Lo sviluppo e la diffusione del salafismo militante nel Paese dei gelsomini, dagli anni ’80 ad oggi, nel libro di Aaron Y. Zelin

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:12

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Recensione di Aaron Zelin, Your Sons are at Your Service. Tunisia’s Missionaries of Jihad, Columbia University Press, New York 2020

 

Ricercatore presso il Washington Institute For Near East Policy e fondatore del sito Jihadology.net, Aaron Zelin ha raccolto nel suo Your Sons at Your Service: Tunisia’s missionaries of Jihad i risultati di nove anni di ricerca sul caso di Ansar al-Sharia, gruppo jihadista tunisino che ha conosciuto la sua ascesa e declino dopo la rivoluzione dei gelsomini. Scopo principale del volume è comprendere come il jihadismo sia diventato un movimento e un’ideologia di mobilitazione nella Tunisia post-rivoluzionaria. Tuttavia, rispondendo a questa domanda l’autore fa luce anche sul processo di metastatizzazione del jihad globale nell’ultimo decennio e su come i jihadisti tunisini abbiano costituito (e costituiscano ancora) la spina dorsale del fenomeno jihadista transnazionale.

 

Il quadro teorico di riferimento di Zelin attinge a diversi campi di studio, dimostrando la sua profonda conoscenza sia del pensiero salafita e islamista che della teoria dei movimenti sociali, essenziale per comprendere l’organizzazione, le strategie comunicative e le risorse del movimento jihadista. Grazie a questa complessa struttura analitica, l’autore offre una visione a tutto tondo dell’evoluzione del contesto sociopolitico e del jihadismo tunisino, evidenziando come, in maniera quasi ciclica, il fenomeno si sia sviluppato alternativamente in patria, in maniera più o meno clandestina, o tramite le diaspore in Europa, Nord Africa e in Medio Oriente.

 

Partendo da una ricerca storica e documentale approfondita, Zelin conferma l’affermazione di Anne Wolf secondo cui la laicità della Tunisia sia solo un mito, costruito prima da Bourguiba e successivamente alimentato da Bin ‘Ali. Come sottolinea l’autore, «l’Islam costituisce una componente intrinseca della cultura tunisina» (p. 23), e benché le riforme aggressive dell’epoca bourguibiana cercassero di coniugare un Islam “di Stato” con la laïcité di matrice francese, parte della società tunisina ha resistito alla secolarizzazione del Paese. La nascita di al-Jamā‘a al-Islāmiyya nel 1972 per opera di Rachid Ghannouchi e di altri islamisti viene quindi letta come la reazione ai tentativi del governo di monopolizzare la religione.

 

Zelin individua quattro fasi distinte dell’evoluzione del movimento islamista tunisino. A una prima fase di formazione negli anni ’60, in cui l’organizzazione, influenzata dal ramo parigino della Jamā‘a al-Tablīgh con cui Ghannouchi era entrato in contatto, sposò un approccio apolitico e fondato sulla da‘wa (proselitismo) è seguita quella espansiva, grazie alla pubblicazione della rivista al-Ma‘rifa che, proponendo temi culturali e islamici, riscosse un vasto successo nel Paese. La Rivoluzione Iraniana e l’inasprimento del confronto con il regime di Bourguiba inaugurarono una nuova fase di impegno politico del movimento, il quale nel corso degli anni ’80 ha tentato a più riprese di diventare partito politico per partecipare al dibattito istituzionale. I vertici del movimento, divenuto nel 1981 Movimento della Tendenza Islamica (MTI) e successivamente al-Nahda, erano convinti che presto si sarebbero aperti nuovi spazi politici per gli islamisti nel Paese. Come sottolinea Zelin, «l’abilità del MTI di prender parte apertamente alla politica tunisina […] ha posticipato il sorgere di qualsiasi movimento jihadista i cui membri fossero insoddisfatti della corrente islamista» (p. 33). Tuttavia, l’ascesa politica di Ben Ali nel 1987 e il duro giro di vite nei confronti degli attivisti islamici costrinse molti membri dell’organizzazione all’esilio o al carcere, spingendo quelli più estremisti ad imbracciare le armi, sia in patria che all’estero.

 

È questa la fase storica sulla quale l’autore concentra la propria analisi, poiché risulta essenziale per comprendere le risorse organizzative e umane che saranno alla base della fondazione di Ansar al-Sharia nel 2011. A partire dagli anni ’90, infatti, emergono una serie di forme alternative di attivismo islamico più vicine al salafismo rispetto alle fasi precedenti, in cui al-Nahda e Ghannouchi avevano dominato il panorama islamista. Come sottolinea l’autore, nonostante esistesse un salafismo purista e scientifico nel Paese, «la maggior parte dei tunisini salafiti ha sposato la variante jihadista» (p. 38), spingendo molti di loro a partire per unirsi a gruppi jihadisti all’estero o a tentare, con poche possibilità, di combattere il potere centrale in patria.

 

L’analisi di Zelin sullo sviluppo del jihadismo tunisino tra gli anni ’90 e 2000 rivela un movimento salafita non più unitario e localizzato, ma fortemente disperso e attivo su diversi fronti, bellici e non. In questo periodo i jihadisti tunisini partecipano alle guerre in Afghanistan, in Bosnia, in Algeria, e, dopo l’11 Settembre, in Iraq, ricoprendo anche ruoli di leadership in milizie armate. Le ricerche dell’autore hanno messo in luce anche come la diaspora tunisina in Europa abbia rappresentato una risorsa essenziale nell’attivismo jihadista: Milano, per esempio, ha costituito in quegli anni il primo importante centro per il reclutamento di jihadisti tunisini da mandare sul fronte bosniaco o quello algerino, oltre che per la pianificazione di attacchi sul suolo europeo.

 

L’esperienza del jihadista tunisino Sayf Allah Bin Hasin, conosciuto come Abu ‘Iyyad al-Tunisi e fondatore di Ansar al-Sharia nel 2011, è utile a comprendere i network jihadisti transnazionali di cui i militanti tunisini facevano e fanno parte. Secondo le fonti raccolte da Zelin, Abu ‘Iyyad si trasferisce a Londra nel 1994, entrando a far parte della contro-cultura jihadista del Londonistan. Qui diventa studente di Abu Qatada, sostenitore del Gruppo Islamico Armato (GIA) in Algeria, e di Rachid Bukhalfa, rappresentante del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) a Londra. Con quest’ultimo si trasferisce in Afghanistan nel 2000, dove crea il proprio centro di addestramento per foreign fighters tunisini e algerini e fonda il Gruppo Tunisino di Combattenti (TCG). Durante il suo soggiorno in Afghanistan, Abu ‘Iyyad entra in contatto con i maggiori esponenti di al-Qaeda, tra cui Bin Laden, combattendo nelle squadre speciali dell’organizzazione terroristica in diverse battaglie. L’estradizione in Tunisia nel 2003 e la sua incarcerazione non fermano la sua attività, che si rivolge ora alla formazione delle nuove generazioni all’interno delle prigioni tunisine.

 

L’accurata analisi di Zelin della fase “centrifuga” del jihadismo tunisino evidenzia quindi un collegamento diretto tra i militanti tunisini e il terrorismo internazionale. I network europei hanno visto il coinvolgimento di molti di questi jihadisti, che, grazie ai collegamenti e le esperienze maturate negli anni precedenti, partecipano a diversi attentati, tra cui l’attacco alla sinagoga di Djerba in Tunisia nel 2002, quello a Istanbul nel 2003 e quello a Madrid del 2004. I numerosi rimpatri e gli arresti avvenuti tra il 2003 e il 2010 hanno d’altra parte contribuito a mettere in collegamento i jihadisti più inesperti rimasti in patria con quelli che avevano preso parte al jihad internazionale. Sulla base di queste premesse, era prevedibile che una volta caduto il regime di Ben Ali le diverse esperienze di jihadismo sarebbero confluite in un movimento più strutturato. Ma a facilitarne l’ascesa sono state anche le scelte del primo governo di transizione.

 

Secondo l’autore, il «peccato originale» della classe dirigente emersa nel 2011 è stato infatti l’amnistia generale per tutti i prigionieri del regime benalista, che ha concesso la libertà a circa 8700 prigionieri, tra cui «1200 salafiti, inclusi 300 che avevano combattuto in Afghanistan, Yemen e Somalia» (p. 98). Alla disattenzione iniziale del governo si è poi aggiunta la posizione di al-Nahda, forza politica islamista uscita vincitrice dalle elezioni del 2011, nei confronti dei salafiti di Ansar al-Sharia, che grazie all’indulgenza del partito islamista è riuscita a espandere le proprie reti e attività. «Il risultato delle politiche di al-Nahda suggerisce che un approccio più morbido, quando si tratta di gestire i jihadisti, è tanto inefficace quanto le repressioni indiscriminate» (p. 99) ribadisce Zelin, mettendo così in discussione le teorie che vedono nell’indulgenza politica la chiave per contrastare la radicalizzazione jihadista.

 

La grande novità della strategia di mobilitazione di Ansar al-Sharia, che verrà ripreso da diversi gruppi affiliati ad al-Qaeda, è stata la scelta di privilegiare un approccio fondato sulla da‘wa invece che sulla militanza armata. Come sottolinea Zelin, ci sono tre motivazioni alla base di questa scelta strategica: le esperienze del passato, in particolar modo il fallimentare intransigentismo di diversi jihadisti tunisini; la riflessione di pensatori e leader jihadisti, tra cui al-Maqdisi e al-Qurashi, che concepivano il proselitismo come un’azione a lungo termine per costruire lo Stato islamico; infine la consapevolezza che in Tunisia mancasse completamente una reale educazione islamica, motivo per cui la formazione salafita risultava una priorità per evitare l’opposizione della popolazione. L’attenta organizzazione del movimento, l’impegno nel fornire servizi e sicurezza dove lo stato aveva fallito e la sua strategia comunicativa efficace hanno permesso ad Ansar al-Sharia di ottenere un vasto, seppur effimero, consenso. Lo slogan stesso con cui Ansar al-Sharia si presentava, abnā’ukum fī khidmatikum (“i vostri figli sono al vostro servizio”, da cui il titolo il volume di Zelin), voleva ribadire che l’organizzazione «stava lavorando nell’interesse dei tunisini e che loro erano membri della comunità e non persone di un’entità distante e senza volto come il governo centrale» (p. 146). Tuttavia, è stato proprio il tentativo di proporsi come alternativa parastatale in un momento di delicata transizione democratica ad aver decretato il declino del movimento.

 

Il successo raggiunto nel corso del primo anno e mezzo successivo alla rivoluzione si è gradualmente eroso a causa di una serie di processi interni ed esterni al Paese, che hanno determinato il fallimento dell’organizzazione. Tra di essi, spiccano la tendenza sempre più frequente tra le frange più estremiste del movimento a ricorrere alla hisba, il controllo della moralità pubblica, e la crescente paranoia della leadership del movimento, che temeva di vedersi chiudere la finestra di opportunità creatasi dopo la rivoluzione (p.168) a causa della crescente diffidenza da parte del governo guidato da al-Nahda. L’attacco all’ambasciata statunitense nel settembre 2012 ha fatto precipitare la situazione, che si è ulteriormente aggravata dopo l’ondata di omicidi politici nel corso del 2013. La messa al bando dell’organizzazione, decisa dal governo nell’agosto del 2013, ha determinato l’inizio del declino di Ansar al-Sharia.

 

Le svolta securitaria del governo ha innescato un nuovo processo di dispersione dei membri del gruppo. Molti degli attivisti più estremisti, convinti che la strategia della da‘wa fosse diventata ormai inutile, si sono uniti alla brigata ‘Uqba Bin Nafi‘, un gruppo affiliato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico che operava al confine con l’Algeria. Molti altri, come era successo negli anni ’90, partirono come foreign fighters in Siria, Libia e Iraq, per combattere nelle forze del nascente Stato Islamico.

 

L’ultima parte della ricerca di Zelin si concentra sulle politiche messe in atto dal governo tunisino per combattere la radicalizzazione nel Paese e gestire il rimpatrio dei foreign fighters dopo il declino di IS e il fallimento di altri gruppi jihadisti all’estero. Benché la lotta al terrorismo in Tunisia abbia dato risultati effettivi, grazie anche agli aiuti consistenti della comunità internazionale e all’implementazione di programmi promossi dalla società civile e dal Ministero degli Affari Religiosi per combattere la radicalizzazione, la questione dei foreign fighters è stata affrontata in maniera molto superficiale. Il sistema carcerario che prima del 2011 aveva facilitato le connessioni tra jihadisti non è stato adeguatamente riformato e la nuova classe dirigente, di cui al-Nahda fa ancora parte, non ha dimostrato una reale volontà di accettare e gestire i rimpatri dei militanti tunisini provenienti dall’estero.

 

Il futuro del jihadismo tunisino è al momento molto incerto. Il volume di Zelin analizza gli sviluppi fino a metà del 2019, rappresentando quindi una fonte estremamente attuale. Tuttavia, le difficoltà che la democrazia tunisina sta affrontando dall’inizio del 2020 e la situazione regionale ancora instabile potrebbero offrire nuove opportunità ai jihadisti tunisini, che si sono dimostrati attivi sia sul fronte internazionale che su quello interno e capaci di trarre profitto dai momenti critici della transizione democratica del Paese.

 

Per l’accurata analisi storica, il meticoloso lavoro documentale e la lunga e attenta ricerca sul campo, Your Sons are at Your Service risulta una lettura essenziale per chiunque sia interessato al contesto politico tunisino e, più in generale, allo sviluppo del jihadismo dopo le primavere arabe.

 

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