Dagli insegnamenti del padre, ‘Abd al Wahid Pallavicini, a quelli dei grandi maestri classici e contemporanei dell’Islam. L’Imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, presidente della Coreis, ci spiega la sua visione dell’Islam e l’orientamento della comunità religiosa che guida

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:17

Yahya Sergio Yahe Pallavicini ha studiato islamistica alla Sapienza e al PISAI. Dal 2017 è presidente della Coreis. L’intervista fa parte della serie “Voci dell’Islam italiano”, realizzata nell’ambito del progetto “L’Islam in Italia. Un’identità in formazione

 

Conversazione con l’Imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, a cura di Chiara Pellegrino

 

La COREIS è nata per volontà di suo padre ‘Abd al Wahid Pallavicini (1926-2017). Qual è stato il suo percorso di conversione?

 

Quella di mio padre è una storia molto particolare. È cresciuto in una famiglia aristocratica cattolica e nel secondo dopoguerra, non soddisfatto dalla famiglia e deluso dal contesto decadente dell’epoca, ha iniziato a cercare una ragione di vita più profonda. Così ha cominciato a studiare religioni comparate, dall’Induismo al Cristianesimo. L’Islam in realtà non era una delle sue aree principali. Durante questo percorso di ricerca ha scoperto la dimensione contemplativa delle varie religioni – lo zen, lo yoga, il sufismo, l’esicasmo… Poi è passato a esperienze più dirette: avendo avuto la possibilità di viaggiare ha incontrato molti maestri, prevalentemente musulmani. Mio padre si sentiva radicato nella tradizione del monoteismo cristiano e non vedeva la possibilità di fare confusioni, di essere cioè cristiano praticando zen o yoga. Considerava le religioni orientali con grande rispetto, soprattutto il Buddismo e l’Induismo, ma non li sentiva nelle sue corde. Alla fine, ha optato per l’Islam perché gli permetteva di completare il suo percorso cristiano aggiungendo un anello successivo, senza rinnegare nulla. Ha riconosciuto la venuta del Profeta Muhammad nel 1951 poi, guidato da alcuni maestri sufi, ha approfondito la dimensione esteriore e giuridica, e quella interiore e spirituale, che nel tempo è diventata la sua priorità.

 

Dopo la conversione suo padre ha assunto il nome di ‘Abd al-Wahid, che è lo stesso nome assunto da René Guénon, suo grande ispiratore. Si sono conosciuti?

 

No, non si sono conosciuti per una coincidenza un po’ speciale. La lettura di Guénon ha influenzato molto la formazione intellettuale di mio padre. Mio padre incontrò il traduttore italiano di Guénon, Julius Evola, il quale rimase molto deluso scoprendo come lui avesse un interesse solo per la dimensione contemplativa e non fosse interessato alla componente militante e politica, di cui invece Evola era un grande ammiratore. Fu lo stesso Evola a mandare mio padre a Losanna da Titus Burckhardt, il quale lo introdusse all’Islam il 7 gennaio del 1951, lo stesso giorno in cui Guénon morì.

 

Alla morte di suo padre lei ha assunto la direzione della COREIS. Mi racconta il suo percorso di formazione?

 

Sono nato musulmano nel 1965. Come le dicevo, mio padre si è convertito nel 1951. Mia madre è giapponese e, più per una questione famigliare, ha voluto convertirsi dal Buddismo all’Islam prima del matrimonio. Io ho voluto approfondire lo studio e le conoscenze sia con mio padre sia da solo. Ho studiato islamistica alla Sapienza con Alessandro Bausani e Biancamaria Scarcia Amoretti, poi al PISAI con Maurice Borrmans e Michel Lagarde. Al PISAI, ma soprattutto alla moschea di Parigi, ho avuto l’onore di seguire i corsi di un grande maestro che poi sarebbe stato ucciso in Siria dai jihadisti, lo shaykh Muhammed Sa‘īd Ramadān Al-Būtī, grande giurista e figlio di un importante maestro spirituale. Con lui mi sono formato sugli hadīth e, in particolare, ho seguito dei corsi su al-Nawawī [giurista shafi‘ita di origini siriane vissuto nel XIII secolo, Ndr].

Ho avuto la fortuna di poter viaggiare molto. Sono stato al Cairo, dove ho frequentato l’allora Gran mufti ‘Ali Gomaa, che ho potuto conoscere grazie a un’amicizia in comune, quella con l’americano Nouri Friedlander – suo consigliere per i rapporti esterni. Ho completato la mia formazione all’ISTAC in Malesia, dove ho seguito dei corsi su al-Ghazālī tenuti dallo shaykh Naguib al-Attas.

 

Naguib al-Attas è uno dei principali teorici dell’islamizzazione della conoscenza. Che cosa pensa di questa categoria?

 

È una posizione su cui non mi trovo del tutto d’accordo. Al-Attas fa una critica della filosofia e del sistema di pensiero moderno occidentale, i quali avrebbero perso o dimenticato la dimensione spirituale e religiosa. È una visione un po’ dura, ma molto lucida. Lui propone come soluzione la riscoperta di un sistema tradizionale – e qui bisogna capire in che senso tradizionale – fondato sulla metafisica e sulla scienza islamica, unico modo per salvare l’umanità. Su questo io non sono d’accordo perché manca una prospettiva ecumenica che rispetti e accetti il valore spirituale delle altre tradizioni religiose. Pensare che un sistema possa risolvere i problemi di tutti è contrario alla mia lettura della dottrina islamica. Non critico l’idea dell’islamizzazione in sé, quanto quella della sistematizzazione.

 

Come ha inciso il suo percorso formativo sulla sua presidenza alla COREIS?

 

Questa mia formazione ha contribuito a un ri-orientamento della COREIS. La Comunità religiosa islamica italiana è nata con una forte inclinazione verso lo studio comparato delle religioni e ha sviluppato una certa attenzione alla spiritualità. Io forse ho “abbassato” un po’ il livello. Ho voluto creare una modesta scuola di formazione a partire dagli insegnamenti dei maestri musulmani, incentrata più sulla sharī‘a e meno sul fiqh. A differenza di altri, infatti, non nutro molto interesse per la giurisprudenza islamica, e non credo che la vita dei musulmani in Europa debba essere regolata da un corpus di pareri giuridici.

 

Eppure, in Europa, la dimensione giuridica è considerata importante da molte istituzioni islamiche. Una di queste è il Consiglio europeo della Fatwa, nato proprio per creare una giurisprudenza per le minoranze musulmane. Come vede questo tipo di progetti?

 

Non sono d’accordo con il sedicente “Consiglio europeo della fatwa”. L’intenzione, il metodo e le finalità di questo consiglio sono diametralmente opposti all’orientamento della COREIS. Sono contrario a processi artificiosi di islamizzazione dell’Europa su basi normative: questa è una riduzione dell’Islam in cui non mi riconosco. Pur difendendo il valore della sharī‘a, non credo che se ne debba fare un sistema. L’Europa è un sistema, le costituzioni sono un sistema, le religioni sono un sistema. Il diritto islamico non può sostituire nessuno di questi sistemi. A noi interessano la teologia e la lettura dei diversi livelli del Corano attraverso l’insegnamento dei maestri.

 

Chi sono questi maestri? 

                                                 

Sono i commentatori classici del Corano, da al-Rāzī ad al-Suyūtī ad al-Qushayrī, messi a confronto per cogliere le sfumature. Ma sono anche i maestri contemporanei, come il mufti Mustafa Cerić e il giurista Mohammad Hashim Kamali [professore emerito di Diritto islamico all’Università islamica internazionale della Malesia], lo shaykh al-Būtī e ‘Ali Gomaa con le loro opere di riadattamento dell’interpretazione del Corano e degli hadīth. Il nostro obiettivo è trarre beneficio dalle esperienze di lettura e adattarle al contesto odierno italiano. C’è un certo sforzo di ijtihād e di ricerca. Alla luce di questo dico che il movimento dei Fratelli musulmani è quanto di più misero e lontano ci sia dal patrimonio intellettuale, teologico e giuridico esistente.

 

Gli antichi maestri offrono effettivamente tutte le risposte di cui hanno bisogno i musulmani che vivono in una società occidentale?

 

No, infatti una delle regole che i maestri insegnano è la necessità di rielaborare e riadattare i loro insegnamenti. I responsabili religiosi musulmani in Occidente ma anche in Oriente devono fare uno sforzo per ricontestualizzare questi insegnamenti con onestà intellettuale e fedeltà dottrinale, rimanendo sensibili alle priorità spirituali, alle condizioni dell’anima e alle esigenze del tempo invece di adottare il metodo del “fai da te” o del “copia e incolla”. Oggi si corre il rischio di scegliere dei falsi maestri o di fare il “copia e incolla”, come se le cose di un’altra epoca e di un altro spazio potessero funzionare meccanicamente solo perché magari sono state più o meno di successo in un altro tempo o in un altro posto. In gioco c’è la vitalità spirituale della dottrina. È il grande dibattito dell’ijtihād. Personalmente, i miei riferimenti sull’ ijtihād sono l’imam al-Ghazālī e l’imam al-Sha‘rānī.

 

Nel corso del Novecento in Europa sono andate diffondendosi diverse confraternite sufi. Alcune di queste hanno coinvolto importanti figure del panorama intellettuale europeo. Frithjof Schoun, per esempio, è stato uno dei primi discepoli europei della ‘Alawiyya nonché fondatore della Mariamiyya, mentre lo psicoterapeuta Gabriele Mandel Khan è stato un celebre rappresentante della Jerrahiyya-Khalwatiyya. Che cosa pensa del sufismo europeo?

 

Il sufismo e l’esoterismo islamico europei sono presenti, ma bisogna riconoscere che in Europa è molto più importante la presenza dei tijani, dei naqshabandi o dei qadiri. In tutta Europa ci sono luoghi di ritrovo e di formazione per i maestri. I gruppi a cui lei fa riferimento sono una minoranza interessante di un sufismo un po’ occidentalizzato e, lo dico criticamente, che a volte rischia di essere intellettualistico o estatico, cioè fenomenico, in stile new age-hippie. La COREIS è distante da queste realtà, ma comunque le rispetta. Per me l’esoterismo islamico è parte dell’Islam, non è un movimento libresco e accademico. E poi occorre sempre fare attenzione ai falsi maestri. In Malesia si insegna che il sufismo lecito è soltanto quello di al-Ghazali.

 

Intende in opposizione alla corrente del monismo testimoniale di cui al-Hallāj è un famoso esponente?

 

Questo fa parte del dibattito all’inizio del sufismo. Per me al-Hallāj e al-Ghazālī sono stati maestri illuminati e fulminati dall’amore e dalla conoscenza di Dio. Credo però che al-Ghazālī abbia avuto il merito di regolare l’incontro tra la religione, e le vie e i metodi di illuminazione. Prima però mi riferivo ai maestri del nostro tempo. Io ho conosciuto personalmente Mandel Khan, ma a dire che lo rispetto faccio un po’ fatica. Era un uomo geniale con una grande sensibilità, ma le sue interpretazioni del Corano e del sufismo erano, per usare una sua espressione, “psicoterapia”. Comunque, anche all’interno della Naqshbandiyya ci sono dei movimenti un po’ colourful. Shaykh Nazim [leader spirituale turco-cipriota della confraternita Naqshbandi (1922-2014), Ndr], per esempio, è stato un grande maestro con un grande magnetismo. Solo mi sembra fuori dalla regola dare l’iniziazione all’esoterismo a chiunque, in modo mediatico-virtuale, a prescindere dal fatto che si sia o meno musulmani scrupolosi. E la stessa cosa vale per gli intellettualismi. Sostituire un maestro al Profeta è qualcosa in cui noi come COREIS non ci riconosciamo.

 

Qual è allora la vostra regola? In che cosa vi riconoscete?

 

La COREIS si colloca all’interno dell’Islam ortodosso tradizionale. Se vogliamo, la nostra regola si riassume nelle parole dello shaykh Ahmad ibn Idrīs, fondatore della confraternita Ahmadiyya-Idrisiyya-Shadiliyya: “il Corano, la Sunna e lā adrī” – che significa “non so”. Non ci si può dire iniziati all’esoterismo islamico e non avere un’osservanza prioritaria e prevalente del Corano e della Sunna. Non si può fare il mistico rimanendo all’esterno della religione. La mistica è la dimensione interiore della religione. Non c’è un’obbedienza alternativa. Per questa ragione non si può prescindere dal sostegno dei maestri viventi e del passato, che siano giuristi, teologi, maestri spirituali o fondatori di confraternite, al plurale. Noi seguiamo una via, una catena di trasmissione diretta che va fino ai tempi del Profeta, ciò che lei chiamerebbe “successione apostolica”, cioè l’influenza spirituale che passa attraverso una sequela di anelli della stessa catena. Un’altra regola è la testimonianza di fede, cioè il riconoscimento dell’unicità di Allah e di Muhammad quale sigillo della profezia.

 

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Interno della moschea al-Wahid

 

Poco fa mi diceva di aver creato una scuola di formazione. In che cosa consiste esattamente?

 

Noi organizziamo due diversi percorsi formativi. C’è il percorso di formazione per imam e predicatori durante il quale si fanno degli approfondimenti sulle interpretazioni del Corano e della Sunna, e su quello che in termini ecumenici è stato concepito come scriptural reasoning, cioè la meditazione su ciò che le Scritture possono ispirare mettendole in relazione con le problematiche della vita quotidiana. Questo percorso è biennale e prevede due ore di lezione ogni venerdì dopo la preghiera. Le lezioni sono diluite nel tempo perché gli adulti lavorano. Al termine del corso non possiamo rilasciare nessun diploma perché, a livello istituzionale, alla COREIS non è ancora stato riconosciuto il ruolo di formatore.

Per le persone più interessate alla dimensione di ricerca spirituale offriamo un percorso a parte, di accompagnamento e formazione spirituale. Chiaramente le due cose non coincidono. La COREIS oggi è un’organizzazione islamica che si occupa di attività esteriori, ma è vero che alcuni suoi membri appartengono anche a una confraternita. Ma non è stato sempre così. Ai tempi di mio padre c’era una coincidenza tra convertiti, fondatori e cultori della dottrina metafisica. Inizialmente i padri fondatori riconoscevano tutti il pensiero di René Guénon e condividevano una comune interpretazione che ha ispirato l’inizio della COREIS. Nel tempo però c’è stata uno sviluppo e un adattamento. Pur riconoscendo all’opera di Guénon una “bussola infallibile”, oggi, con i tempi che corrono, bisogna evitare di mitizzare le persone e le pubblicazioni. Per fare un parallelo, è come se qualcuno accentuasse San Tommaso a discapito di Gesù.

 

Che percorso deve seguire chi decide di entrare nella confraternita Idrisiyya?

 

Innanzitutto, deve presentare una richiesta che viene valutata. A quel punto deve seguire un percorso di formazione che si conclude con una regolare iniziazione davanti alla comunità. Da quel momento, sia in maniera comunitaria che con il maestro, il candidato si sottopone a una verifica costante del suo progresso spirituale. Il percorso è abbastanza simile alla regola monastica: si chiede, il maestro valuta, gli anziani verificano, c’è una formazione e alla fine si entra e si fa parte dell’ordine di una compagnia spirituale per la vita.

 

Torniamo al percorso di formazione per gli imam. Una volta formati, guidano la preghiera nelle vostre comunità?

 

Sì, qui e in altre nostre sedi, a Torino, Ventimiglia, Vicenza, Roma, Palermo e Agrigento. A Piacenza abbiamo un ufficio di rappresentanza, ma la comunità frequenta la moschea locale. Lì, per esempio, alcuni dei nostri fratelli vanno alla moschea dell’UCOII. Il tempo ha aiutato la COREIS a sviluppare una doppia coordinata: interna alla confraternita ed esterna nel rapporto con le altre moschee. I membri della COREIS non pregano solo nelle loro moschee. Per esempio, se vado a Roma, prego nella Grande Moschea. Cerchiamo di evitare di creare dei ghetti. Credo che questa volontà sia condivisa anche dalla Grande Moschea, dall’UCOII e dalla Confederazione.

 

Quanti membri ha la COREIS?

 

A Milano, il venerdì, accogliamo in moschea circa 200 persone. A livello nazionale, raggiungiamo all’incirca le 6.000 unità. Se vogliamo includere anche le comunità con cui abbiamo delle alleanze strategiche, ci avviciniamo alle 80.000 unità. Noi siamo una minoranza di coordinamento. Su 2 milioni di musulmani che vivono in Italia, l’attività della COREIS è estesa a 80.000 persone. Oserei dire però che i numeri vanno analizzati. Di questi 2 milioni, meno della metà è osservante. E di questo milione, al massimo la metà ha tempo e interesse ad approfondire la religione. Quindi gli 80.000 non sono poi così pochi.

 

E i 6.000 sono italiani convertiti?

 

Ci sono italiani convertiti, ma anche persone originarie di altri Paesi e seconde generazioni, come mio figlio. Mio figlio tra l’altro è stato eletto rappresentante del gruppo giovani, una piattaforma in cui si incontrano figli di convertiti e figli di immigrati. Le seconde generazioni sono l’aspetto più interessante perché formano un pluralismo trasversale alle sigle e alle nazionalità. Ciò provocherà un naturale adeguamento anche delle sigle. Per esempio, la Confederazione mira a mettere in contatto i marocchini, ma spesso sono i marocchini stessi a non voler essere messi in contatto tra loro. I giovani ormai sono molto lontani da questa sensibilità. Io mi auguro che possa avvenire lo stesso per i turchi, mentre per i senegalesi e i pakistani la situazione è diversa perché nel loro caso c’è una convergenza fra tradizione di famiglia e religione, al punto tale che se uno abbandona la famiglia abbandona anche la religione. Questo è spesso vissuto in maniera drammatica, soprattutto se riguarda le donne. Noi abbiamo un po’ mediato, per esempio con i pakistani e i bengalesi i cui figli e le cui figlie partecipano insieme ai nostri corsi, e i nostri docenti sono sia uomini sia donne. All’inizio non era così, ma con il tempo le resistenze si sono sciolte.

 

Prima ha accennato ad alleanze strategiche con altre comunità. Come si colloca la COREIS nel panorama islamico italiano, e che rapporti ha con le altre realtà islamiche?

 

Noi abbiamo diverse collaborazioni strategiche in nord Italia. Collaboriamo con l’associazione islamica Muhammadiyya, che coordina le comunità pakistane del nord Italia e ha sede a Brescia. In questa associazione convergono diverse sensibilità religiose e spirituali, anche sufi, legate soprattutto alle confraternite Qadiriyya, Naqshbandiyya e Cistiyya. Stiamo parlando di una realtà abbastanza rilevante, solo nel nord Italia conta oltre 10.000 fedeli. Ogni anno a Brescia organizzano la festa del Mawlid in ricordo della nascita del Profeta e in città arrivano centinaia di pakistani di due generazioni da tutto il nord Italia.

Abbiamo una bella collaborazione anche con l’associazione culturale Ahmadou Bamba di Pontevico, in provincia di Brescia, sede storica dei muridi senegalesi nel nord Italia. Anche in questo caso, l’associazione comprende un pluralismo di sigle e di gestioni. Noi collaboriamo con loro da diversi anni e abbiamo favorito il loro ingresso nella Consulta per l’Islam italiano.

La terza alleanza è quella con i bengalesi a Torino ma soprattutto in Sicilia. In Sicilia sono una realtà impressionante: solo a Palermo vivono più di 5.000 bengalesi. Come COREIS abbiamo accompagnato l’apertura di sette centri islamici solo in questa regione e organizziamo, da nord a sud, dei corsi di formazione per i loro giovani. I bambini bengalesi conoscono perfettamente a memoria il Corano perché lo studiano due ore al giorno dopo la scuola, ma non sanno molto dell’Islam in generale. I nostri corsi perciò sono pensati proprio per supplire a questa mancanza. Stiamo lavorando per far sì che la nuova generazione sia consapevole di essere musulmana nel contesto italiano. Con i senegalesi e i pakistani condividiamo il senso interiore ed esteriore, cioè la dimensione contemplativa del tasawwuf (sufismo, NdR) e la religione. Con i bengalesi invece prevale il secondo aspetto.

Infine, abbiamo dei buoni rapporti con i turchi, soprattutto a Imperia, in Liguria e a Roma. Ultimamente però le problematiche nazionali della Turchia hanno spinto le comunità in Italia a una certa chiusura e a ricercare una maggiore autonomia gestionale. Noi non entriamo nelle questioni politiche, rispettiamo le loro scelte e andiamo avanti per la nostra strada.

 

Come sono invece i rapporti con le principali organizzazioni islamiche italiane, come la Confederazione islamica italiana e l’UCOII?

 

Con la nascente Confederazione islamica italiana filo-marocchina abbiamo un bel rapporto, così come con la moschea di Roma. Io sono membro dell’Assemblea dei soci della moschea e sono stato membro del Consiglio di amministrazione e responsabile per il dialogo interreligioso fino a due mandati fa.

Con l’UCOII invece abbiamo avuto dei rapporti di radicale opposizione, soprattutto nei primi anni della Consulta per l’Islam italiano di Pisanu e Amato. All’epoca l’UCOII era presieduta da Nour Dachan. Noi non condividevamo né la loro storia né la loro radice dottrinale. Noi abbiamo legami con l’Islam tradizionale e con il sufismo, mentre loro nutrivano simpatie per i Fratelli musulmani. E poi c’erano delle divergenze anche sulle questioni pratiche di gestione dell’Islam italiano. Nel tempo però, sia loro sia noi ci siamo un po’ sciolti, e prima con Izzedine Elzir e ora con il giovane Yassine Lafram i rapporti sono migliorati e si sono creati i presupposti per dei momenti di dibattito e concertazione. Grazie alla CEI, c’è stato anche un riavvicinamento a gruppi filo-UCOII come i Giovani Musulmani d’Italia o l’Associazione italiana degli imam e delle guide religiose, che sembravano un po’ rigidi.

In ogni caso bisogna evitare di associare una sigla a una persona. La COREIS, per esempio, è presente in undici città, non esiste solo nella figura del suo presidente. Lo stesso vale per le altre organizzazioni, come i GMI di cui ho conosciuto a Roma alcuni giovani con cui collaboriamo che sono davvero delle belle persone. Storicamente, a Milano e a Torino ci sono state più competizioni.

 

La COREIS ha rapporti con altre realtà dell’Islam europeo?

 

Sì, certo. Adesso, per esempio, sto andando al convegno europeo della Lega Musulmana Mondiale, ospitato a Zagabria in concomitanza con la presidenza europea di turno della Croazia. Oltre che con la Lega Musulmana Mondiale, a livello internazionale abbiamo rapporti anche con l’Isesco, con il KAICIID di Vienna, la Rabita Muhammadiyya del Regno del Marocco, la Nahdatlul Ulama dell’Indonesia e il Ministero del Pakistan per gli Affari religiosi.

A livello europeo invece abbiamo delle buone collaborazioni con tre atenei universitari gestiti da colleghi musulmani: l’Università di Cambridge, la Facoltà di Studi islamici dell’Università di Sarajevo nella persona di Ahmet Alibasic, e il Centro di teologia islamica di Tübingen nella persona di Lejla Demiri. Oltre all’ambito accademico, abbiamo buoni rapporti anche con le altre confraternite – i naqshabandi, i qadiri, i shadhili, i tijani e i muridi, e con le muftiyyat di alcuni Paesi europei: Slovenia, Croazia, Bosnia, Grecia, Russia, Lituania ed Estonia.

 

A proposito della Lega musulmana mondiale e del KAICIID: i rapporti con l’Arabia Saudita si conciliano bene con la vostra visione d’Islam?

 

Questo è un problema più loro che nostro. Noi ci presentiamo in maniera molto trasparente, per quello che siamo e per come la pensiamo. Siamo disponibili a un confronto. Vero è che gli inviti rivolti alla mia persona come rappresentante della COREIS sono arrivati solo in questi ultimi anni, prima da parte nostra c’era un discorso molto formale e convenzionale mentre da parte loro c’era un grande silenzio. Ho l’impressione che l’Arabia Saudita, nelle persone di alcuni dirigenti politici e di alcune persone come Muhammad al-Issa, stia cercando degli interlocutori con cui collaborare per finalità comuni. Il KAICIID organizza programmi di formazione interculturale e interreligiosa e in questo, oso dire, la COREIS in Europa può vantare un po’ di esperienza. Quanto alla Lega Musulmana Mondiale, mi pare che stia cercando di diventare il braccio di una nuova policy del Regno che prende, forse senza dirlo, le distanze dal wahhabismo e dall’uso del petrodollaro per finanziare una rete pro domo sua. Sono molto curioso di vedere come andrà l’incontro di Zagabria al quale partecipano tanti colleghi europei, alcuni dei quali storicamente fedeli alla Lega Musulmana Mondiale. Noi, come COREIS, non siamo fedeli a nessun ente ma cerchiamo di rimanere fedeli a una prospettiva.

 

 

 

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