Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:16:42

Dopo aver guidato un assalto a Tripoli lungo 14 mesi e aver dichiarato che la Libia non è pronta per la democrazia – lo ha ricordato Patrick Wintour sul Guardian – il generale Khalifa Haftar ha annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali programmate per il mese prossimo. Nel farlo, il maresciallo ha promesso di lavorare per riportare «gloria, progresso e prosperità» ai libici. Che cosa significano questa candidatura e le altre che vedremo in seguito per il futuro della Libia?

 

Anzitutto occorre osservare che sono proprio le azioni compiute da Haftar negli scorsi anni a rendere problematica la sua figura, il cui sostegno è localizzato in Cirenaica, l’Est del Paese: «gli uomini dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) al suo comando sono stati accusati di crimini di guerra» nel corso dell’avanzata su Tripoli. È improbabile che una sua ipotetica vittoria possa essere accettata proprio dalla popolazione che quei crimini li ha subiti, oltreché dalle milizie della Tripolitania (in particolare dalle forze di Misurata).

 

Haftar non è tuttavia l’unico pezzo da 90 ad aver annunciato la propria candidatura. Alcuni non hanno pressoché alcuna chance di vittoria, ma la corsa alle presidenziali è utile anche per preparare il terreno per le future elezioni parlamentari.

 

Tra i nomi depositati questa settimana per la corsa presidenziale spiccano Saif Al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex dittatore Muammar, Aguila Saleh, speaker del parlamento di Tobruk, e Aref Ali Nayed, capo del partito Ihya Libya nonché ex ambasciatore libico negli Emirati Arabi Uniti. Secondo al-Jazeera, emittente vicino alle istanze di Tripoli, si tratta di «candidature divisive: […] Saif Gheddafi, Haftar e Dbeibah [attuale primo ministro ad interim, la cui candidatura non è ufficiale, NdR] non sono rivoluzionari e nemmeno democratici. Sono populisti nella migliore delle ipotesi, demagoghi nella peggiore», ha affermato Anas Gomati, direttore di un think tank di Tripoli.

 

A ogni modo, la mossa di Gheddafi era attesa «da settimane», ha scritto Jeune Afrique, che ha osservato come a Sebha (capoluogo del Fezzan) e Tobruk l’annuncio della discesa in campo del figlio «preferito» del colonnello sia stata accolta da manifestazioni di esultanza e dalla comparsa della «bandiera verde del regime precedente» alla Rivoluzione del 2011. Il luogo in cui la candidatura è stata festeggiata è un primo indizio del fatto che Saif Gheddafi si troverà a contendere voti proprio alla base su cui fa affidamento anche Haftar nell’Est del Paese. È per questo che «la candidatura di Gheddafi è incontestabilmente un duro colpo per il maresciallo», conclude Jeune Afrique. Tuttavia secondo Tarek Magerisi (European Council on Foreign Relations) non è esclusa una qualche forma di collaborazione tra i due, anche se ancora non è chiaro a quali scopi. Sta di fatto, ha scritto Benoit de La Ruelle, ex attaché militare dell’ambasciata francese a Tripoli, che Gheddafi «è ormai [una figura] imprescindibile del gioco politico libico» e che (copyright Le Monde), cercherà di «capitalizzare una certa nostalgia dell’ordine pre-rivoluzionario». Tutto mentre su di lui ancora pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Il rischio è che la candidatura di un personaggio così simbolicamente evocativo dell’era precedente al 2011 porti al boicottaggio delle elezioni in alcune regioni, facendo crollare un processo elettorale già molto fragile, ha affermato l’analista Wolfram Lacher. Fragile, anzi fragilissimo, ha scritto lo stesso Lacher insieme a Emadeddin Badi sul Washington Post, perché «non esistono salvaguardie istituzionali che assicurino la correttezza del voto: la Libia manca di forze di sicurezza politicamente neutrali, di un sistema giudiziario funzionante e di media indipendenti». Inoltre, non c’è un accordo sulle regole di base della competizione elettorale, ciò che «aumenta il rischio che alcuni oppositori e potenziali sconfitti del voto possano boicottare le elezioni, o impedire che si svolgano nelle aree sotto il loro controllo».

 

La Francia nel frattempo sembra preoccupata dalla persistente influenza di Russia e Turchia in Libia, che non paiono intenzionate a ritirare le proprie milizie dal Paese. Anche perché, si legge sempre su Le Monde la candidatura di Gheddafi figlio potrebbe essere stata incoraggiata proprio da Mosca.

 

Eppure, il Paese guidato da Vladimir Putin non è l’unico a interessarsi attivamente a quanto avviene in Libia: diversi Paesi cercano di veicolare la propria influenza anche attraverso il sostegno a particolari candidati. Gheddafi inoltre non è il solo esponente dell’ancien regime a essersi esposto. Il suo esempio è stato infatti seguito da Béchir Saleh, ex tesoriere di Gheddafi nonché ex capo del fondo sovrano libico, che proprio a Sebha ha depositato la sua candidatura. Una mossa, secondo diverse opinioni raccolte da Jeune Afrique, coordinata con Abu Dhabi. Gli Emirati sembrano dunque giocare su più tavoli, distribuendo il loro sostegno tra diverse figure e non puntando esclusivamente su Haftar: secondo al-Monitor la federazione emiratina si è allontanata dall’Esercito Nazionale Libico di Haftar anche in seguito al parziale disgelo con Ankara, reazione all’insediamento dell’amministrazione Biden. Ed è proprio in Turchia che ci spostiamo per il secondo paragrafo del nostro focus attualità di oggi.

 

In Turchia proseguono arresti, crisi economica e attacchi ai curdi

 

In effetti è almeno da agosto, quando Recep Tayyp Erdogan e Mohammed bin Zayed hanno discusso telefonicamente, che è in corso un prudente riavvicinamento tra Emirati Arabi Uniti e Turchia. Come ha scritto al-Monitor, Ankara ha estrema necessità di attrarre investimenti stranieri e la International Holding Co. (seconda più importante realtà economica di Abu Dhabi) è interessata all’opportunità. La situazione economica in Turchia è infatti parecchio complicata: come scriveva il Financial Times all’inizio di questa settimana, mentre l’inflazione è intorno al 20% e la lira turca si è svalutata del 25% da inizio anno, ci si è chiesti se la Banca Centrale turca avrebbe ulteriormente tagliato il tasso d’interesse. Un’idea singolare proprio di Erdogan, il quale,  «richiamando gli insegnamenti islamici che proibiscono l’usura», ritiene che «alti costi di accesso al credito provochino l’inflazione anziché ostacolarla», ha spiegato Bloomberg. Puntualmente la Banca Centrale (il cui governatore è il terzo nominato da Erdogan in due anni) ha rispettato il mantra presidenziale e giovedì ha tagliato i tassi per la terza volta consecutiva in tre mesi, provocando una ulteriore diminuzione del valore della lira. «Se non vedremo presto un significativo rovesciamento della politica [economica] in Turchia, il Paese sembra destinato ad andare incontro alla terza crisi valutaria dal 2018», si legge su Reuters. L’affermazione è motivata dalla diminuzione delle riserve di valuta estera di Ankara, che oggi si ritrova con molti meno strumenti per difendere la sua moneta.

 

Tuttavia, le questioni economiche non sono l’unico tema che segnaliamo questa settimana dalla Turchia. Le autorità anatoliche hanno infatti arrestato Omar Souleyman, musicista siriano di fama internazionale, nella sua casa a Sanliurfa, vicino al confine con la Siria. L’accusa è quella di terrorismo, motivata dalla presunta appartenenza alle milizie curde YPG che, come ha ricordato al-Jazeera, sono considerate dalla Turchia una estensione del PKK. Sulla base di questa convinzione, negli ultimi tre anni la Turchia ha svolto tre diverse operazioni militari in Siria che hanno portato all’occupazione di alcune aree nel nord del Paese. I curdi rimasti in queste aree sono intimoriti dall’eventualità di un nuovo assalto turco, dal continuo utilizzo di droni armati e soprattutto dalla militarizzazione delle risorse idriche. Amberin Zaman su Al-Monitor ha spiegato di cosa si tratta: la situazione idrica nella regione è già molto grave, con fiumi e ruscelli secchi e i livelli di acqua ai minimi nelle principali dighe, ma la Turchia la sta trasformando in un vero e proprio incubo da quando ha iniziato a usare la stazione di pompaggio dell’acqua di Alouk, su cui contano oltre un milione di residenti della zona, per tagliare i rifornimenti idrici.

 

Accordo tra talebani pakistani e governo. In Afghanistan ci sono i talebani sciiti

 

Grazie anche alla mediazione di Sirajuddin Haqqani (di cui avevamo parlato nel secondo paragrafo di questo focus attualità) il governo del Pakistan ha raggiunto un cessate-il-fuoco di un mese con Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), l’organizzazione talebana locale, nel tentativo di porre fine all’insorgenza che nel corso degli ultimi anni ha provocato numerose vittime. Se l’accordo reggerà, sono previsti nuovi colloqui a inizio dicembre. In caso contrario,  «ci sono ragioni per essere pessimisti» visto che i termini dell’accordo «rimangono opachi e non è dato sapere se il Pakistan abbia promesso di rilasciare prigionieri del TTP», si legge sul sito The Soufan Center, che prevede, in caso di un futuro e più stabile accordo tra Islamabad e i talebani pakistani, la frammentazione di questi ultimi, con i membri più estremisti che potrebbero ingrossare i ranghi dello Stato islamico.

 

Appena al di là della Linea Durand, il tracciato che forma il poroso confine tra Pakistan e Afghanistan, il Washington Post ha intervistato 14 giovani combattenti talebani: provengono da diverse zone del Paese e sono tutti nati tra il 2000 e il 2003. Si tratta perciò di miliziani accomunati dal fatto di non aver vissuto la prima fase della presenza talebana in Afghanistan, ma soltanto i “postumi” dell’11 settembre. Cosa li ha spinti a imbracciare le armi? Dalle interviste emerge come in molti casi le loro scelte siano il frutto di un’educazione distorta (alle volte proprio nelle madrase Haqqani), mentre in altri essi hanno agito in risposta ai raid delle forze occidentali nei loro villaggi, o all’uccisione di alcuni parenti.

 

In Afghanistan gli sciiti, principalmente di etnia hazara, sono un obiettivo sistematico dello Stato Islamico, ma in passato la loro sicurezza è stata minacciata anche dai Talebani. Tuttavia, ora che la stabilità dell’Emirato rischia di essere compromessa dalla presenza di Isis, i Talebani hanno cambiato approccio, nel «tentativo di mitigare le divisioni settarie e posizionarsi come un movimento di liberazione nazionale pan-afghano che ha cacciato gli occupanti stranieri». È in quest’ottica che Yaroslav Trofimov sul Wall Street Journal interpreta la formazione nella provincia di Bamiyan di gruppi di combattenti talebani sciiti che, dal canto loro, sono convinti di assicurarsi in questo modo una maggiore protezione.

 

Timidi passi avanti in Iraq

 

La storia di Mosul è ricca di arte, cultura e anche musica. Ma negli anni bui di Isis e delle organizzazioni jihadiste gli artisti della città sono stati messi a tacere. Qualcosa finalmente cambia, come ha descritto un approfondimento di Newlines Magazine: a Mosul è tornata la musica. E qualcosa cambia anche nella provincia di Anbar: qui infatti la conseguenza inaspettata dell’occupazione di Isis è che, sconfitto lo pseudo-Califfato, le donne hanno cominciato a lavorare e in generale beneficiano di un livello di libertà anche superiore a quanta ne avevano prima dell’arrivo dei miliziani di al-Baghdadi, sostiene il Financial Times.

 

 

Rassegna delle stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Libia, il ritorno di Gheddafi

 

La notizia della candidatura di Sayf al-Islam, figlio di Mu‘ammar Gheddafi, alle prossime elezioni presidenziali libiche ha generato grande costernazione nel pubblico arabo. Ne hanno parlato tutti i quotidiani panarabi anche se è stato probabilmente al-‘Arabī al-Jadīd a trattare il tema più diffusamente.

 

In Libia, l’annuncio di Sayf al-Islam ha scatenato un’ondata di proteste, soprattutto nelle città della parte occidentale del Paese, considerate gli incubatori della rivoluzione scoppiata il 17 febbraio 2011 contro il governo quarantennale di Gheddafi. Su al-‘Arabī al-Jadīd il giornalista marocchino Muhammad Ahmad Bennis ha scritto che la candidatura di Sayf al-Islam, annunciata peraltro dalla città di Sebha (una delle roccaforti del regime del padre), rischia di minare il consenso del generale Khalifa Haftar, anch’egli candidato alle elezioni. Una parte importante della base di Haftar è infatti costituita dalle forze militari dell’ex regime di Gheddafi (almeno il 50%, secondo il sito d’informazione americano al-Hurra), le quali verosimilmente potrebbero decidere di sostenere Sayf al-Islam. Inoltre, secondo Bennis, la candidatura di un membro della famiglia di Gheddafi è sintomatica del ruolo importante che continuano a giocare le tribù e i clan in Libia, e del sostegno di cui ancora gode la tribù dei Gheddafi.

 

L’eredità comune ma anche la rivalità tra i due candidati è stata rappresentata magistralmente in una vignetta pubblicata sempre su al-‘Arabī al-Jadīd, che ritrae il volto di Gheddafi padre da cui spuntano due corna: da un lato compare Sayf al-Islam, dall’altro Haftar.

 

Piuttosto chiara è la posizione del quotidiano londinese al-Quds al-Arabī, che ha titolato “Sayf al-Islam, il prossimo volto della rovina”. Il giornalista giordano Sameh al-Mahariq ha definito la Libia «un Paese perduto o un Paese che forse non è mai stato tale», privo com’è di strutture istituzionali capaci di esprimere le istanze della rivoluzione e tracciare la strada. La candidatura del figlio di Gheddafi altro non sarebbe che «il ritorno di un volto logoro, uno spaventapasseri che ricorda ai libici la devastazione permanente che li circonda».  

 

Al-Jazeera riconduce le dinamiche libiche all’ultima ondata di normalizzazioni tra alcuni Stati arabi e Israele. Il sito dell’emittente qatariota sostiene che la Libia potrebbe essere il quinto Paese a fare lo stesso passo. E cita una serie di fonti israeliane secondo le quali i rapporti tra la Libia e Israele risalirebbero a ben prima della rivoluzione del 2011: mentre Mu‘ammar Gheddafi sosteneva la causa palestinese finanziando e addestrando le loro milizie, il figlio avrebbe intessuto relazioni segrete con gli israeliani grazie alla mediazione di uomini d’affari ebrei di origine libica.

 

Secondo l’ex direttore di al-Sharq al-Awsat, ‘Abd al-Rahman al-Rashid, la ricomparsa sulla scena di Sayf al-Islam è una sorta di ammissione da parte del popolo libico del fallimento della rivoluzione: «se il governo di Gheddafi era il male, ciò che è venuto dopo è stato ancora peggio». La Libia, ha scritto, è un Paese senza speranza, in cui è quasi impossibile trovare un accordo tra le forze in campo. Il figlio di Gheddafi vorrebbe emulare il padre, ma non è detto che il popolo, che pure guarda con nostalgia al passato, voglia davvero riportare in auge l’ancien régime. I regimi di successo, ha concluso al-Rashid, sono quelli che sanno guardare al futuro proponendo un loro modello senza riciclare il passato.

 

Tunisia, stabilità cercasi

 

Venti di tempesta continuano a soffiare anche nella vicina Tunisia, ostaggio di una grave crisi economica, di una società sempre più esasperata e delle tendenze autoritarie del presidente Kais Saied, tornato proprio ieri nell’occhio del ciclone per alcune sue dichiarazioni. Saied si è detto intento a lavorare per «stabilire un calendario per la riforma del sistema politico», aggiungendo che «la gente vuole purificare il Paese», ciò che può avvenire solo «con una magistratura giusta al di sopra di ogni sospetto». Al-Quds al-‘Arabī ha letto in quest’ultima dichiarazione la volontà del presidente di allungare le mani anche sulla magistratura tunisina. Così facendo, però, Saied continuerebbe ad alimentare un circolo vizioso: più autoritarismo politico significa automaticamente minore accesso agli aiuti economici internazionali e quindi minori possibilità di traghettare il Paese fuori dalla crisi economica. E questa non è una bella notizia per un Paese con un disavanzo commerciale di 4,15 miliardi di dollari e il tasso di disoccupazione al 18,4%.

 

La situazione socioeconomica, insomma, preoccupa, e non poco. Per il politologo tunisino Samir Hamdi, la vera bomba a orologeria che minaccia la stabilità del Paese non è tanto il ritorno a un governo autoritario, quanto la crisi economica, l’inflazione, i prezzi altissimi e l’alto tasso di disoccupazione. La capacità di lettura e di risoluzione dei problemi sociali ed economici, ha spiegato Hamdi, è sempre stato il tallone d’Achille dei regimi politici che si sono susseguiti alla guida del Paese dall’indipendenza a oggi. Ed è, molto probabilmente, una delle ragioni principali del fallimento della democrazia tunisina.

 

In breve

 

Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco compiuto a Kampala, in Uganda, nel quale hanno perso la vita almeno tre persone e oltre 20 sono state ferite (Washington Post).

 

Dopo aver proclamato lo stato di emergenza all’inizio di novembre, il premier etiope Abij Ahmed ha lanciato un’ondata di arresti ai danni dei cittadini di etnia tigrina e di chiunque sia sospettato di sostenere le istanze del Tigray (The New York Times).

 

In Sudan continuano le proteste contro il generale ‘Abdel Fattah al-Burhan, autore del colpo di Stato che ha fermato la transizione democratica del Paese. Ieri le forze di sicurezza hanno represso brutalmente i manifestanti causando 15 morti e 100 feriti (al-Monitor).

 

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