Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:39:05

In Iran il Consiglio dei Guardiani ha reso noto che su 596 candidature pervenute (contro le 1636 della tornata precedente) soltanto sette hanno superato il vaglio e sono ammesse alla competizione per la presidenza della Repubblica (qui abbiamo spiegato come funziona il sistema istituzionale iraniano, fatto di organi elettivi e non). Nel primo paragrafo di questo focus attualità proviamo a spiegare che effetto avrà questo processo di veto sul futuro del Paese e delle sue relazioni internazionali.

 

Come ha ricordato Omer Carmi l’elevato numero di squalifiche non è una novità in Iran, ma a sorprendere sono soprattutto i nomi di alcune esclusioni. Il primo dato da osservare è che è stata estromessa la quasi totalità di candidati moderati e riformisti di peso (Eshaq Jahangiri ad esempio, attuale vicepresidente). Ancora più eclatante è però l’esclusione di veri e propri membri dell’establishment come Ali Larijani, speaker del parlamento per dodici anni (conservatore ma con posizioni pragmatiche vicine a quelle dell’attuale governo).

 

La lista dei sette candidati ammessi lascia pensare a una vittoria piuttosto scontata da parte di Ebrahim Raisi, sessantenne chierico conservatore attualmente al vertice del sistema giudiziario iraniano e sconfitto da Hassan Rouhani nelle precedenti elezioni presidenziali. Ma l’altro aspetto su cui influirà (negativamente) il massiccio numero di squalifiche è l’affluenza, da sempre considerata dal regime un parametro molto importante per dimostrare la legittimità popolare del sistema rivoluzionario. Meno affluenza, meno legittimità del regime. Un’equazione il cui significato è certamente noto al Consiglio dei Guardiani, che eppure ha proceduto in questa direzione. Perché? Secondo Hamidreza Jalaeipour, professore all’Università di Teheran interpellato dal Wall Street Journal, il motivo va rintracciato nella vittoria di Rouhani nel 2013. All’epoca il consiglio squalificò il favorito Hashemi Rafsanjani nella speranza di favorire il fronte conservatore, ma a sorpresa uscì vincitore Rouhani, relativamente poco conosciuto fino ad allora: «non pensavano che Rouhani avesse una chance di vincere. Questa volta non vogliono fare lo stesso errore». Garantirsi l’esito delle elezioni sembra più importante che mantenere una parvenza di legittimità del sistema, anche perché – sostiene Carmi, ma anche il sito Amwaj.media – l’elezione alla presidenza della Repubblica potrebbe essere per Raisi soltanto il trampolino di lancio per ottenere il ruolo di Guida Suprema dopo la dipartita di Ali Khamenei.

 

E pazienza, avranno pensato i dodici componenti del Consiglio dei Guardiani, se i candidati approvati offrono agli elettori iraniani la più limitata scelta mai avuta nei quarant’anni di storia elettorale della Repubblica Islamica.  

 

Non mancano però opinioni differenti. Sina Toosi su Responsible Statecraft avanza la tesi secondo cui la squalifica di Larijani potrebbe fare più male che bene a Raisi, perché in caso di vittoria quest’ultimo non apparirebbe come un vero vincitore, ma piuttosto come un nominato dal Nizam (il “sistema”). È per questo, sostiene Toosi, che lo stesso Raisi si è scagliato contro la campagna di squalifiche.

 

Tre dei sette ammessi oltre allo stesso capo del sistema giudiziario si collocano inoltre alla sua destra: dunque non soltanto i pochi riformisti o moderati ammessi non godono dello standing necessario per apparire candidati credibili, ma inoltre è probabile che gli altri conservatori in gara si sfilino dalla campagna elettorale per far confluire i loro voti su Raisi.

 

Il processo è stato “completato” dalla conferma da parte di Khamenei del lavoro di selezione operato dal consiglio dei Guardiani (Reuters).

 

Stratfor si proietta in avanti e immagina un Iran nel quale Raisi è presidente. Cosa significherebbe? In primo luogo che i conservatori iraniani e gli apparati di sicurezza avrebbero il completo controllo sugli organi elettivi iraniani per il prossimo decennio. Questo a sua volta vorrebbe dire avere il controllo su due delicati processi: la gestione del potenziale allentamento delle sanzioni americane e l’elezione (o scelta) di una nuova Guida Suprema.

 

Mentre Teheran si avvicina alle elezioni, lunedì è stato esteso di un mese l’accordo tra l’Iran e l’IAEA per garantire la continuità delle ispezioni ai siti nucleari. La decisione, ha comunicato il Supreme National Security Council iraniano si è resa necessaria «per dare ai negoziatori le necessarie possibilità di fare dei progressi e di raggiungere risultati». Secondo Henri Rome la decisione prova la serietà delle intenzioni iraniane riguardo a un rilancio dell’accordo. Non mancano però i problemi e i dubbi: Teheran non è stata in grado di spiegare infatti a cosa sono dovute le tracce di uranio rinvenute in due siti non dichiarati.

 

Ma il nucleare non è l’unico tema su cui la diplomazia iraniana dovrebbe lavorare. Al contrario, sostiene Alex Vatanka su Foreign Policy, l’acqua è il principale problema per l’Iran ed è dalla gestione delle risorse idriche regionali che dovrebbe partire l’impulso alla collaborazione con i Paesi rivieraschi del Golfo Persico. La scarsità di acqua affligge infatti tanto l’Iran quanto gli altri Stati della regione.

Se le ricche petromonarchie sono più attrezzate per farvi fronte, grazie all’accesso alle più moderne tecnologie per la desalinizzazione dell’acqua marina, ci sono però Paesi come l’Iraq che sembrano sprofondare in una crisi senza fine. Come ha scritto The National la crisi idrica irachena non si deve soltanto a un anno con poche precipitazioni, ma anche al sistema di oltre 20 dighe turche sul Tigri e a quelle iraniane sui suoi tributari. Un tema sul quale, e torniamo al suggerimento di Vatanka, sicuramente la cooperazione multilaterale può avere un effetto positivo.

 

Il continuo peggioramento della situazione in Sahel

 

In Mali i militari hanno arrestato il presidente ad interim Bah N’Daw e il Primo ministro Moctar Ouane. L’arresto è avvenuto poche ore dopo che N’Daw e Ouane avevano svelato un nuovo gabinetto in cui le figure militari vicine al National Committee for the Salvation of the People (CNSP) erano state messe da parte. Il CNSP era stato creato proprio in seguito al precedente colpo di Stato avvenuto ad agosto 2020 e poi accantonato a gennaio 2021 per l’avvio della transizione politica. Come ha fatto notare Aurelien Tobie, all’interno delle forze maliane non si sono verificate defezioni e questo può avere implicazioni opposte: positive, perché questo significa che nel breve periodo probabilmente non ci saranno violenze tra diverse fazioni dell’esercito. Ma anche negative, perché l’unità dell’esercito a sostegno del secondo colpo di stato in un anno mostra che il controllo militare sulle istituzioni politiche maliane è destinato a durare nel tempo. Inoltre, come spiegato dal Soufan Center, il nuovo colpo di Stato “distrae” Bamako dalla lotta contro i gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaida e allo Stato Islamico nel Grande Sahara, con quest’ultimo che sta prendendo piede a Gao e comincia a istituire una sorta di governo ombra nel nord del Mali. È probabilmente anche per questo motivo che il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato il colpo di Stato, che interrompe il processo di transizione del potere verso i civili (France24).

 

Quella espressa da Macron (e dal suo ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian) è una posizione differente da quella assunta dall’Esagono nel caso del Ciad: qui, infatti, dopo la morte del presidente Idriss Déby Itno il presidente francese si era prontamente espresso a sostegno della giunta di transizione militare, pur ponendo almeno ufficialmente alcuni paletti.

 

Questa settimana inoltre il grande esperto della regione Jérôme Tubiana sembra sposare l’ipotesi secondo cui in realtà Déby non sia stato ucciso dal FACT, ma sarebbe morto in seguito alle ferite riportate in uno scontro con un generale della sua stessa etnia, gli zaghawa. Ma soprattutto Tubiana si esprime in maniera molto netta sul Consiglio di Transizione che ha preso il potere immediatamente dopo la morte di Déby: si tratta a tutti gli effetti di un golpe. E la Francia, sostiene ancora Tubiana, è responsabile di quanto sta avvenendo perché mantiene una visione «poco lungimirante e puramente militare [che considera] il Ciad niente altro che un fornitore di truppe per le guerre regionali».

 

Gli Stati Uniti alzano la pressione sull’Etiopia

 

Lunedì il Dipartimento di Stato americano ha deciso di sanzionare l’Etiopia attraverso il taglio di alcuni aiuti e la restrizione all’accesso negli Stati Uniti ad alcuni soggetti etiopi, riporta il New York Times. La causa di questa decisione americana risiede nelle azioni etiopi nel Tigray, come ha spiegato lo stesso segretario Anthony Blinken: nonostante le pressioni internazionali «le parti in conflitto in Tigray non hanno adottato misure significative per porre fine alle ostilità o perseguire una risoluzione pacifica della crisi politica». Non è chiaro a quanto ammontino le sanzioni, ma la scelta di imporle è comunque significativa se consideriamo che l’Etiopia riceve la quota maggiore di aiuti americani tra i Paesi dell’Africa subsahariana ed è un pilastro della politica di Washington nel Corno d’Africa.

 

Nonostante questo, due politici americani, Gregory Meeks e Bob Menendez, quest’ultimo capo della commissione esteri del Senato americano, hanno pubblicato un articolo su The Africa Report in cui chiedono un’azione più dura da parte degli Stati Uniti. Meeks e Menendez sottolineano che sono migliaia i civili morti o feriti e che ci sono report sempre più insistenti che parlano di uccisioni extragiudiziali, massacri, violenze sessuali e altre violazioni dei diritti umani. Inoltre, scrivono Meek e Menendez «questa carneficina non può più essere spiegata come un indesiderato effetto collaterale della guerra». Al contrario, si tratta di una campagna di distruzioni «sistematica ed intenzionale».

 

Il ministro degli Esteri etiope ha risposto alle sanzioni americane affermando che Addis Abeba potrebbe vedersi costretta a riconsiderare le sue relazioni con gli Stati Uniti, un fatto che «potrebbe avere implicazioni al di là delle nostre relazioni bilaterali». Secondo il quotidiano newyorkese questo riferimento è una implicita minaccia di intervento contro gli interessi strategici e diplomatici americani in Paesi come Somalia, Djibouti e Sudan.

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Le elezioni presidenziali in Siria

Le elezioni presidenziali che si sono tenute mercoledì in Siria sono finite esattamente come tutti si aspettavano. Bashar al-Assad, al potere dal 2000, è stato riconfermato alla presidenza per un altro mandato di sette anni.

 

Nei giorni precedenti le elezioni, i siti web della stampa nazionale siriana filo-governativa pullulavano di articoli di propaganda che celebravano la seconda tornata di elezioni presidenziali dallo scoppio della guerra civile. Al-Tishrīn ha riportato le dichiarazioni di alcuni artisti di Latakia, roccaforte della famiglia Assad, che hanno fatto a gara per invitare i cittadini ad andare a votare, perché «le elezioni sono sinonimo di coraggio, arabismo e umanità» e «consacrano la democrazia nazionale». Il direttore dello stesso quotidiano, il 23 maggio ha firmato un editoriale intitolato “State a vedere il miracolo dei siriani” in riferimento alla “prova di democrazia” dei siriani residenti all’estero, in Libano soprattutto, che il 20 maggio si «sono riversati numerosi nelle strade […] del Libano per raggiungere il seggio elettorale presso l’ambasciata siriana a Beirut». Il giornalista ha poi criticato tentativi di alcuni Paesi di «demonizzare le elezioni» mettendone in dubbio la legittimità.

 

Idee simili si ritrovano ovviamente anche su al-Thawra, quotidiano del partito Ba‘ath e portavoce del Governo, il cui direttore ha denunciato «le narrazioni false e fuorvianti attraverso le quali le forze nemiche hanno cercato di distorcere l’immagine della Siria». Così false, verrebbe da dire, che il giorno dopo le elezioni il quotidiano indipendente al-Modoon ha diffuso un video registrato in un seggio elettorale che riprende alcuni scrutatori intenti a compilare le tessere elettorali a nome dei cittadini, i quali devono semplicemente infilarle nell’urna.

 

La prospettiva cambia radicalmente leggendo i giornali non siriani, in particolare quelli più critici verso l’autoritarismo.

 

Al-Arabī al-Jadīd ha titolato “Bashar al-Assad... l’erede fedele della repubblica dell’oppressione e della tirannia”. Con sarcasmo, l’autore dell’articolo ha commentato che Assad «non ha tradito la convinzione dei siriani, secondo i quali nessun cambiamento importante sarebbe intervenuto durante il suo governo, […] che è di fatto un duplicato del governo oppressivo e autoritario del padre». Il giornalista sostanzia la sua tesi facendo un bilancio della presidenza ventennale di Bashar al-Assad, costellata di ricorrenti campagne di arresti di oppositori e attivisti politici, e di insuccessi economici che hanno reso sempre più fragile la società siriana. Il presidente è inoltre accusato di aver consegnato il Paese alle potenze straniere (Iran e Russia) e aver ampliato il divario tra le componenti confessionali ed etniche del Paese, rendendo così più difficile la loro convivenza.

 

Al-Quds al-Arabī ha titolato “La vittoria di Assad e la sconfitta dell’umanità”, denunciando in particolare alcune dichiarazioni rilasciate dal presidente rieletto. Pare infatti che alle critiche dell’Occidente sull’irregolarità delle elezioni, Assad abbia risposto dicendo «il valore delle vostre opinioni è zero, e il vostro valore è dieci volte zero». Parole che, secondo il giornalista, lasciano intendere una volontà di annientamento dell’altro, e che sono ancor più significative essendo state pronunciate da Douma, città in cui nel 2013 le forze lealiste avevano usato armi chimiche contro i ribelli e i civili.

 

Decisamente più prudenti sono stati invece i quotidiani nazionali filo-governativi degli Stati arabi impegnati da qualche mese nel processo di avvicinamento alla Siria, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati. I loro organi di stampa si sono infatti limitati a riportare la notizia della vittoria di Assad senza sollevare particolari critiche.  

 

Tunisia: il Presidente accusato di pianificare un colpo di Stato

 

Alcuni quotidiani arabi hanno ripreso e commentato la notizia diffusa il 23 maggio da Middle East Eye, che affermava di essere entrato in possesso di un documento confidenziale  secondo la quale il presidente tunisino Kais Saied avrebbe cercato di orchestrare un colpo di Stato “costituzionale” ai danni del Primo ministro Hichem Mechichi e del capo del Parlamento Rachid Ghannouchi.

 

Lo stesso giorno, sia al-Shurūq (quotidiano tunisino) che Arabī21 (quotidiano londinese finanziato dal Qatar) hanno pubblicato il testo integrale del documento, datato 13 maggio, e a quanto pare indirizzato alla direttrice del gabinetto presidenziale, Nadia Akacha. Il documento invoca l’articolo 80 della Costituzione del 2014, che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di assumere anche le prerogative del Primo ministro e del capo del Parlamento in caso di situazioni straordinarie di pericolo per la sicurezza e l’indipendenza del Paese. Se messo in atto, questo procedimento consentirebbe di dar vita a una «dittatura costituzionale». Tale meccanismo, che era già previsto dalla Costituzione tunisina del 1959 (ai tempi era stato mutuato dalla Costituzione della quinta Repubblica francese) successivamente è stato mantenuto anche nella Costituzione del 2014. Il documento cita poi una serie di fattori che autorizzerebbero questa manovra, tra cui la cattiva gestione delle risorse finanziarie stanziate per combattere l’epidemia e l’incapacità delle istituzioni di far fronte alla crisi economica, ciò che ha causato il fallimento di molte attività, l’aumento del tasso di disoccupazione e dell’inflazione, e l’impoverimento di intere fasce sociali.

 

Il giorno dopo la diffusione del documento, sono arrivate le prime smentite della sua autenticità da parte di alcuni stretti collaboratori di Saied. Al-Jazeera ha titolato “L’era dei colpi di Stato è finita” riprendendo le parole del consigliere del Presidente tunisino. Anche Ennahda ha in parte assolto la presidenza: il portavoce ufficiale del movimento ha spiegato che il documento «non era segreto e contiene delle vecchie idee» ma non può essere attribuito alla Presidenza del Repubblica dal momento che non è stato redatto dai suoi uffici ma le è stato recapitato. Il giornale emiratino al-‘Ayn ha invece ricondotto la vicenda a manovre dei Fratelli musulmani.

 

In breve

 

Mentre secondo alcune notizie l’Etiopia avrebbe iniziato la seconda fase di riempimento della Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD), Egitto e Sudan hanno dato avvio all’esercitazione militare congiunta “Guardiani del Nilo” (al-Monitor).

 

I legami tra la Cina e gli Emirati Arabi Uniti mettono in discussione la vendita degli F35 che gli Stati Uniti hanno promesso ad Abu Dhabi a margine della firma degli Accordi di Abramo (Wall Street Journal).

 

Il sistema Iron Dome ha intercettato il 90% circa dei razzi provenienti da Gaza. Ma aumentando esponenzialmente il senso di sicurezza degli israeliani, scrive The Atlantic, fa implicitamente diminuire l’incentivo a risolvere i problemi in profondità.

 

Sotto il peso delle difficoltà economiche, in Oman si sono verificate delle proteste: lunedì ci sono stati scontri e arresti, mentre martedì le manifestazioni sono state pacifiche (Associated Press).

 

Sull’isola vulcanica di Mayun nello stretto strategico di Bab el-Mandeb è in costruzione una “misteriosa” base militare: nessuno Stato ne ha rivendicato la costruzione, ma tutti gli indizi portano agli Emirati Arabi Uniti (Associated Press).

 

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