L’Algeria è caratterizzata da un funzionamento autonomo e autoreferenziale. Grazie a varie riforme il “potere” ha saputo adattarsi, ma le proteste del 2019 ne hanno evidenziato i limiti, e hanno proposto un modello di cittadinanza ancora poco strutturato ma difficilmente addomesticabile

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Ultimo aggiornamento: 24/01/2023 10:42:16

Nonostante una retorica incentrata sull’indipendenza nazionale e sulla sovranità popolare, lo Stato nato dall’indipendenza dalla Francia è caratterizzato da un funzionamento autonomo e autoreferenziale. Nel corso del tempo, il “potere” che lo governa è stato messo sotto pressione da crisi di varia natura, ma ha saputo adattarsi alle circostanze attuando riforme di facciata e sacrificando alcuni dei suoi uomini. Il movimento di protesta cominciato nel 2019 ha contribuito a evidenziarne i limiti, proponendo un modello di cittadinanza ancora poco strutturato ma difficilmente addomesticabile.

 

L’8 maggio 2020 il nuovo presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune, ha presentato un nuovo progetto di riforma costituzionale. Elaborata da un comitato di esperti cooptati e sottoposta al parere consultivo di una schiera di partiti screditati, questa nuova proposta di modifica della Costituzione del 1996 ha confermato il ritorno dell’apparato statale a un funzionamento semi-autonomo. Dopo più di un anno di manifestazioni e un’elezione presidenziale mutilata e vinta da Tebboune nel dicembre 2019, la sovranità popolare è sembrata più che mai secondaria. È vero che il nuovo presidente ha voluto un referendum per l’approvazione della riforma, ma solo per trasformare questa consultazione in un plebiscito destinato a rafforzare la sua legittimità, come fece Bouteflika nel 1999 e nel 2005.

 

Il popolo resta quindi un oggetto convocato ritualmente piuttosto che la fonte del potere politico. La classe dirigente algerina non ignora il ruolo centrale che il popolo ha sempre avuto nella tradizione politica nazionale, ma sembra più preoccupata di preservare innanzitutto la capacità dello Stato di agire per conto proprio e per il proprio interesse. Nell’aprile 2019, Abdelaziz Djerad, al tempo semplice politologo, spiegava che qualsiasi rifondazione del sistema politico avrebbe dovuto concentrarsi sugli articoli 7 e 8 della Costituzione, che sanciscono il primato del popolo. Un anno più tardi, Djerad è diventato primo ministro e ha applicato alla lettera il piano d’azione di Tebboune. La sovranità popolare, come al solito, poteva attendere.

 

Dall’inizio degli anni ’80, il sistema politico algerino è attraversato da un processo di costante riconfigurazione, alternando momenti di apertura e di chiusura. Queste trasformazioni avvengono per costrizione, in forza di eventi critici e talvolta drammatici, e sono il risultato delle divisioni interne alla coalizione di governo, di pressioni popolari che occasionalmente assumono la forma di insurrezioni dal potenziale rivoluzionario e di difficoltà economiche persistenti. In questo senso, la fase attuale dimostra la capacità dello Stato di recuperare sistematicamente una forma di autonomia nei confronti della società, mettendo in luce allo stesso tempo l’inadeguatezza dell’élite politica algerina nell’accettare quel cambiamento profondo che attribuirebbe alla popolazione un ruolo politico veramente decisivo. La posta in gioco è pertanto comprendere le ragioni di questa resistenza, ma anche sottolineare i limiti del processo di rafforzamento dell’autonomia statale.

 

Un ordine scolpito dalla crisi

 

La decolonizzazione ha certamente svolto un ruolo cruciale nella tendenza dello Stato algerino a governare in autonomia e secondo i propri interessi. Dopo il 1962, quest’ordine politico circolare, in cui la sovranità dello Stato si autoalimenta, è stato legittimato dall’imperativo di garantire l’indipendenza nazionale. Sotto la leadership di Houari Boumedienne (1965­­-1978), lo Stato algerino ha messo in atto un programma di sviluppo verticistico e burocratizzato. L’Esercito Nazionale Popolare (Armée Nationale Populaire, ANP) e la burocrazia hanno giocato un ruolo centrale nell’attuazione delle politiche pubbliche, con il sostegno del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), diventato un’appendice dello Stato. Intorno a questa triade orbitavano diverse associazioni che servivano da cinghie di trasmissione delle direttive politiche, come l’Unione Generale dei Lavoratori Algerini, mentre anche il settore sociale era subordinato alla tutela dello Stato.

 

Il campo religioso, ad esempio, era organizzato dal Ministro degli Affari Religiosi: gli ulema dovevano così contribuire alle iniziative di sviluppo ripristinando la religione di Stato e la lingua araba, nonostante i loro obiettivi personali differissero spesso da quelli del governo[1]. Malgrado le divergenze persistenti, gli anni di Boumedienne furono un momento di coerenza unico nella storia dell’Algeria indipendente. Il contratto sociale postcoloniale attribuiva ampi poteri ai governanti in cambio della promessa di sviluppo economico, culturale e sociale. La sovranità dello Stato si sostituiva così a quella popolare, mentre la grande autonomia dell’apparato statale che ne è risultata ha modellato l’ethos delle élite militari e burocratiche algerine.

 

Questo momento di coerenza finì con la morte di Boumedienne e la crisi degli anni ’80, quando il governo, di fronte alla ripresa della contestazione politica (islamista e berberista) e al contro-shock petrolifero, procedé ai primi aggiustamenti con una serie di riforme economiche. Queste ultime non impedirono però il deterioramento della situazione politica, innescando un’insurrezione popolare nell’ottobre del 1988. Il sistema politico fu allora completamente stravolto, con l’adozione nel 1989 di una nuova Costituzione e la liberalizzazione del campo politico e di quello mediatico. A questa breve fase d’apertura fece immediatamente seguito un colpo di Stato militare nel gennaio del 1992, in reazione al successo elettorale del Fronte Islamico di Salvezza (FIS).

 

Il decennio nero (1992-1999) dimostra perfettamente i paradossi interni del sistema politico algerino: l’abbandono del sistema a partito unico e il riconoscimento del pluralismo mediatico ebbero come risultato una brutale dittatura militare, in nome della salvezza della democrazia; allo stesso tempo, l’esercizio efferato del potere da parte dei militari e dei loro alleati nella tecnocrazia aprì la strada all’inclusione di nuovi gruppi che erano ai margini della coalizione di governo (milizie di “patrioti”, élite economiche in ascesa, islamisti moderati, confraternite sufi). In sintesi, l’apertura dello Stato avvenne al prezzo di un nuovo ripiegamento dell’entità statale su sé stessa, mentre la “democratizzazione” fu messa in atto in maniera autoritaria e violenta.

 

Di fatto, ognuno degli episodi di forte crisi attraversati dal sistema politico algerino ha innescato questo doppio movimento, come se le élite al potere riconoscessero la legittimità di un’apertura negando allo stesso tempo alla propria popolazione gli strumenti per partecipare effettivamente al governo. Gli anni 2010-2011 hanno visto una nuova successione di momenti di tensione, prima con una serie di scandali di corruzione che hanno toccato i piani alti dell’entourage presidenziale, poi con la replica in Algeria dell’insurrezione tunisina. Tra gennaio e aprile 2011, la coalizione di governo ha affrontato una rivolta urbana, la creazione di un’ampia formazione d’opposizione e una mobilitazione studentesca senza precedenti.

 

Di fronte a queste pressioni, Bouteflika ha annunciato immediatamente una serie di iniziative a favore dei giovani, la revoca dello stato di emergenza in vigore dal 1992 e diverse riforme, che sono state applicate ancora una volta in maniera verticistica, sotto il controllo della presidenza, della burocrazia e dell’esercito. Queste riforme garantivano maggiore libertà e al contempo spianavano la strada a nuove forme di controllo. La nuova legge organica sull’informazione, ad esempio, depenalizzava i reati di stampa, mantenendo però pesanti forme di censura in nome della sicurezza nazionale[2]. Allo stesso modo, la riforma che mirava ad assicurare una presenza femminile nell’Assemblea Popolare Nazionale è stata dettata dall’alto. Questo femminismo di Stato serviva a mettere in luce il ruolo modernizzatore e riformatore del governo, senza che quest’ultimo coinvolgesse o anche solo consultasse la società[3].

 

In questa prospettiva, gli sforzi di Tebboune per promuovere una nuova riforma costituzionale e le dichiarazioni di Djerad a favore della sovranità del popolo s’inseriscono in una lunga tradizione di riformismo verticistico, burocratico e autoritario. Sin dall’inizio del Hirak (il movimento di protesta del 2019, NdR) e come già successo in passato, la coalizione algerina al governo ha agito in risposta alle pressioni. Le politiche destinate a favorire la partecipazione della popolazione confermano l’esclusione di fatto di quest’ultima. Le riforme non risolvono i problemi, ma sono un modo per esercitare un dominio. Inoltre, se i precedenti momenti di crisi avevano portato all’inclusione di nuovi gruppi nella coalizione al potere, l’insurrezione del 2019 l’ha in un certo senso liberata dei suoi fronzoli. Militari e tecnocrati governano oramai soli e in questo momento sono tornati a una forma di autonomia avanzata che ricorda gli anni ’70, quando il mito della loro benevolenza stava ancora in piedi.

 

Un corpo con molte teste

 

Questo ripiegamento verso il cuore dello Stato testimonia l’eterogeneità e la labilità della struttura di potere in Algeria. Ciò che viene definito come “potere”, nizām (sistema) o ‘isāba (cricca) è infatti una coalizione diversificata e difficile da decifrare, organizzata intorno allo Stato, fondata sulla legittimità rivoluzionaria e finanziata dallo sfruttamento delle risorse naturali del Paese. Sotto Bouteflika, coesistevano diversi circoli di élite, che mantenevano un equilibrio precario e gestivano, bene o male, un’instabilità permanente strumentalizzando varie dinamiche sociali ed economiche[4]. Per far fronte alle pressioni interne ed esterne, questa coalizione ha fatto della cooptazione uno dei suoi pilastri strategici. Allo stesso tempo i conflitti tra élite dirigenti e i momenti di tensione più intensi l’hanno portata a separarsi dai suoi vertici apparenti per durare di più. Come un’idra, il “potere” è sopravvissuto a frequenti amputazioni, dimostrando considerevoli capacità di rigenerazione.

 

Le figure periferiche integrate nella coalizione di governo sono rimaste, nel susseguirsi degli episodi di liberalizzazione economica e di riforma politica, le più facilmente sostituibili. Gli uomini d’affari e i partiti politici che a partire dagli anni ’80 si sono innestati sulla struttura di potere sono stati sacrificati in maniera ricorrente. Tra il 2002 e il 2004, imprenditori dalla traiettoria meteorica hanno fatto le spese di una serie di scontri la cui posta in gioco era il rafforzamento del potere presidenziale. Questi gold-boys sono decaduti tanto velocemente quanto rapidamente erano ascesi al potere, vittime di regolamenti di conti giudiziari organizzati dalla presidenza. In maniera simile, nel pieno dell’insurrezione del 2019, la macchina giudiziaria, ormai agli ordini dell’esercito, se l’è presa con gli “affaristi” vicini a Said Bouteflika, fratello del presidente. Alcuni degli uomini più ricchi del Paese, come il magnate delle opere pubbliche Ali Haddad o quello dei trasporti Mahieddine Tahkout, sono stati condannati a pesanti pene detentive.

 

Ma la coalizione algerina al potere ha saputo sbarazzarsi all’occorrenza delle sue figure più illustri, in seguito a un regolamento di conti o per sopravvivere. Il colpo di Stato militare del gennaio 1992 portò all’annullamento delle elezioni legislative, ma anche alle dimissioni forzate del presidente Chadli Bendjedid, colpevole di aver accettato di negoziare con gli islamisti. Forte del sostegno di diversi gruppi mobilitati per impedire l’ascesa del FIS, lo stato maggiore dell’ANP sostituì il presidente destituito con un Alto Consiglio di Stato (HCE) incaricato di guidare il Paese durante la guerra civile e di estirpare la “minaccia fondamentalista”.

 

Liamine Zeroual, un generale in pensione, prese il comando del HCE nel 1994 e venne eletto presidente l’anno seguente, per essere a sua volta indotto a indire elezioni anticipate nel 1998. Sospettato di voler farsi avvicendare dal suo fidato consigliere Mohamed Betchine senza l’approvazione dell’ANP, si trovò a fare i conti con una campagna mediatica e giudiziaria orchestrata dai suoi avversari. Alla fine del marzo 2019 è toccato quindi ad Abdelaziz Bouteflika dimettersi su esplicita richiesta del capo di stato maggiore. Dopo aver sostenuto il presidente, divenuto ormai impotente nel corso degli anni, il comando militare ha preso l’iniziativa, gestendo direttamente l’epurazione del suo entourage.

 

Benché vengano frequentemente descritti come i veri padroni del Paese[5], neppure gli alti ufficiali dell’ANP sono stati risparmiati dalle purghe. Nel 1986, il capo di stato maggiore dell’ANP, Mostefa Beloucif, fu congedato per essersi opposto a un trattato per la vendita d’armi con la Francia. Nel 1993 fu indagato per corruzione e condannato da un tribunale militare a vent’anni di carcere. Lo stesso anno l’ex capo della potente sicurezza militare e fugace primo ministro Kasdi Merbah cadde in un’imboscata nei pressi di Algeri, venendo assassinato insieme al fratello, al figlio e alle guardie del corpo. Quello che era stato uno degli uomini più potenti del Paese sotto Boumedienne pagò così con la vita l’opposizione al progetto “sradicatore” attuato dai generali golpisti.

 

Le purghe mirate di alti ufficiali hanno anche assunto forme meno radicali. Così, dopo la sua rielezione nel 2004, lo stesso Bouteflika riprese in mano la gestione dell’ANP, congedando diversi pilastri dell’istituzione durante il decennio nero, tra cui il capo di stato maggiore Mohamed Lamari. Nel 2019, il tentativo di preservare l’ordine politico sbarazzandosi dei suoi membri più disprezzati mirò logicamente a figure chiave dell’ANP. Anche ex uomini forti dei servizi segreti, come i generali Mohamed Mediene e Athmane Tartag, furono rapidamente arrestati e accusati di tradimento.

 

Dall’indipendenza del Paese nel 1962, le élite algerine hanno a più riprese dimostrato la loro profonda divisione e la loro eterogeneità. Ciò si è riflesso in lotte di potere ricorrenti e in politiche pubbliche contraddittorie. Il processo di riconfigurazione è stato spesso erratico, e questo ha portato gli attori, compresi quelli più potenti, a compiere scelte dettate dall’urgenza di rispondere a necessità contingenti[6]. Questi vincoli hanno reso la coalizione al potere un’idra politica e istituzionale le cui molteplici teste possono essere tagliate senza che il corpo collassi. Il 22 febbraio 2019 ha però cambiato la situazione. Durante il decennio nero, la defezione momentanea dell’FLN aveva potuto essere compensata dalla creazione del Raggruppamento Nazionale Democratico (RND), un nuovo “partito del potere” che riuniva i sostenitori della politica di “sradicamento”. Al contrario, le purghe del 2019 sono la conseguenza diretta di un’insurrezione popolare che ha segnato la fine di Abdelaziz Bouteflika, dei suoi collaboratori, del FLN e del RND. Sono cadute delle teste, ma i potenziali sostituti sono ormai drammaticamente privi di base sociale.

 

La mano cordiale dello straniero

 

Senza una base sociale e priva di figure autorevoli, la coalizione di governo si fonda più che mai sul nucleo dell’apparato statale: gli organi di sicurezza, i tecnocrati e un sistema giudiziario ligio agli ordini. Da quando la pandemia ha coinvolto il Paese all’inizio di marzo, il governo gestisce la situazione affidandosi alle sue risorse burocratiche e securitarie. Attivisti e semplici cittadini sono perseguiti su basi pretestuose dopo essersi espressi sui social media; le decisioni circa la quarantena di alcune aree urbane o di intere regioni vengono prese senza consultazioni e messe in atto senza che la popolazione ne sia informata preventivamente. Il ritorno a una forma di autonomia dello Stato permette di far fronte alla triplice crisi, politica, sanitaria ed economica, evitando di rispondere alle rivendicazioni avanzate dal Hirak.

 

Allo stesso tempo, questi metodi autoritari rafforzano l’immagine di un “Potere” staccato dalla società, ripiegato su sé stesso, realmente indecifrabile per gli osservatori locali e internazionali. Le fluttuazioni nella strategia del nuovo presidente, tra apertura e repressione, consultazione e imposizione, rendono difficili i calcoli degli oppositori. All’arbitrio degli organi burocratico-militari si aggiunge la prevalenza di una retorica nazionalista d’ispirazione antimperialista. Lo Stato algerino si presenta come costantemente minacciato. I diplomatici e i cooperanti stranieri si lamentano da tempo dei riflessi paranoici degli organi di sicurezza e dell’indecifrabilità dei circuiti decisionali della politica.

 

Tuttavia, mentre la crescente autonomia dello Stato rispetto alla società cozza coi discorsi altisonanti sulla centralità della volontà popolare, gli atteggiamenti nazionalisti che affermano la proverbiale indipendenza di lungo corso dello Stato-nazione algerino faticano a nascondere una crescente integrazione nel sistema internazionale. La resilienza del sistema politico è stata infatti ampiamente facilitata dall’intervento di partner stranieri desiderosi di favorire l’integrazione economica del Paese e la sua partecipazione alla “guerra al terrore”[7].

 

Durante gli anni ’90, le istituzioni finanziarie internazionali giocarono un ruolo di primo piano nell’applicazione di un piano di aggiustamento strutturale che trasformò l’economia algerina e contribuì alla fortuna delle reti affariste. Sotto Bouteflika, l’Unione Europea fu coinvolta direttamente nell’attuazione delle riforme economiche e nella messa in scena del processo di democratizzazione. La Francia fu particolarmente attiva nella cooperazione interstatale, sviluppando ad esempio partenariati istituzionali con la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale (polizia) e con la Scuola Nazionale d’Amministrazione (ENA) algerina, dalla quale sono passati anche Tebboune e Djerad.

 

Dopo lo scoppio del Hirak e prima dell’elezione di Tebboune nel dicembre 2019, il governo allora diretto da un altro ex-allievo dell’ENA, Noureddine Bedoui, si affrettò a fornire garanzie ai suoi partner occidentali, rassicurando in particolare i colossi del settore degli idrocarburi (Total, ExxonMobil). Seguendo le raccomandazioni delle istituzioni finanziarie internazionali, Bedoui annunciò anche diverse riforme strutturali, tra cui il ritorno all’indebitamento estero e l’apertura a eventuali privatizzazioni. Nel maggio 2020, Tebboune ha infine sancito l’abbandono parziale della cosiddetta regola del “51-49”, ponendo così fine alle limitazioni alla partecipazione degli investitori stranieri in settori non strategici. In sintesi, la coalizione al governo si è sforzata di dimostrare ai partner stranieri di poter garantire i loro interessi economici, ciò che non sarebbe necessariamente avvenuto nel caso in cui il governo avesse dovuto realmente rendere conto alla popolazione.

 

Occorre dire che l’inclusione dell’Algeria nello spazio transnazionale è avvenuta anche attraverso meccanismi extralegali, in particolare la partecipazione delle sue élite socioeconomiche ai circuiti di evasione fiscale e di riciclaggio. Nel 2016, lo scandalo dei “Panama Papers” ha infatti rivelato il coinvolgimento di diversi imprenditori e responsabili algerini d’alto livello, tra cui il ministro dell’industria e delle miniere Abdelsalam Bouchouareb. L’Europa occidentale e gli Stati Uniti ospitano anche i beni “illeciti” delle élite algerine, che spesso vanno in esilio quando cadono in disgrazia. È il caso della Francia e della Svizzera, che sino a oggi non hanno ricevuto alcuna richiesta da parte delle autorità algerine riguardo il rimpatrio dei beni trasferiti all’estero dall’entourage di Bouteflika, e per il momento si guardano bene dal lanciare un’inchiesta.

 

In poche parole, il sistema politico algerino deve la sua resilienza anche alla sua partecipazione a strutture globali di potere, che compensano il profondo discredito delle élite dirigenti. Lo Stato algerino è spesso descritto come un partner difficile, e i suoi rappresentanti sanno giocare sulla competizione tra francesi, americani, emiratini, cinesi e russi. È allo stesso tempo essenziale per la strategia di indipendenza energetica europea e chiave di volta della stabilità regionale. In questo contesto, le influenze esterne sono le migliori alleate delle élite burocratiche e militari, che si impegnano a mettere in scena il cambiamento senza che nulla cambi.

 

Niente salvezza senza legittimità

 

Nonostante il sostegno più o meno attivo dei suoi partner stranieri, l’immagine del sistema politico algerino non risulta meno compromessa. I governi che si sono succeduti hanno ampiamente dimostrato la loro incapacità di trovare soluzioni efficaci alla crisi sistemica che mina il Paese dagli anni ’80. Durante i suoi primi tre mandati, Bouteflika era riuscito in parte a proporsi come garante della pace civile, ma in seguito alla sua ischemia celebrale nel 2013 il suo entourage si è rivelato incapace di continuare a produrre legittimità. L’equilibrio instabile che ha caratterizzato il Paese fino al 2019 era il prodotto di una miscela di repressione, di un timore diffuso di un ritorno alla violenza e di consolidati meccanismi di neutralizzazione della politica.

 

Dopo il 2019, gli attori burocratico-militari hanno tentato invano di cooptare il Hirak e di proporsi come garanti di una reale democratizzazione. Tebboune incarna l’incontro impossibile tra il movimento rivoluzionario del 2019 e l’apparato statale: archetipo del tecnocrate e prodotto del sistema, a lungo ministro sotto Bouteflika e cooptato dall’esercito per occupare la più alta carica dello Stato. Il suo principale titolo di merito è l’essersi opposto, brevemente e senza successo, a Said Bouteflika e ai suoi più stretti collaboratori nel 2017, ma ciò non basterà a ristabilire la credibilità delle istituzioni, percepite da tempo come un simulacro di un sistema rappresentativo che insulta la dignità del popolo.

 

I pilastri storici della legittimità della coalizione al potere sono ormai profondamente erosi da decenni di marasma culturale, scandali economici e crisi politica. Il nazionalismo d’ispirazione terzomondista che ha strutturato lo Stato-FLN dopo la guerra d’indipendenza si è scontrato con la forte propensione delle élite a vivere e investire all’estero, con la corruzione dei ministri e dei loro complici nel mondo degli affari e con la collaborazione del governo con Stati e multinazionali straniere. A partire dalla metà degli anni ’80, i tifosi di calcio hanno preso a cantare «Roma walā n’touma» («Roma piuttosto che voi»), un inno all’esilio come gesto di sfiducia nei confronti dei propri leader.

 

Questo canto e altri dello stesso genere venivano ancora scanditi negli stadi algerini alla vigilia delle insurrezioni del 2019. Anche l’Islam occupava un ruolo centrale nel progetto identitario nazionalista. Tuttavia, l’ascesa del FIS prima e la guerra civile degli anni ’90 poi hanno ampiamente spogliato la religione della sua portata emancipatrice. Sotto Bouteflika, la religione era diventata un mezzo come gli altri per giocare sulla paura della destabilizzazione, rafforzando il potere coercitivo dello Stato[8].

 

Le stesse componenti essenziali della coalizione al governo, la burocrazia e l’esercito, soffrono di una crescente delegittimazione politica. Gli alti gradi dell’ANP hanno beneficiato per molto tempo dell’aura della lotta contro la Francia per giustificare le loro ripetute interferenze nella vita politica del Paese. Tuttavia, la violenza dell’istituzione negli anni ’90, le manovre del DRS e le vicende di corruzione che coinvolgevano i protetti degli ufficiali, e di alcuni generali, hanno ridato forza al rifiuto dell’influenza dell’ANP. Quest’ultima avrebbe potuto accompagnare il Hirak dopo aver costretto Bouteflika alle dimissioni, ma, purtroppo, i suoi leader si sono immediatamente attivati per pilotarlo e limitarlo, in modo da non essere a loro volta considerati “traditori”.

 

Il Hirak ha subito cominciato a scandire slogan che riaffermavano il primato del politico sul militare: «dawla madaniyya, mashī ‘iskariyya» (Stato civile, non militare) e «jumhūriyya mashī caserna» (una repubblica non è una caserma). Per quanto riguarda i tecnocrati, la loro funzione storica è stata quella di permettere lo sviluppo del Paese guidando le imprese pubbliche e i ministeri strategici. Anche qui, le politiche pubbliche fallimentari e i circuiti di saccheggio economico, organizzati specialmente intorno al settore strategico degli idrocarburi, hanno compromesso profondamente la reputazione dell’élite tecnocratica. Per questa ragione il dissenso sociale ha da tempo preso di mira le inadempienze delle politiche di sviluppo, chiedendo un rinnovato impegno a uno Stato considerato assente e negligente[9].

 

Un sistema prigioniero delle sue contraddizioni

 

In conclusione, il sistema politico algerino è stato modellato da élite postcoloniali desiderose di controllare il destino del Paese. Tuttavia, le condizioni in cui esso ha visto la luce, in primo luogo l’urgenza della sua costruzione nazionale, sono venute meno. Militari e tecnocrati continuano a governare in nome di un popolo che trattano con paternalismo e diffidenza, come una massa impulsiva che difendono da se stessa. Il sistema non è dinastico o ideologico. Il suo funzionamento è incentrato sulla sovranità dell’apparato statale, che, in caso di necessità, può comportarsi in maniera autonoma in nome della “salvezza della nazione”. Questa sovranità statale è sostenuta dai calcoli pragmatici, o cinici, dei partner internazionali. Allo stesso tempo, la più grande contraddizione del sistema politico algerino consiste nel principio di legittimità populista e popolare.

 

Le élite governano «per il popolo e attraverso il popolo». Invece di abbandonare il potere, la classe dirigente si è fatta garante di una “vera” democratizzazione e protettrice della Costituzione. In maniera speculare, i manifestanti hanno riaffermato l’ideale della sovranità popolare e proposto un modello di cittadinanza orizzontale. Rispondendo allo Stato e ai suoi riflessi repressivi, la miriade di gruppi che costituiscono il Hirak ha istituito nuove forme di organizzazione collettiva per rendere sicure le manifestazioni, proteggere l’ambiente e strutturare i dibattiti[10]. Per la sua natura pacifista e per l’impegno dei manifestanti a incarnare un ideale di civiltà, il movimento non può essere screditato facilmente come il FIS. Il suo modello di cittadinanza è ancora debolmente strutturato, ma è più credibile delle elezioni orchestrate sotto il controllo burocratico-militare da più di trent’anni.

 

La pandemia di coronavirus ha in ogni caso rappresentato una tregua inaspettata per la coalizione al potere, dal momento che la crisi sanitaria legittima per il momento il funzionamento autonomo dello Stato. Tuttavia, la questione della mancanza di legittimità rimane centrale: senza una reale sovranità popolare, il sistema politico algerino resterà prigioniero delle sue contraddizioni. Tenendo conto dei numerosi fallimenti economici e politici che dovrà affrontare nei prossimi anni, la tregua non potrà che essere temporanea.

 
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Thomas Serres, L’idra e il suo popolo. Le contraddizioni del sistema politico algerino, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 42-52.

 

Riferimento al formato digitale:

Thomas Serres, L’idra e il suo popolo. Le contraddizioni del sistema politico algerino, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/idra-contraddizioni-sistema-politico-algerino


[1] Charlotte Courreye, L’Algérie des Oulémas. Une histoire de l’Algérie contemporaine (1931-1991), Éditions de la Sorbonne, Paris 2020.
[2] Chérif Dris, La nouvelle loi organique sur l’information de 2012 en Algérie : vers un ordre médiatique néo-autoritaire ?, «L’Année du Maghreb», vol. VIII (2012), pp. 303-320.
[3] Belkacem Benzenine, Les femmes algériennes au Parlement : la question des quotas à l’épreuve des réformes politiques, «Égypte/Monde arabe», n. 10 (2013).
[4] Isabelle Werenfels, Managing Instability in Algeria: Elites and political change since 1995, Routledge, London-New York 2007.
[5] Mohammed Hachemaoui, Permanences du jeu politique en Algérie, «Politique étrangère», n. 2 (2009), pp. 309-321.
[6] Myriam Aït-Aoudia, L’expérience démocratique en Algérie (1988-1992). Apprentissages politiques et changement de régime, Les Presses de Sciences Po, Paris 2015.
[7] Francesco Cavatorta, The International Dimension of the Failed Algerian Transition, Manchester University Press, Manchester 2009.
[8] James McDougall, History and the Culture of Nationalism in Algeria, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 152-165. Karima Dirèche, Évangélisation en Algérie : débats sur la liberté de culte, «L’Année du Maghreb», vol. V (2009), pp. 275-284.
[9] Naoual Belakhdar, « L’éveil du Sud » ou quand la contestation vient de la marge. Une analyse du mouvement des chômeurs algériens, «Politique africaine», n. 137 (2015), pp. 27-48.
[10] Islam Amine Derradji e Amel Gherbi, Le Hirak algérien : un laboratoire de citoyenneté, «Métropolitiques», 12 luglio 2019, https://metropolitiques.eu/Le-Hirak-algerien-un-laboratoire-de-citoyennete.html

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