Che differenza c’è tra dialetti e fushā? Secondo il professore Mahmoud al-Batal, per capire e apprezzare entrambi, bisogna considerarli un «tabbouleh linguistico».

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:49

Questo articolo fa parte della serie “L’angolo dei giovani studiosi”, che raccoglie contributi scritti da promettenti neo-laureati a partire dalle loro tesi.

 

Marta Benzoni ha conseguito nel settembre 2020 la Laurea triennale in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore con la tesi “La diglossia della lingua araba: fusha e dialetto, dall'illusione della separazione alla naturalezza dell'interazione”, relatore: prof. Martino Diez.

 

La lingua araba è in pericolo? Secondo una retorica molto diffusa, dannosi “surrogati” corrodono l’arabo dall’interno: i dialetti. La realtà attuale dei social media e delle primavere arabe indica altro, e il metodo di insegnamento della lingua araba di Mahmoud al-Batal tenta di superare il dualismo dialetto-fushā (“arabo classico”).

 

La complessa realtà sociolinguistica araba è spesso concettualizzata nei termini di un’inossidabile dicotomia: dialetti e fushā. I dialetti (‘āmmiyyāt o dārijāt) corrispondono alla lingua orale delle transazioni quotidiane. Tali varietà divergono sulla base di fattori geografici e genealogici e sono spesso considerate come propria lingua madre dai parlanti. L’arabo standard[1] o fushā è invece la lingua formale dell’istruzione e della cultura, che deve il suo prestigio e la sua superiorità all’avvento dell’Islam, per il quale rappresenta la lingua sacra e grazie al quale è stato sistematicamente codificato.

 

Un modello veritiero?

 

La relazione tra queste due realtà linguistiche è stata descritta dal modello di diglossia proposto, ormai più di sessant’anni fa, dallo studioso americano Charles Ferguson[2], e corrisponderebbe a una condizione di coesistenza, all’interno della stessa comunità linguistica, di due varietà: alta e bassa. Esse sono reciprocamente connesse e sono considerate come appartenenti alla stessa lingua, con una delle due varietà, quella alta (fushā), riservata esclusivamente all’utilizzo formale. Questa prospettiva linguistica risulta essere inconsciamente abbracciata anche da molti arabofoni[3].

 

Una didattica radicata nella realtà

 

In realtà, tale modello è stato – e continua a essere – fonte di dibattito in ambito accademico per la definizione di quale sia effettivamente il rapporto tra fushā e ‘āmmiyya. Uno spunto interessante ­e concreto in questo panorama è offerto dal libanese Mahmoud al-Batal, professore di lingua araba all’American University of Beirut e specialista in pedagogia del linguaggio, convinto sostenitore della necessità di integrare il dialetto nell’insegnamento dell’arabo, in quanto elemento imprescindibile.

 

Nel proporre il suo metodo di apprendimento, lontano dai canoni della didattica tradizionale, al‑Batal parte da un dato di fatto: la lingua araba non è divisa in due compartimenti stagni da una «parete di fuoco» (firewall), né i parlanti arabi sono affetti da una particolare forma di «schizofrenia linguistica» (skīzūfrīniya lughawiyya). Piuttosto, questa divisione è frutto di un’ideologia lontana dalla realtà. L’arabo è nei fatti caratterizzato da un’interazione tra le due componenti di un’insalata, anzi di un «tabbouleh[4] linguistico». Secondo al-Batal, il dialetto è un elemento che dà gusto e corpo alla lingua araba, plasma la cultura e la personalità dei suoi parlanti e pertanto non si può prescindere da esso in una comunicazione che si voglia vera e naturale.

 

Una rivoluzione linguistica

 

Un ulteriore elemento di sfida al modello binario classico/dialetti è presentato dai recenti sviluppi legati all’avvento di Internet e dei social media. Tali piattaforme hanno creato nuovi luoghi di scrittura in cui attenersi alla rigida correttezza linguistica della fushā è per molti fuori questione. Esempio lampante sono in questo senso le cosiddette Primavere arabe, in cui la tendenza a porre in questione le formalità e l’autorità si riflette anche nella produzione di slogan scritti e cantati in dialetto, che confermano come su Internet la maggior parte degli utenti si sentano liberi di esprimersi come più naturale per l’occasione.

 

Similmente, nelle rivolte di piazza che hanno investito il Libano a partire dall’ottobre 2019, si è parlato di una «rivoluzione anche linguistica»[5] , con protagonista indiscussa la variante libanese, segnando un deciso cambiamento rispetto ad altre mobilitazioni del passato dove venivano utilizzati principalmente l’inglese o l’arabo standard. Il dialetto è una lingua che il popolo sente propria e che accomuna tutti i vari strati socioeconomici, rinnovando il senso di appartenenza ad un popolo che sembrava irrimediabilmente perduto nei meandri del suo sistema settario.

 

A fianco dei ricorrenti slogan in fushā risalenti alle Primavere arabe del 2011, come al-sha‘b yurīd isqāt al-nizām (“il popolo vuole la caduta del regime”), troviamo infatti motti di conio prettamente libanese, come killon ya‘nī killon (“tutti vuol dire tutti”), rivolto contro la classe politica dirigente e reiterato per specificare che nessun leader politico o locale (za‘īm) è escluso dalla contestazione. L’utilizzo del libanese è inoltre strumento di protesta e opposizione contro le figure politiche e religiose che utilizzano, nei loro interventi, la fushā. Salma Yassine, corrispondente del giornale libanese al-Nahār commenta così il fenomeno che ha investito la lingua araba durante le proteste: «È una riaffermazione da parte del popolo della sua identità pubblica, rappresentata dalla lingua comune di tutti i suoi partecipanti. Non dobbiamo dimenticarci che quando una società reagisce istantaneamente riflette sempre le sue radici e la lingua madre è una di esse»[6].

 

L’approccio teorico del dualismo fushā ‘āmmiyya può quindi essere accettato nel suo riduzionismo solo se si affianca a una sincera osservazione di come la lingua araba, intesa nelle sue diverse varianti, si dipani nella vita di tutti i giorni. Che ‘āmmiyya e fushā esistano è un dato di fatto, ma l’una non tende a sopprimere l’altra in uno slancio “patricida” alla Cesare e Bruto. La lingua è una realtà viva, in continua evoluzione, e l’arabo non fa eccezioni: cercare di contrastare questa dinamica significa andare contro natura. È invece necessario distaccarsi, in parte dalla teoria, e totalmente dall’ideologia, per considerare la realtà così com’è: una commistione tra le due varianti che si integrano a vicenda, a seconda di ciò che si vuole esprimere e conformemente all’attitudine e all’istinto del parlante.

 

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[1] Una versione modernizzata dell’arabo classico, quest’ultimo identificato con la lingua letteraria premoderna, più strettamente legato al Corano e alla tradizione preislamica e medievale, in particolare abbaside.
[2] Charles A. Ferguson, Diglossia, «Word» 15/2 (1959), pp. 325-340.
[3] Si veda Y. Suleiman, Arabic Folk Linguistics: Between Mother Tongue and Native Language, in J. Owens (ed.), The Oxford Handbook of Arabic Linguistics, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 239-250.
[4] Piatto tipico di origine levantina che consiste in un’insalata preparata con diverse verdure (pomodorini, peperoni, cetrioli, etc.) e con il bulgur o “grano spezzato”, un cereale di comune utilizzo nella cucina araba.
[5] Riccardo Paredi, La rivolta libanese in cinque istantanee, data di pubblciazione, /it/libano-proteste-rivoluzione#_ftnref6.
[6] Salma Yassine, The revival of the Arabic language amid the Lebanese revolution,  data di pubblicazione, https://www.annahar.com/english/article/1066287-the-revival-of-the-arabic-language-amid-the-lebanese-revolution.