Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:34:38

Nel focus attualità di oggi: perchè è importante la morte del presidente ciadiano, il dibattito sul ritiro americano dall’Afghanistan, la crisi tra Francia e Pakistan. Dalla stampa araba un terzetto di approfondimenti tra Siria, Tunisia e mondo sciita.

 

Raramente sentiamo parlare del Ciad. Eppure, questo Paese a sud della Libia è di fondamentale importanza per il controllo sia della minaccia jihadista in Africa che dei flussi migratori. Tendiamo a dimenticarlo, perché generalmente i nostri orizzonti si fermano ai confini libici, ma è soprattutto dalla situazione nel Sahel che dipendono la stabilità e la sicurezza dell’Europa. Rischia perciò di essere gravida di conseguenze la morte del presidente ciadiano Idriss Deby. Appena rieletto per il sesto mandato attraverso elezioni contestate, Deby è deceduto in seguito alle ferite ricevute mentre si trovava al fronte per fermare l’avanzata dei ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT) provenienti dalla Libia. Come ha sottolineato l’ISPI il gruppo armato «aveva oltrepassato le porose frontiere ciadiane l’11 aprile – giorno delle elezioni – con l’obiettivo dichiarato di rovesciare il presidente» e il suo regime autoritario. Deby ha infatti guidato il Ciad per trent’anni «con pugno di ferro, facendo affidamento sul suo piccolo gruppo etnico (2,4% della popolazione, ndr), gli Zaghawa, sulla rendita petrolifera e sul sostegno occidentale, in particolare francese» ha scritto Judd Devermont sul sito del Center for Strategic and International Studies (CSIS). Se Deby era descritto come un “presidente-guerriero” di certo non era in grado di «combattere la miseria umana», fa notare ironicamente il Financial Times. In effetti il Ciad, Paese con circa 16 milioni di abitanti e un territorio grande più o meno quattro volte la Germania, “vanta” un tasso di alfabetizzazione intorno al 22% e un’aspettativa di vita di 53 anni (dati World Bank riferiti al 2016). Inoltre, come ricorda sempre il quotidiano inglese, l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite lo posiziona al 187º posto su 189 nazioni. Come se non bastasse, quanto avvenuto questa settimana fa precipitare una regione già fortemente instabile «in una crisi ancora più profonda», ha scritto la CNN.

 

Gli interrogativi più importanti che affiorano ora riguardano il futuro del Paese e le ripercussioni sull’intera regione. Mentre annunciava il decesso del presidente, l’esercito ha comunicato la sospensione della Costituzione per 18 mesi, lo scioglimento di Parlamento e Governo e il passaggio del potere a un consiglio militare guidato dal figlio di Idriss, Mahmat Idriss Deby, e non, come stabilisce la Costituzione ciadiana, al presidente dell’Assemblea Nazionale. Del resto, sostiene un editoriale di Le Monde, «dopo trent’anni di potere, il defunto autocrate lascia un campo di rovine istituzionali, dal quale dopo la sua morte non poteva che emergere un comitato militare di transizione diretto da uno dei suoi figli». Un potere mantenuto anche grazie al sostegno francese: nel 2019 i caccia bombardieri francesi sono intervenuti per distruggere una colonna di ribelli che dalla Libia era penetrata in Ciad e viaggiava diretta verso la capitale N’Djamena, ricorda l’Atlantic Council. Il Ciad occupa infatti un posto centrale nella strategia di Parigi per la Françafrique, che non a caso ha stabilito proprio a N’Djamena il quartier generale dell’operazione Barkhane.

 

Generale dell’esercito ciadiano, il capo del nuovo consiglio militare ciadiano dirigeva da diversi anni la Direction générale de service de sécurité des institutions de l’État (DGSSIE), cui appartiene anche la guardia presidenziale, spiega Jeune Afrique, che traccia un profilo di Mahmat Idriss Deby, sottolineando come Kaka – questo il suo soprannome – fosse «gli occhi e le orecchie di Idriss Deby nell’esercito e nel clan Zaghawa».

 

Semplice e “tranquillo” passaggio di consegne da padre a figlio in stile monarchico? Non si direbbe. Al contrario esiste il rischio di un nuovo scontro all’interno del Paese. Come infatti si può ascoltare su VOA Afrique, che ha intervistato il generale Idriss Mahamat Abderamane Diko, in Ciad i militari sono divisi: da una parte «l’esercito repubblicano», dall’altra «una piccola cerchia [che] vuole uscire dal quadro legale per compiere un colpo di Stato». È all’interno di questa faglia, scrive l’Atlantic Council, che i ribelli del FACT stanno cercando di inserirsi, chiamando i soldati ciadiani a unirsi alla ribellione e cercando di rassicurare le potenze estere, ad esempio dichiarando il loro supporto alle operazioni del Paese nella regione (in particolare all’operazione Barkhane). Anche per questo il mantenimento del potere da parte di “Kaka” non è scontato: il gruppo etnico di cui fa parte è tutt’altro che coeso nel sostegno alla transizione, mentre la popolazione, che per anni ha sofferto le misure dittatoriali di Deby, si è fatta coraggio nell’ultimo periodo e potrebbe manifestare contro una presa del potere certamente incostituzionale, sostiene ancora Judd Devermont del CSIS.

 

Vale la pena ripetere che quanto accadrà in Ciad avrà delle ripercussioni sull’intera regione saheliana e del bacino del lago Ciad. N’Djamena, come osserva il Financial Times, «è centrale nella lotta contro Boko Haram e altri gruppi jihadisti, inclusi quelli legati a Isis e al-Qaeda che operano nel Sahel». Inoltre, le truppe ciadiane, che anche numericamente sono le più significative tra quelle dei Paesi del G5 Sahel, si sono dimostrate molto più efficaci nel combattere Boko Haram rispetto ai colleghi nigeriani. Il problema della rinnovata instabilità interna riguarda quindi tutta la regione: difficilmente N’Djamena potrà mantenere le sue migliori truppe all’estero se la minaccia alla stabilità interna si farà seria.

 

Per tutti questi motivi – scrive Foreign Policyl’Occidente ha sempre chiuso un occhio nei confronti delle derive autoritarie del Paese. E in effetti l’Eliseo ha salutato l’ex presidente definendolo un «amico coraggioso», riporta Le Monde.

Per completare un quadro già sufficientemente complesso occorre infine ricordare che i ribelli che hanno provocato la morte di Deby non solo arrivavano dalla Libia, ma, come riporta Reuters (ma anche al-Jazeera e il turco TRT), si tratta di alleati del generale Khalifa Haftar, fino a poco fa uomo forte dell’est libico. E – almeno teoricamente – vicino alla Francia.

 

John Bolton contro il ritiro dall’Afghanistan

 

«Riportare le truppe a casa – ha scritto John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale nell’amministrazione Trump, in un controverso editoriale – è un sogno, non una strategia». Sia Trump che Biden starebbero sbagliando sull’Afghanistan perché fondano questa scelta politica su questioni interne e non su considerazioni relative alla strategia per la sicurezza nazionale. Il punto fondamentale nel ragionamento di Bolton è che un Afghanistan in mano ai talebani è una minaccia non solo per gli altri afghani ma soprattutto, dal suo punto di vista, per Washington.

 

Uno dei rischi evidenziati da un altro testo pubblicato da Foreign Policy è che la partenza delle forze NATO possa lasciare l’Afghanistan nella stessa situazione di vuoto politico in cui si è trovato l’Iraq dopo il 2011, quando gli USA si ritirarono proprio su consiglio di Biden solo per vedere quel vuoto riempito dall’ascesa di Isis.

 

Madiha Afzal e Michael E. O’Hanlon sul sito di Brookings sostengono una linea simile a quella del “falco” per eccellenza dell’ex amministrazione Trump: ritirare le truppe dall’Afghanistan è per loro un «major mistake». I due autori di questa analisi, oltre a spiegare che dal loro punto di vista la cancellazione della presenza statunitense sul terreno non porterà alcun vantaggio, nemmeno un risparmio fiscale ai contribuenti americani, diffidano delle intenzioni dei talebani: essi continuano a mantenere legami con al-Qaeda, non si sono sinceramente impegnati nei colloqui intra-afghani e non hanno ridotto le azioni violente contro l’esercito afghano. In poche parole, i talebani non si sono attenuti agli accordi presi a Doha nel febbraio 2020 e – sostengono Afzal e O’Hanlon – per questo motivo neppure gli Stati Uniti sono tenuti a farlo.

 

Opposta l’opinione di Vanda Felbab-Brown pubblicata sempre su Brookings. Felbab-Brown non nega gli esiti potenzialmente negativi del ritiro americano, cioè una rinnovata violenza e la possibile ascesa al potere dei talebani, ma semplicemente afferma l’impossibilità per gli Stati Uniti di invertire questi fenomeni.

Ma cosa succederebbe se i talebani imponessero di nuovo il loro controllo sull’Afghanistan? Secondo John Bolton, con una sorta di effetto domino, questo incoraggerebbe i talebani nel vicino Pakistan, dove anche qualche islamista dei famigerati servizi segreti potrebbe essere galvanizzato. Il Paese, come vedremo nel paragrafo seguente, versa già in gravi difficoltà.

 

Nel frattempo, i negoziati che sarebbero dovuti cominciare in Turchia tra i talebani e il governo afghano sono stati rimandati a dopo l’Eid al-Fitr, festività che segna la fine del mese di Ramadan. Il rinvio deriva dal rifiuto dei talebani di tornare al tavolo negoziale fino a quando in Afghanistan saranno presenti forze straniere.

 

La crisi tra Francia e Pakistan

 

Il Pakistan è un altro dei Paesi che non cattura spesso le attenzioni dei media occidentali, nonostante i suoi 220 milioni di abitanti, l’instabilità che lo caratterizza, la presenza di gruppi islamisti e jihadisti, il sempre latente conflitto con l’India, l’arsenale atomico di cui è dotato, e non ultimo il grande numero di immigrati pakistani presenti in Europa.

 

Dall’autunno scorso è in corso una profonda crisi tra Islamabad e Parigi, mentre in Pakistan i disordini sono all’ordine del giorno. A causa delle azioni del partito islamista Tehrik-e-Labbaik Pakistan (TLP), la settimana scorsa le principali città pakistane, Lahore, Islamabad e Karachi, sono state parzialmente bloccate da manifestanti che pretendevano l’espulsione dell’ambasciatore francese. Undici poliziotti sono stati presi in ostaggio (e poi rilasciati) per fare pressione sul governo, mentre scioperi si sono verificati a Karachi e Lahore.

 

Per comprendere perché stiano avvenendo questi disordini occorre tornare al 3 settembre 2020, quando in occasione dell’apertura del processo per gli attentati jihadisti del 2015, il giornale satirico Charlie Hebdo tornò a pubblicare delle vignette ritenute blasfeme su Maometto, scatenando l’indignazione dei musulmani e un’ondata di manifestazioni in Pakistan. Due mesi più tardi, le parole di Emmanuel Macron in occasione del funerale del professor Samuel Paty gli valsero critiche in tutto il mondo musulmano, insieme ad appelli al boicottaggio di beni francesi. Il presidente pakistano Imran Khan – ricorda Le Monde – ha accusato Macron di «attaccare l’Islam» e le autorità pakistane hanno convocato l’ambasciatore a seguito di una «campagna islamofoba sistematica nascosta dietro alla libertà d’espressione». Il capitolo si è complicato con il tweet di Shireen Mazari, ministra per i diritti umani del Pakistan, che ha scritto «Macron fa ai musulmani quello che i nazisti facevano agli ebrei».

 

Il 12 aprile, mentre manifestava per chiedere l’espulsione dell’ambasciatore francese, il capo di TLP Saad Hussain Rizvi (26 anni) è stato arrestato, scatenando una nuova ondata di violenza, duramente repressa dalla polizia. Imran Khan ha dichiarato fuori legge il partito utilizzando una legge contro il terrorismo, esplicitando però che il problema non è il contenuto delle rivendicazioni di TLP, ma esclusivamente il suo metodo. Precedentemente Imran Khan si era rivolto a tutti i governi occidentali chiedendo di applicare alle caricature su Maometto le stesse restrizioni impiegate contro chi nega l’olocausto.

 

L’Assemblea Nazionale dovrà esprimersi sull’espulsione e questo, sostiene Deutsche Welle, è un tentativo di calmare le acque. Tuttavia questo ripropone un tema lungamente dibattuto riguardo al Pakistan: il governo pakistano è ostaggio di questi gruppi islamisti? L’ambasciatore pakistano in Germania ha naturalmente negato ogni influenza.

 

Ad ogni modo, il voto non si è tenuto, perché l’Assemblea Nazionale ha richiesto prima la formazione di una commissione speciale per indagare il caso. Se da un lato la mossa sembra servire a guadagnare tempo, dall’altro un editoriale pubblicato dal board del quotidiano di Karachi Dawn sottolinea i tanti errori compiuti dal governo Khan (che secondo l’Economist è ormai completamente dipendente dall’esercito), che hanno finito per rafforzare TLP e far pagare un elevato costo diplomatico a Islamabad. Come ricorda Reuters, infatti, la metà dell’export pakistano è acquistato da Paesi dell’Unione Europea.

 

Da dove trae la sua forza questo gruppo islamista, in grado di tenere in scacco il Paese e creare una crisi diplomatica con un importante partner come la Francia?

Secondo il New York Times Imran Khan è in difficoltà per un’economia malmessa, una nuova ondata di contagi da Coronavirus e un crescente malcontento sociale. In questo contesto Tehreek-e-Labaik Pakistan ha potuto prosperare, costruendo in particolare la propria base di sostegno proprio soffiando sul fuoco dei presunti casi di blasfemia. Il quotidiano americano ritiene che TLP ponga una sfida ancora più grave al governo rispetto a quella posta dai talebani pakistani. La base di TLP è infatti composta da membri del movimento Barelvi, «a cui appartiene la maggior parte dei pakistani».

A dimostrare ulteriormente l’instabilità in cui si trova il Paese, ieri a Quetta un’esplosione ha provocato almeno quattro morti e dodici feriti. L’obiettivo potrebbe essere stato l’ambasciatore cinese in Pakistan (indenne), che alloggiava nell’hotel di fronte al luogo dell’esplosione, scrive al-Jazeera.

 

Biden e la Turchia

 

La settimana scorsa abbiamo provato a spiegare quanto gli Stati Uniti si stiano impegnando a tenere la Turchia nel campo occidentale, con Ankara che rispondeva positivamente, ad esempio su un tema come quello ucraino. I segnali però sono contrastanti e Washington sembra usare lo schema del bastone e della carota. Questa settimana è il turno del bastone. Mentre infatti è stata ufficializzata l’espulsione della Turchia dal progetto F35, una crisi si prepara a esplodere tra i due Paesi: secondo quanto riportato dal New York Times, Biden si appresta ad annunciare che le atrocità commesse dai turchi contro gli armeni a inizio ‘900 sono state un “genocidio”. La dichiarazione potrebbe arrivare sabato e siamo sicuri che Erdogan non la prenderà bene.

 

Incontro Arabia Saudita-Iran

 

Mentre a Vienna proseguono i negoziati sul nucleare iraniano per trovare un accordo che permetta il ritorno statunitense nel JCPOA e la rimozione delle sanzioni, dall’Iraq filtra la notizia di un incontro tra sauditi e iraniani, svoltosi grazie alla mediazione irachena. Non ci sono risultati particolari da segnalare (Cinzia Bianco su Limes avverte di non illudersi), ma secondo l’Associated Press nuovi colloqui sono in programma.

 

In breve

 

Il 18 aprile un altro treno è deragliato in Egitto, provocando la morte di 11 persone e il ferimento di 98. Al-Monitor si domanda perché gli incidenti ferroviari in Egitto siano così frequenti.

 

Rabah Karèche, corrispondente in Algeria del quotidiano francofono Liberté è stato incarcerato in Algeria dopo aver scritto un articolo sul malcontento touareg (Le Monde).

 

Violenti scontri a Gerusalemme Est tra estremisti di destra, palestinesi e polizia israeliana. Secondo la BBC ci sarebbero almeno 100 feriti.

 

Il primo ministro designato del Libano, Saad Hariri, è stato a Roma dove ha incontrato Papa Francesco e il presidente del consiglio Mario Draghi (Naharnet).

 

In Giordania la maggior parte delle persone incarcerate nel presunto tentativo di colpo di stato sono state liberate (Washington Post).

 

Nella sala conferenze della grande moschea di Mosca si è svolta una giornata di dialogo interreligioso attorno al testo dell’enciclica Fratelli tutti, con la partecipazione di musulmani, cattolici, ortodossi ed ebrei (La Nuova Europa).

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Tunisia: lo spettro di una nuova dittatura

 

Da diversi mesi la Tunisia è teatro di una crisi politica che ha portato alla paralisi istituzionale. È infatti in corso uno scontro tra il Presidente della Repubblica Kais Saied, il Primo ministro Hichem Mechichi e il capo del Parlamento Rachid Ghannouchi. L’ultimo atto della disputa risale a domenica scorsa quando, nel discorso pronunciato in occasione delle celebrazioni per il 65° anniversario delle Forze di sicurezza interne, il Presidente della Repubblica si è dichiarato comandante in capo non solo dell’esercito ma anche delle forze di sicurezza interne, avocando a sé una prerogativa che l’interpretazione maggioritaria della Costituzione del 2014 conferisce al Primo ministro. Come spiega tra gli altri al-‘Arabiyya, il Presidente tunisino fonda la sua pretesa sul fatto che la Costituzione del 2014 attribuisce genericamente al Presidente della Repubblica la funzione di comandante supremo delle forze armate, senza specificare se con ciò s’intenda soltanto l’esercito o anche le forze di polizia, a differenza della Costituzione del 1959 che invece faceva riferimento specifico alle forze armate militari. Queste dichiarazioni sono destinate ad aprire un nuovo conflitto tra il capo di Stato e di Governo in merito alla separazione dei poteri.

 

Il giurista tunisino Yadh Ben Achour ha spiegato ad African Manager come questa pericolosa ed errata interpretazione (la distinzione tra forze armate militari e civili sarebbe infatti sancita dagli articoli 17, 18 e 19 della Costituzione) apra la strada alla dittatura. Lo stesso timore è condiviso anche da Ennahda, che ha denunciato la «tendenza autoritaria» di Saied accusandolo di violare quella stessa Costituzione sulla base della quale è stato votato. ‘Abd al-Karīm al-Hārūnī, capo del Consiglio consultivo del partito, ha definito dittatoriale il progetto del Presidente e con un gioco di parole ha affermato che Ennahda «non teme il Presidente della Repubblica, ma teme per lui» (al-Sabāh). Le polemiche non sembrano destinate a placarsi nel breve periodo. Il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabī riporta che poche ore dopo il controverso discorso del Presidente tunisino, il parlamentare Rāchid al-Khayārī ha pubblicato su YouTube un video in cui sostiene di possedere le prove di un finanziamento americano da 5 milioni di dollari alla campagna elettorale di Saied. La vicenda proseguirà in tribunale, come ha promesso il responsabile della campagna elettorale del Presidente tunisino.

 

Tributi a Michel Kilo

 

Questa settimana, alcuni quotidiani liberali hanno ricordato l’intellettuale dissidente siriano Michel Kilo, morto di coronavirus il 19 aprile scorso a Parigi, dove viveva in esilio dal 2011. Su al-Arabī al-Jadīd lo scrittore ‘Ammār Dayyūb, suo connazionale, ne ripercorre brevemente il pensiero politico e il contributo intellettuale reso al Paese d’origine in tanti anni di attivismo. Dagli anni ’70, quando le idee di Kilo circolavano attraverso le audiocassette distribuite clandestinamente in Siria, fino agli anni 2000 con la firma della “Dichiarazione dei 99”, sottoscritta da 99 intellettuali siriani che chiedevano libertà e riforme dopo la morte di Hafez al-Asad, e poi, nel 2011, con il sostegno alla Rivoluzione siriana. Ed è proprio ai siriani che Kilo ha dedicato i suoi ultimi pensieri prima di morire. Lo ha fatto in una lettera pubblicata il 9 aprile sempre su al-Arabī al-Jadīd, quotidiano che ospitava regolarmente i suoi editoriali. Il messaggio consegnato ai suoi connazionali è che «soltanto nella libertà c’è la morte della tirannia […] e che la vita senza libertà non ha alcun significato».

 

Burhan Ghalioun, altro storico dissidente siriano, professore di Sociologia politica alla Sorbona e primo presidente del Consiglio siriano di Transizione, ha ricordato «il suo compagno di lotta e amico», come un esempio di patriottismo e umanità, «simbolo della Siria coraggiosa, della Siria libera, della Siria ferita, della Siria trionfante». Anche il quotidiano libanese al-Nahār ha omaggiato l’intellettuale scomparso menzionando il suo impegno per la democrazia in Siria e per l’indipendenza del Libano, in riferimento alla “Dichiarazione di Beirut-Damasco” firmata nel 2006 da alcune centinaia di attivisti e intellettuali siriani e libanesi, tra cui lo stesso Kilo, che chiedevano al governo siriano di rispettare la sovranità libanese demarcando il confine tra i due Paesi e stabilendo relazioni diplomatiche.

 

Sciiti iracheni e libanesi di fronte all’egemonia iraniana

 

Il quotidiano panarabo filo-saudita al-Sharq al-Awsat si interroga sulle ragioni per cui gli sciiti iracheni tendono a protestare più degli sciiti libanesi contro l’egemonia iraniana. Alla domanda risponde, in cinque punti, il giornalista libanese Nadīm Qatīsh. La maggiore reattività degli iracheni sarebbe riconducibile 1) all’alto grado di pluralismo che caratterizza la scena sciita irachena a differenza di quella libanese, monopolizzata da Hezbollah; 2) alla presenza in Iraq dell’Ayatollah al-Sistānī, impegnato a contrastare l’egemonia iraniana nel Paese; 3) al diverso processo di costruzione dell’identità sciita nei due Stati (quella irachena è nata nel solco della guerra Iran-Iraq degli anni ’80, quella libanese si è nutrita della resistenza contro Israele, esponendo qualsiasi attacco alle politiche di Hezbollah all’accusa di tradimento della Resistenza); 4) alla maggiore facilità con cui in Iraq è possibile attribuire il disastro socio-economico all’ingerenza iraniana, mentre in Libano questo nesso è più difficile da dimostrare; 5) alla posizione geografica dell’Iraq, che nel tempo ha consentito agli sciiti iracheni di conoscere meglio il loro vicino iraniano, a differenza degli sciiti libanesi che mantengono una visione stereotipata e romantica dell’Iran. 

 

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