondità è tornato a salire!» e sconvolto i demografi del Paese, come se l’aumento della fecondità fosse di cattivo auspicio per la Primavera tunisina. Dal 2014, tuttavia, la tendenza è di nuovo al ribasso. Ma con 2,17 bambini nel 2018, la fecondità è maggiore rispetto a dieci anni prima.

 

Grafico 8: Alti e bassi della fecondità tunisina, 2008-2013

Fonte: Institut National de la Statistique, Indice synthétique de fécondité, https://www.ins.tn/fr/themes/population, Tunisi, 2019.

 

Il Marocco resta l’unico Paese della zona nordafricana ad aver proseguito la transizione demografica, con un tasso di fecondità di 2,21 figli per donna nel 2014. Ma questo risultato non è accettato in maniera unanime alla luce di una recente indagine che lo collocherebbe significativamente più in alto, ossia a 2,38 nel 2018. Un dato che desta qualche preoccupazione in un Paese ben consapevole degli stretti legami tra fecondità e modernità.

 

Sarebbe tedioso passare in rassegna tutti i Paesi arabi per valutare l’effettività della loro transizione demografica all’indomani delle Primavere arabe. A una prima analisi, sembra che dieci di essi abbiano proseguito la transizione, sei abbiano subito un’inversione o la fine della transizione, due stiano vivendo situazioni più complesse con alti e bassi, mentre un Paese (la Libia) è nel caos totale. La maggior parte dei Paesi arabi è quindi ancora in fase di modernizzazione, come dimostrato dalla transizione demografica. Paradossalmente, è nei Paesi apparentemente meno propensi alla modernità demografica che continua la transizione, come l’Arabia Saudita o i piccoli emirati del Golfo: EAU, Kuwait, Qatar, Oman, Bahrain (e Libano, un’eccezione). La fecondità dei cittadini e degli stranieri ha continuato a diminuire nonostante la loro ricchezza senza pari, le loro politiche a favore delle famiglie numerose (nazionali) e il loro desiderio di sostituire le consistenti popolazioni straniere con dei connazionali.

 

La Siria, prima delle Primavere arabe, aveva mantenuto una fecondità molto alta, soprattutto nella sua stragrande maggioranza sunnita, mentre le minoranze religiose continuavano a raccogliere i frutti della transizione. Lo Yemen e l’Iraq (tranne il Kurdistan autonomo) avevano ancora una fecondità elevata, più di 4 figli in media per donna nel 2015, più di 3 in Siria, nonostante la pauperizzazione galoppante; le guerre sono sembrate stimolare la fecondità piuttosto che ridurla. Fino a tempi molto recenti, la Giordania e la Palestina, per ragioni spesso politiche legate all’eterogeneità delle loro popolazioni e alle rivalità che essa induce, mantenevano tassi di fecondità sensibilmente superiori a quelli che sarebbero risultati dai loro livelli di istruzione relativamente alti. In Giordania, giordani “di razza” e palestinesi provenienti dall’esodo delle guerre del 1948 e del 1967 convivono piuttosto pacificamente, il che non esclude differenze nella fecondità. Al contrario, nello Stato palestinese, i palestinesi convivono, male, con i coloni israeliani, insediatisi con la forza in più di 700.000 tra la Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La fecondità di questi ultimi supera quella dell’Africa sub-sahariana e quella della popolazione ebraica di Israele sta aumentando con una regolarità da metronomo, ciò che le consentirà in breve di eguagliare (se non di superare) la fecondità dei palestinesi in Israele e presto in Cisgiordania.

 

Piuttosto che i Paesi, è meglio considerare le loro popolazioni. Si delineerebbe allora una situazione molto diversa, poiché i Paesi come l’Egitto, l’Algeria, l’Iraq, la Siria, nei quali la transizione è “in panne” pesano molto sulla bilancia a causa della loro dimensione demografica: equiparare l’enorme Egitto con il minuscolo Bahrain sarebbe fuorviante. È invece solo una minoranza delle popolazioni arabe, dell’ordine del 40%, che continua a beneficiare della transizione demografica.

 

Quest’osservazione sulle transizioni demografiche arabe può sembrare severa e suggerire un passo all’indietro sulla strada verso la modernizzazione, con un ripiegamento verso la famiglia tradizionale, strutture sociali rigide e, in ultima analisi, regimi autoritari. Tuttavia, l’insistenza sulla fecondità come criterio privilegiato della modernizzazione rischia di ignorare altri criteri, che hanno continuato il loro percorso, come la mortalità (infantile, delle donne in età fertile, degli adulti e degli anziani), con un aumento costante della speranza di vita. Dobbiamo anche tenere conto delle metamorfosi del matrimonio, dell’età media a cui avviene, della consanguineità o meno, del divorzio e del ripudio, tutti criteri la cui evoluzione riflette una certa forma di modernizzazione. È necessario quindi considerare il ratchet effect (“effetto d’arresto”) caro agli economisti, il quale postula che un fenomeno come la transizione democratica può continuare anche se una delle cause iniziali della transizione demografica si è interrotta (temporaneamente).

 

Se si sono verificate delle inversioni di tendenza, o addirittura una contro-transizione demografica, le ragioni di un tale cambiamento sono complesse. Si è chiamato in causa il “ritorno dell’Islam” come una delle ragioni dell’aumento della fecondità. È vero che in Marocco, ad esempio, un primo ministro islamista aveva auspicato il necessario ritorno della donna nel focolare domestico, mentre vicino al mondo arabo, in Turchia, Erdoğan implorava la donna turca di avere almeno 4 figli. Tornando all’Egitto, Paese ufficialmente antinatalista ma dove la fecondità è molto aumentata, colpisce il fatto che la cultura popolare sia invece pro-natalista e sia forte il desiderio di avere molti figli[iv].

 

Senza escludere completamente le spiegazioni relative alla mentalità o all’inconscio collettivo, si deve però tenere conto anche delle realtà materiali che possono far flettere la curva di fecondità in una direzione o nell’altra, in Egitto, ma anche in altri Paesi arabi. Il mercato del lavoro che si era aperto alle donne, sempre più istruite e desiderose di lasciare il focolare domestico, ha avuto una tendenza a chiudersi. Per le donne egiziane più istruite, quelle che hanno frequentato l’università, il tasso di occupazione è letteralmente crollato dal 56% nel 1998 al 41% nel 2012. Per coloro che hanno frequentato solo la scuola secondaria, i risultati non sono certo più soddisfacenti, con una diminuzione dal 22% al 17%. Per le donne analfabete o in possesso della sola istruzione primaria – una piccola parte della popolazione coinvolta – i tassi di attività si sono mantenuti su livelli molto bassi. La traduzione in termini di fecondità è immediata: il ritorno al focolare domestico e l’abbandono della vita professionale favoriscono la ripresa della fecondità, dal momento che l’impiego femminile, insieme e forse anche di più dell’educazione, è il fattore più efficace per il controllo delle nascite. Questa spaccatura, demografica e persino di civiltà, riguarda l’intero mondo arabo. Sempre di più il mercato del lavoro si sottrae alle possibilità delle donne. Il seguente grafico mostra che, su scala planetaria, il mondo arabo è molto indietro rispetto alle altre regioni del globo.

 

Grafico 9: Tassi di occupazione, per sesso, nelle diverse regioni del mondo

Fonte: ILO, The gender gap in employment, what’s holding women back?, 2017.

 

Mentre i tassi di occupazione per gli uomini sono più o meno simili, il tasso di occupazione per le donne è molto basso, intorno al 20%. A titolo d’esempio, è circa il 70% in Estremo Oriente e oltre il 60% nell’Africa subsahariana. Anche il subcontinente indiano, con il 30%, presenta una situazione migliore. È chiaro che si tratta di un problema arabo, non musulmano. L’enorme Indonesia, musulmana al 90%, gode di tassi di attività femminile del 51%, 2,5 volte superiori a quelli dei Paesi arabi e ciò spiega in gran parte la sua transizione demografica e la sua invidiabile performance economica.

 

Alla fine di questo viaggio nella demografia e dei suoi correlati socio-economici e politici del post-Primavere arabe, le conclusioni devono essere obbligatoriamente caute. La stagnazione della transizione demografica, o addirittura la contro-transizione, non sembra di buon auspicio. Si parla persino dell’inverno che avrebbe seguito la Primavera araba: un segno precursore del suo crepuscolo?

 

Un annus horribilis

 

Il 2020 sarà sicuramente l’annus horribilis del mondo arabo. Forse meno che nel resto del mondo dal punto di vista dell’emergenza sanitaria, con 43 morti per milione di abitanti rispetto ai 119 del mondo nel suo complesso. Ma le osservazioni riguardano solo pochi mesi.

 

Tabella 1: Numero di morti per coronavirus al 13 maggio e al 13 settembre 2020 e tasso di mortalità per coronavirus (per milioni di abitanti) nei Paesi arabi (classificati per dimensione)

 

Decessi

Decessi

Decessi per milione di abitanti

Popolazione

Paese

13-mag-20

13-sett-20

13-mag-20

13-sett-20

(milioni)

Egitto

544

5627

5,3

55,0

102,3

Algeria

515

1606

11,7

36,6

43,9

Sudan

80

834

1,8

19,0

43,8

Iraq

112

804

2,8

20,0

40,2

Marocco

188

1578

5,1

42,8

36,9

Arabia Saudita

264

4268

7,6

122,6

34,8

Yemen

10

583

0,3

19,6

29,8

Siria

3

150

0,2

8,6

17,5

Somalia

52

98

3,3

6,2

15,9

Tunisia

45

107

3,8

9,1

11,8

Giordania

9

24

0,9

2,4

10,2

EAU

203

399

20,1

39,5

10,1

Libia

3

362

0,4

52,5

6,9

Libano

26

241

3,8

35,4

6,8

Palestina

2

224

0,4

43,1

5,2

Oman

17

780

3,3

152,9

5,1

Mauritania

1

161

0,2

35,0

4,6

Kuwait

75

560

17,4

130,2

4,3

Qatar

14

205

4,8

70,7

2,9

Bahrain

9

212

5,3

124,7

1,7

Gibuti

3

61

2,7

55,5

1,1

Comore

0

7

0,0

7,8

0,9

Totale

2175

18891

5,0

43,3

436,7

Fonte: John Hopkins Coronavirus Resource Center, 13 settembre 2020 e United Nations, World Population Prospects, per la popolazione.

 

Grafico 10 : Decessi dovuti al coronavirus al 13 settembre 2020 per milione di abitanti

Fonte: Tabella 1

 

L’eterogeneità dei Paesi arabi colpiti dalla pandemia è notevole. La penisola arabica, l’Arabia Saudita e i principati del Golfo sono i più toccati. Il Nord Africa e il Medio Oriente arabo i meno coinvolti. Sarebbe tuttavia presuntuoso dedurre da queste osservazioni sulla diffusione del coronavirus, sulla sua incidenza, sull’eccesso di mortalità causato dal virus, gli effetti sul matrimonio: il celibato di uomini e donne, l’età media, il divorzio, i ripudi e le separazioni e soprattutto la fecondità, che come abbiamo visto è un indicatore demografico privilegiato del destino delle società.

 

Per ragioni complesse, i Paesi arabi includono solo una piccola parte del milione di decessi che si sono verificati finora sul pianeta. Una magra consolazione, perché dall’Iraq al Marocco, il danno economico e sociale è già enorme e senza dubbio aumenterà. Su questo punto c’è unanimità nella comunità scientifica. Il PIL, il risparmio nazionale, gli investimenti (soprattutto i cosiddetti investimenti economici, piuttosto che quelli demografici) diminuiranno bruscamente per molti mesi a venire, se non per i prossimi anni. L’attività economica si ridurrà in tutti gli strati della società e la disoccupazione colpirà duramente. Il turismo, uno dei principali fornitori di posti di lavoro, rimarrà anemico per molto tempo. I numerosi lavoratori immigrati, nei Paesi del Golfo o in Europa, avranno difficoltà a inviare in patria i risparmi sempre più esigui. I Paesi ricchi forniranno sempre meno aiuti economici ai Paesi arabi, i quali ne avranno sempre più bisogno.

 

Potrebbe iniziare così una terza fase della transizione demografica araba, meno gloriosa della prima, quella della transizione guidata dalla povertà. Sempre meno bambini, perché i giovani saranno sempre meno in grado di sposarsi e dovranno ragionare con molta più parsimonia quando si tratterà di mettere al mondo dei figli.

 
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Youssef Courbage, Demografia, famiglia e politica: i tre tempi della transizione araba, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 66-83.

 

Riferimento al formato digitale:

Youssef Courbage, Demografia, famiglia e politica: i tre tempi della transizione araba, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/demografia-famiglia-politica-transizione-araba


[i] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 167.
[ii] Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano 2001.
[iii] Youssef Courbage, Emmanuel Todd, Le rendez-vous des civilisations, Seuil, Paris, 2007.
[iv] Lo testimonia ad esempio il famoso cantante egiziano Shaykh Imām che, sulle parole del poeta Ahmad Fu’ād Najm, aveva celebrato nella sua canzone Sabāh al-khayr la fertilità della donna egiziana, che avrebbe permesso al sole dell’Egitto di continuare a splendere. Shaykh Imām e Ahmad Fu’ād Najm erano di sinistra e laici, ma il loro pro-natalismo non aveva nulla da invidiare a quello dei Fratelli Musulmani.

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