Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:18:54

Per la prima volta nella storia un primo ministro di Israele si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti. Il premier Naftali Bennett ha infatti incontrato il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed. Al centro dell’incontro le relazioni bilaterali tra i due Paesi dopo la firma degli Accordi di Abramo avvenuta l’anno scorso. «Siamo vicini e cugini, siamo nipoti del profeta Abramo», ha affermato Bennett celebrando l’amicizia tra i due Paesi. Un messaggio evidenziato in maniera chiara anche dal padiglione israeliano a Expo Dubai, come abbiamo scritto qui. Ispi ha sottolineato come gli Accordi di Abramo, voluti da Donald Trump e Benjamin Netanyahu, siano sopravvissuti all’uscita di scena (temporanea?) di due dei leader che li avevano voluti. Tuttavia, una delle intenzioni di Trump e Netanyahu era isolare sempre più l’Iran e la Turchia, e su questo aspetto le cose non sembrano andare esattamente in questa direzione (o meglio, non sembrano essere gli accordi di Abramo ad aver ottenuto questo effetto). La politica estera emiratina, infatti, continua a muoversi sui binari scelti da MbZ. Come ha notato Kristian Coates Ulrichsen, già nella fase finale della presidenza Trump Abu Dhabi avevano «riorientato» le sue relazioni con l’Iran, adottando una posizione che «riflette un tratto profondo e più pragmatico nella condotta della politica estera degli Emirati». Un pragmatismo evidenziato anche dal politologo di Dubai Abdulkhaleq Abdulla che, interpellato dal New York Times, ha affermato: «non ci sono illusioni riguardo a quanto seria sia la minaccia posta dall’Iran. E nonostante questo, è tempo di parlare con l’Iran». A ciò si aggiunge che il pragmatismo emiratino può ora tornare utile anche a Tel Aviv, perché, secondo Abdulla, adesso Abu Dhabi è nella migliore posizione possibile per veicolare messaggi ai due antagonisti.

 

Il nuovo corso nei confronti dell’Iran, prosegue Ulrichsen, si è sostanziato nelle parole del viceministro degli Esteri Ali Bagheri-Kani, che a novembre ha visitato Abu Dhabi e celebrato “cordiali e amichevoli” relazioni bilaterali, e nella recentissima (6 dicembre) visita di Sheikh Tahnoon bin Zayed (consigliere per la sicurezza nazionale emiratina) in Iran. Andreas Krieg rileva su Amwaj Media che Abu Dhabi, con l’apertura nei confronti dell’Iran, il riavvicinamento con la Siria e la Turchia e la parziale ricomposizione della disputa con il Qatar, sta cercando di tornare alla «grande strategia neo-mercantilista che è stata la spina dorsale dei successi emiratini» fino allo scoppio delle Primavere arabe nel 2011. Un approccio che secondo Krieg ha dei limiti: sul fronte commerciali gli Emirati devono districarsi tra le sanzioni imposte a Damasco e Teheran, mentre su quello ideologico rimangono non risolte le differenze con Siria e Turchia.

 

Intanto Abu Dhabi approfondisce la sua alleanza con Parigi, soprattutto in materia di difesa e sicurezza. È proprio di questa settimana la notizia della sospensione dell’accordo con gli Stati Uniti per l’acquisto degli F35 (uno dei risultati degli Accordi di Abramo) anche a causa dei timori americani sull’utilizzo negli Emirati del 5G di Huawei. Ma la notizia è arrivata poco dopo quella relativa a un accordo da oltre 17 miliardi di euro tra Macron e MbZ per la vendita di 80 caccia Rafale e 12 elicotteri Caracal agli emiratini.

 

Una settimana alle elezioni in Libia. Che probabilmente non si terranno

 

Manca soltanto una settimana alle elezioni in Libia, fissate per il 24 dicembre. Se però già da alcuni mesi c’erano forti dubbi sulla possibilità di aprire le urne, questa settimana potrebbe essere arrivato il colpo finale. Mercoledì, infatti, alcune milizie hanno circondato la sede del governo di Tripoli e l’ufficio del premier Abdul Hamid Dbeibah. Stando a quanto riportato da Reuters, la situazione è stata poi risolta senza violenze. Il rinvio delle elezioni non è comunque ancora ufficiale, ma la commissione elettorale ha fatto sapere che non è in grado di comunicare la lista dei candidati ammissibili. Secondo Tim Eaton di Chatham House, finora nessuno ha voluto assumersi la responsabilità di dire ufficialmente che le elezioni non si svolgeranno, per paura di essere ritenuto responsabile del fallimento. Il rischio, ha scritto Karim Mezran sull’Atlantic Council, è che svolgere le elezioni adesso, senza che vi sia un accordo condiviso, finisca per aumentare ulteriormente la violenza nel Paese. È di questa opinione anche Tarek Mitri, ex inviato dell’ONU per la Libia, il quale ha sottolineato che in assenza di «una forza militare unificata le elezioni pongono una minaccia alla pace».

 

Tuttavia, secondo Samy Magdy (AP News) anche la decisione di rimandare le elezioni può risultare estremamente destabilizzante.

Oltre alle questioni legali su cui manca un accordo condiviso, a porre grossi interrogativi è anche il fatto che nella lista dei candidati «figurano alcune delle più controverse persone in Libia». A cominciare da Saif Gheddafi, la cui candidatura, sostiene Mezran, si fa beffe della missione NATO del 2011 e del mandato di arresto che pende sulla sua testa.

 

Stallo nei negoziati a Vienna

 

Proseguono (molto lentamente) i negoziati sul nucleare iraniano. Secondo Reuters le trattive si avvicinano al punto del collasso, mentre l’Iran accusa le controparti di giocare allo scaricabarile.

 

La principale novità arriva però non direttamente dai negoziati, ma da un aspetto che è «parallelo ed essenziale» (definizione del New York Times), ovvero la capacità della Agenzia Internazionale per l’Energia atomica di monitorare le attività nucleare iraniana. Come scriveva infatti Golnar Motevalli su Bloomberg, l’Iran si rifiutava di sostituire le telecamere nel complesso di Karaj, dove sono prodotte parti necessarie per le centrifughe utilizzate per l’arricchimento dell’uranio. Secondo Mohammad Eslami, capo dell’Agenzia per l’Energia Atomica in Iran, era «inaccettabile» che le telecamere venissero sostituite se non fosse stata prima completata l’indagine in merito all’hackeraggio subito dal sistema di vigilanza. Mercoledì, tuttavia, Teheran ha comunicato la sostituzione del materiale. Ma (ed è un “ma” abbastanza significativo), la Repubblica Islamica «continua a impedire agli ispettori delle Nazioni Unite di avere accesso ai video che quelle telecamere producono», ha scritto Steven Erlanger sul New York Times.

 

Teheran intanto ha presentato il nuovo budget statale, che secondo il presidente della Repubblica Ebrahim Raisi non dovrà fare alcun affidamento sull’allentamento delle sanzioni da parte americana. Il Financial Times spiega che il budget iraniano sarà finanziato anche da un aumento delle tasse sui ricchi e da un «modesto incremento nelle vendite di petrolio», che dovrebbero raggiungere 1,2m barili al giorno (comunque meno della metà del livello a cui erano arrivate prima della reintroduzione delle sanzioni nel 2017). Raisi ha delineato i suoi obiettivi economici: stabilità, discesa dell’inflazione dall’attuale 44,4% a un numero a una sola cifra e l’8% di crescita del PIL rispetto al 2021 (anno nel quale il PIL è cresciuto moderatamente, come ha ricordato l’analista Henri Rome).

 

La lira turca sprofonda sotto i colpi di Erdogan

 

Un nuovo record per la lira turca. E purtroppo si tratta ancora una volta di un record negativo: giovedì, infatti, la moneta turca ha perso il 5,6% del suo valore nei confronti del dollaro, dopo che la Banca centrale di Ankara ha tagliato un’altra volta i tassi di interesse, in conformità con la linea imposta dal presidente Recep Tayyip Erdogan. È anche a causa dell’ormai totale controllo sulle scelte della Banca centrale, unita agli arresti arbitrari e alla repressione del dissenso, che secondo Steven Cook la Turchia non può essere definita una democrazia. In questo scenario, ciò che l’opposizione propone è l’abbandono dell’attuale presidenzialismo e il ritorno al parlamentarismo, in modo da «forzare il compromesso, fornire maggiori controlli sul governo e contro gli eccessi di un simil-sultano» come Erdogan. Tuttavia, secondo Cook questo assunto trascura cosa sono stati gli anni ’90 turchi, e ripone eccessiva fiducia sul fatto che un presidente eletto con questo sistema possa decidere di rinunciare a molti dei suoi poteri.

 

Sul fronte della politica estera segnaliamo che la Turchia e l’Armenia hanno nominato due inviati speciali per raggiungere la normalizzazione delle relazioni. Una decisione sicuramente connessa alla scelta di Erevan e Baku di ricostruire l’infrastruttura delle comunicazioni tra i due Paesi protagonisti di una sanguinosa guerra l’anno scorso.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Tunisia: parlamento sospeso fino alla fine del 2022

 

Oggi la Tunisia ricorda l’undicesimo anniversario della Rivoluzione dei Gelsomini dopo che a inizio dicembre il presidente Kais Saied ha deciso di spostarne la celebrazione dal 14 gennaio, giorno della caduta del regime di Ben ‘Ali, al 17 dicembre, data in cui Mohamed Bouazizi si è dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid innescando la rivolta popolare. «Il popolo vuole il miglioramento delle condizioni di vita» titola oggi il quotidiano nazionale tunisino al-Shurūq riprendendo lo slogan della campagna elettorale presidenziale “Il popolo vuole” e, in parte, il motto della Rivoluzione del 2011 («Il popolo vuole la caduta del regime»).

 

Non è infatti una celebrazione particolarmente felice: undici anni dopo la Primavera tunisina, il Paese è di nuovo in un’impasse. Il Presidente ha prolungato la sospensione del parlamento (congelato dal 25 luglio scorso) fino alle prossime elezioni legislative, fissate per il 17 dicembre 2022. In un discorso alla nazione, Saied ha inoltre annunciato una serie di consultazioni popolari che si terranno tra il 1° gennaio e il 20 marzo 2022 in merito ad alcune riforme elettorali e costituzionali da sottoporre successivamente a referendum il 25 luglio 2022, giorno dell’anniversario della proclamazione della Repubblica.

 

Tre partiti della scena politica tunisina – la Corrente democratica, Ettakatol e al-Joumouri – hanno invitato i tunisini a scendere in piazza oggi, nel giorno dell’anniversario della Rivoluzione, per manifestare contro il «governo di un uomo solo» e difendere la democrazia. Secondo il leader di Ennahda, Rashid al-Ghannouchi, la sospensione del Parlamento per un altro anno rischia di aggravare ulteriormente la crisi economica, sociale e finanziaria del Paese. Da questa consapevolezza, condivisa peraltro da diverse personalità politiche tunisine, è nata l’idea dell’“Incontro per la salvezza nazionale”, un’iniziativa volta a riunire tutti i partiti del Paese per formulare un piano di salvataggio del Paese e difendere lo stato di diritto, come ha spiegato ancora al-Shurūq.

 

Anche la Commissione elettorale indipendente tunisina ha espresso il suo disappunto, lamentando l’impossibilità di organizzare il referendum e le elezioni legislative annunciate (unilateralmente e senza previa consultazione) da Saied in un periodo in cui sono già previsti altri due appuntamenti elettorali importanti (le elezioni del Consiglio superiore della magistratura a ottobre 2022 e le elezioni comunali a maggio 2023).

 

Il sito tunisino Kapitalis è tornato invece sul rapporto che lega Kais Saied a Ridha Chihab el-Mekki, detto “Lenin”, attivista politico di sinistra (da qui il soprannome) e ideatore della campagna elettorale presidenziale. Che cosa accomuna queste due personalità in apparenza molto distanti tra loro, si è domandato Mahjoub Lotfi Belhadi? Probabilmente, un’idea di giustizia sociale che Rida “Lenin" ha sviluppato a partire dalle interpretazioni mediorientali del marxismo, le quali a loro volta si rifarebbero addirittura alla setta millenarista dei qarmati sviluppatasi nel IX-X secolo nella parte orientale della penisola arabica.  

 

Gli ultimi sviluppi sono stati commentati anche dalla stampa panaraba. Il quotidiano londinese al-Quds al-‘Arabī ha denunciato le politiche populiste adottate dal presidente tunisino, che attraverso le consultazioni popolari cerca di ammansire la «parte migliore del popolo». Questa, spiega nell’articolo Walid Tlili, è formata dai cittadini che hanno perso la fiducia nei partiti e che Saied sta cercando di strumentalizzare per consolidare il suo potere. Oggi, spiega ancora Tlili, si fa un gran parlare di movimenti populisti sia in Occidente che in Medio Oriente. Ma tra i populismi europei e mediorientali c’è una differenza sostanziale: i primi agiscono all’interno di regole democratiche chiare, mentre i secondi agiscono nella zona grigia e finiscono per aprire la strada alla dittatura.

 

Su al-‘Arabī al-Jadīd, il ricercatore tunisino Anouar Jamaoui ha approfondito il rischio di isolamento internazionale che corre il suo Paese se non viene revocato al più presto lo stato di emergenza. Dal punto di vista politico e diplomatico, negli ultimi mesi la Tunisia ha visto un minore coinvolgimento nei forum internazionali (per esempio non è stata invitata al summit per la democrazia organizzato negli Stati Uniti lo scorso 9 e 10 dicembre). A livello economico, l’incertezza politica si è tradotta nella chiusura di diverse imprese straniere che avevano aperto delle sedi in Tunisia, e nella drastica riduzione dei finanziamenti provenienti dall’estero. Un dato significativo in questo senso è il calo degli aiuti erogati dagli Stati Uniti, passati da 221 milioni di dollari nel 2020 a 51 milioni di dollari nel 2021.

 

Golfo: le monarchie fanno fronte comune sull’economia e sulla difesa

 

Nel frattempo, questa settimana l’Arabia Saudita ha ospitato il 42esimo vertice dei leader dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Secondo l’analisi del ricercatore siriano Marwan Kabalan, sono essenzialmente tre le questioni che le sei monarchie dovranno affrontare nei prossimi anni: il nuovo ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente dopo il ritiro dall’Afghanistan, la crescente rivalità sino-americana nella regione e il suo effetto sul Golfo, la possibilità che i negoziati sul nucleare iraniano falliscano innescando una nuova escalation militare.

 

I termini in cui i quotidiani nazionali dei Paesi del GCC hanno parlato dell’evento sembrano invece riflettere le priorità nazionali. La stampa saudita, per esempio, ha posto l’accento sulla necessità di integrare l’economia e i sistemi di difesa delle monarchie del Golfo.

 

Leggendo la stampa qatarina si ha invece l’impressione che per questo Paese, reduce dalla crisi che l’ha isolato dal resto del Golfo per quasi tre anni, sia prioritaria la questione sicuritaria. Al-Sharq infatti si è soffermato in particolare sul passo della dichiarazione finale del vertice in cui si legge che «qualsiasi aggressione contro uno stato membro equivale a un aggressione a tutto il GCC».

 

Il quotidiano emiratino al-‘Ayn al-ikhbāriyya ha parlato di «una corsa contro il tempo intrapresa dal Consiglio di Cooperazione del Golfo per riposizionarsi a livello regionale e globale» in un mondo in rapido cambiamento. 

 

In breve

 

Nel novembre del 2020 gli Emirati Arabi hanno decriminalizzato il sesso prematrimoniale. Ma a un anno di distanza, scrive AP News, le donne madri non sposate faticano ancora a ottenere i certificati di nascita per i propri figli.

 

Per bombardare i siti nucleari iraniani, Israele necessita della fornitura di aerei per il rifornimento in volo. Ma – si legge sul New York Times, l’amministrazione americana ha comunicato al ministro della Difesa Benny Gantz che le consegne non potranno essere prima del 2024.

 

La Corte di Cassazione di Rabat si è pronunciata in favore dell’estradizione in Cina di Yidiresi Aishan, noto anche come Idris Hasan. Questo militante uiguro si trovava in Marocco dopo essere scappato dalla Turchia, dove non si sentiva più al sicuro e dopo aver tentato invano di raggiungere l’Europa (Saphirnews)

 

A fine novembre, le forze governative etiopi hanno bloccato l’avanzata dei ribelli del Tigray che minacciavano di raggiungere Addis Abeba. Noé Hochet-Bodin, inviato speciale di Le Monde in Etiopia, ha ripercorso i luoghi in cui si sono svolti i combattimenti tra i due fronti.

 

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