Dalle estati trascorse in Egitto ai corsi di Islam in Inghilterra, alla street da‘wa nelle città italiane. Usama El-Santawy, imam di Lecco, ci racconta il suo percorso di formazione, il suo impegno nella comunità musulmana lecchese e la sua visione dell’Islam italiano.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:28

Usama El-Santawy è imam del Centro culturale islamico di Lecco dal 2015. Molto attivo nell’ambito della formazione dei giovani, è stato uno dei primi a dedicarsi alla predicazione di strada in Italia. L’intervista fa parte della serie “Voci dell’Islam italiano” realizzata nell’ambito del progetto “L’Islam in Italia. Un’identità in formazione”.

 

Intervista a cura di Chiara Pellegrino

 

 

Quali sono le tue origini?

 

Sono nato in Italia nel 1985 e sono cresciuto a Milano, nella zona di Porta Romana. Poi per diversi motivi io e la mia famiglia ci siamo spostati in periferia. I miei genitori sono di origine egiziana, naturalizzati italiani, mio padre è in Italia dal 1978/’79 mentre mia madre è arrivata nel 1980. Non sono cresciuto in una famiglia particolarmente religiosa.

 

Come è avvenuto il tuo percorso di avvicinamento all’Islam?

 

Ho un forte ricordo di mio nonno, che penso di aver visto una volta sola in Egitto quando avevo 4 anni. La sua figura mi è rimasta impressa e mi ha accompagnato durante tutta la mia infanzia. Mi sembrava una persona saggia. Ricordo che mi aveva portato nella moschea dove lui era imam. Probabilmente era diventato imam perché era una persona abbastanza conosciuta nel suo quartiere, non per chissà quale conoscenza dell’Islam. È morto nel 1989, io all’epoca ero piccolo.

 

Ho vissuto la mia adolescenza come qualsiasi altro ragazzo, senza ricevere alcun tipo di formazione islamica. Sapevo parlare l’arabo, ma non sapevo leggerlo né scriverlo. A casa non si pregava se non in rare occasioni, e solo i genitori digiunavano. Dopo i fatti dell’11 settembre qualcosa è cambiato. All’epoca frequentavo la terza superiore, i professori parlavano dell’Islam attaccandolo, e io mi sono detto che dovevo informarmi sulla mia religione. Un anno dopo c’è stato un altro episodio significativo: un mio amico di nome Giona mi aveva detto che il suo nome è menzionato nel Corano. Non lo sapevo, e il fatto che lo sapesse lui, non musulmano, mi ha un po’ infastidito e toccato nel mio orgoglio. Inizialmente mi sono arrabbiato con lui perché pensavo mi stesse prendendo in giro. Invece aveva ragione. Da quel momento ho cominciato a leggere il Corano in italiano. Nel frattempo, ho imparato a leggere e scrivere l’arabo, e qui siamo più o meno in quinta superiore. Poi ho iniziato un percorso di formazione islamica da autodidatta: acquistavo libri e andavo a leggerli nelle moschee milanesi. Pian piano ho fatto la conoscenza di alcuni imam italiani, a Segrate, per esempio, ho conosciuto Abu Shwaima e Pasquini. Approfittavo anche dei periodi di vacanza che trascorrevo in Egitto. Per un mese, un mese e mezzo, mi piaceva frequentare le moschee e seguire le lezioni sui fondamenti dell’Islam, la giurisprudenza e la dottrina. Anche Internet mi ha aiutato molto nel mio percorso, ma adesso non lo consiglierei perché online si trova di tutto di più e non è facile distinguere. Io stesso ho trovato delle cose che erano affascinanti, ma capivo che erano sbagliate. Non erano necessariamente cose di jihad, ma discorsi che avrebbero portato sicuramente sulla strada sbagliata.

 

Puoi fare qualche esempio?

 

Erano siti salafiti molto affascinanti nelle parole. Ti davano una base solida, ma negavano qualunque possibilità di critica o autocritica, ed escludevano la possibilità che potesse esistere un altro Islam. Quei discorsi mi erano suonati un po’ troppo rigidi. Certo, affascinanti, perché chi te li propone usa un linguaggio accattivante. Ma capivi che non poteva essere quella la strada giusta quando avevi a che fare con i seguaci di questo tipo di Islam. Sono persone che ti amano alla follia finché gli stai vicino, ma se ti allontani un attimo diventi il peggiore. In un certo senso mi ricordano un po’ i testimoni di Geova.

 

Comunque, ritornando al mio percorso, prima di scegliere definitivamente l’Islam ho studiato un po’ anche altre religioni, tra cui l’Ebraismo e il Cristianesimo. Mi sono detto che se dovevo intraprendere una strada allora dovevo leggere tutto per capire quale potesse essere quella giusta. Diciamo che ho nuotato un po’ di qua e un po’ di là prima di scegliere il mio percorso.

 

Oltre alla formazione da autodidatta, hai frequentato corsi o seguito maestri?

 

A livello accademico non ho nessun titolo, a parte la miriade di corsi che ho seguito quando ero più giovane e che in verità continuo a seguire. In generale, mi piace molto il modello inglese di Islam perché trovo che sia quello più vicino al modo di vivere in Occidente. Quando mi capita di trovare dei corsi di formazione interessanti in Inghilterra, prendo l’aereo e vado. Ultimamente sto seguendo molto Hamza Andreas Tzortzis, un pensatore di origini greche che vive a Londra.

 

Qual è il suo pensiero?

 

Insieme alla sua squadra, sta lavorando molto sulla questione dell’ateismo dilagante e sul modo per contrastarlo, cioè la da‘wa. Questo è un tema che mi sta molto a cuore perciò ci siamo incontrati per parlarne personalmente. Tzortzis opera attraverso un’organizzazione che si chiama IERA – Islamic Education and Research Academy. Devo a loro una parte della mia formazione inglese; qualche volta sono andato io da loro, altre volte li ho invitati in Italia per tenere dei corsi di formazione.

 

Ci sono altri intellettuali o shaykh che hanno inciso particolarmente sul tuo percorso di formazione?

 

In verità non c’è uno shaykh in particolare. L’impatto più forte l’ho avuto con il Corano, che mi ha cambiato totalmente. Inoltre, sono stato fortunato perché ho imparato l’inglese fin da piccolo e questo mi ha dato l’accesso ad altri imam in giro per il mondo. Purtroppo, però, la comunità musulmana internazionale si trova in un momento di grande confusione: può capitare che ti piaccia uno shaykh e che questo ti deluda nel momento in cui è chiamato a dimostrare la sua coerenza. Molti cadono a causa delle restrizioni imposte nei loro Paesi di origine o per questioni politiche. Non è raro che un grande imam o un grande sapiente taccia di fronte alle ingiustizie anziché denunciarle, magari per paura. Da un lato, il loro atteggiamento è comprensibile se si pensa che in certi contesti basta una parola sbagliata e sei in prigione. Dall’altro, però, le personalità dimostrano di essere tali nel momento del bisogno. Comunque, se devo dire qualche nome di persone che mi hanno ispirato, uno è sicuramente il medico egiziano Ragheb Sergani. Lui mi ha fatto amare quella storia che fino al giorno prima mi era totalmente indifferente se non addirittura qualcosa di estremamente noioso. Raccontava la storia islamica in maniera obiettiva, mettendo in luce le cose giuste e le cose sbagliate che sono accadute dai tempi del Profeta fino a oggi. Ho iniziato ascoltando le lezioni sul suo sito, poi ho avuto il piacere di incontrarlo di persona in Italia e di poterlo accompagnare nei suoi viaggi. Tra l’altro, mi pare che sia cittadino americano e che da 6-7 anni a questa parte lui e tanti altri non possano più entrare in Europa. Solitamente partecipava alla fiera islamica che si tiene annualmente a Bourget, in Francia, e che riunisce per tre o quattro giorni i musulmani d’Europa. A un certo punto la Francia ha rifiutato il visto a molti relatori, tra cui lui. Sì, Ragheb Sergani ha dato sicuramente una svolta al mio pensiero: capire il passato per riuscire a vivere il presente e proiettarsi verso il futuro.

 

Per quanto riguarda l’Islam classico, ti piace qualche autore in particolare?

 

Gli imam delle quattro scuole giuridiche mi sono piaciuti uno più dell’altro. Inizialmente facevo riferimento soprattutto alla scuola hanbalita, la scuola di riferimento dell’Arabia Saudita e di altri Paesi del Golfo. Negli anni l’ho abbandonata e mi sono avvicinato a quella hanafita. Abū Hanīfa, il fondatore, era un uomo lungimirante, capace di vedere oltre il momento. Altri personaggi che mi hanno ispirato sono senz’altro al-Ghazālī e Ibn Taymiyya.

 

Perché hai scelto di far riferimento all’Islam inglese piuttosto che a quello di altri Paesi europei, come quello francese, per esempio?

 

Soprattutto per una questione linguistica, perché conosco l’inglese. Inoltre, tra i due, il modello inglese è quello che sento più vicino, per come vivono i musulmani nel Regno Unito e per l’approccio che ha il governo verso l’Islam. L’Islam inglese è più libero.

 

Intendi per la presenza degli Sharia Councils e per la possibilità di costruire, più facilmente che altrove, dei luoghi di culto?

 

Solo in parte. Ciò che più mi affascina forse è la libertà di espressione: in Gran Bretagna puoi dire cose sbagliate, giuste, o metà e metà, puoi essere sunnita, sciita, sufi. In questo oceano puoi essere chi vuoi. Penso invece che in Francia non ci sia poi così tanta libertà, a dispetto del loro motto. Preferisco imparare da chi è libero, piuttosto che da chi non lo è.

 

Come ti definiresti come musulmano?

 

Mi definirei semplicemente musulmano. Non sono salafita, non sono sufi, anche se riconosco che bisognerebbe fare un misto di queste due cose.

 

Anche se sono in antitesi? I salafiti non vedono di buon occhio le pratiche sufi…

 

La verità sta nel mezzo. Il Corano dice che l’Islam è la religione della via mediana. Non serve troppa rigidità nella pratica, né la spiritualità dev’essere portata agli estremi. Penso proprio che una via di mezzo tra il salafismo e il sufismo sarebbe la cosa migliore.

 

Che cosa pensi dell’Islam politico?

 

Chiunque studi l’Islam sa che questo ha una grandissima influenza sulla politica. L’Islam politico di oggi però non ha la forza né la lucidità per affrontare le sfide del mondo. Quando i Fratelli musulmani hanno preso il potere in Egitto sono durati solo un anno perché, fondamentalmente, non avevano gli strumenti per affrontare il grande scacchiere del mondo.

 

Qualche tempo fa hai pubblicato un video di Ahmadou Bamba sulla tua pagina Facebook. Che cosa ti piace del sufismo muride?

 

Nulla! Rispetto Ahmadou Bamba come persona, pace all’anima sua, ma di lui non mi piace nulla. Non sono ostile ai muridi, ma semplicemente non è il mondo in cui sono cresciuto. Ogni tanto però mi trovo a dovermi confrontare con loro perché a Lecco c’è una diaspora africana musulmana molto consistente. Comunque, ho postato quel video perché sui social mi seguono molti giovani di estrazione e formazione culturale diverse, sono persone che si stanno formando e penso che molti di loro stiano facendo gli stessi errori che feci io dieci anni fa. Loro nutrono delle aspettative nei miei confronti, si aspettano che dica loro una cosa piuttosto che un’altra. Perciò a volte cerco di metterli in crisi citando imam o personaggi controversi.

 

Immagino che i musulmani africani che vivono a Lecco provengano soprattutto dal Senegal…

 

Sì, molti sono senegalesi. Ma ci sono anche persone originarie della Costa d’Avorio, del Burkina Faso, del Ghana, e qualcuno dal Mali e dalla Nigeria. Ci sono tanti arabi e qualche asiatico. In generale, i senegalesi costituiscono una realtà a parte, è difficile entrare nel loro mondo. Hanno le loro preghiere e le loro festività. Quando faccio il sermone del venerdì parlo ai musulmani di tutte le provenienze perciò spesso cito nomi di personaggi diversi per far sì che possano avere una visione a 360 gradi dell’Islam. Lo faccio in chiave educativa, per ampliare un po’ la loro percezione. Quando parlo di un personaggio mi accade spesso di ricevere molte critiche in privato. Probabilmente è quello che cerco. Sia chiaro però, non cerco il jadal, la disputa, che è cosa da evitare. Il fatto è che, quando parlano, le persone trasmettono la loro visione dell’Islam senza essere consapevoli che l’Islam non è solo quello che stanno promuovendo. Quindi il mio tentativo è far percepire che esistono tante altre porte, tante altre persone che meritano di essere conosciute, soprattutto quelle che parlano al pubblico.

 

Veniamo al Centro culturale islamico di Lecco. Come sei diventato imam della comunità?

 

Sono imam a Lecco dal 2015. È nato tutto quasi per caso: la prima volta sono arrivato là per un’emergenza, bisognava sostituire l’imam che era in viaggio. Mi sono accorto che il pubblico era per la maggior parte non arabofono perché, come ti dicevo, la comunità musulmana lecchese è composta soprattutto da africani che dunque hanno difficoltà con l’arabo. Molti hanno gradito il fatto che parlassi in italiano. Oggi, infatti, se qualcuno mi sostituisce deve parlare italiano. Ho cominciato facendo delle lezioni il sabato, poi il sermone del venerdì. Diciamo che sono rimasto lì soprattutto per volontà delle persone, non perché mi fossi proposto. Sono piaciuto, ma come dico spesso anche ad altri imam, non è che sono bravo ma sono tra i pochi che parlano italiano perché sono cresciuto qua.

 

Quanti fedeli frequentano il centro?

 

Alla preghiera del venerdì partecipano dai 200 ai 500 fedeli, mentre arriviamo a 1000 persone durante le festività. È una realtà di medie dimensioni.

 

Il centro ha aderito all’Ucoii?

 

Sì, anche se aderire all’Ucoii non significa necessariamente aderire alla sua linea. L’Ucoii oggi non ha un ruolo centrale negli affari della moschea. Quello che la maggior parte delle moschee richiede all’Ucoii è che si impegni per la questione del riconoscimento da parte dello Stato.

 

Secondo te l’Ucoii ha ancora un ruolo di coinvolgimento vero delle realtà islamiche in Italia?

 

Purtroppo no. Vedo però che Yassine Lafram [Presidente dell’Ucoii, NdR], nonostante le mille difficoltà che esistono, intracomunitarie e con lo Stato italiano, sta facendo un grande lavoro cercando di comunicare molto con le moschee e di coinvolgerle nelle iniziative. Non conosco la situazione finanziaria dell’Ucoii ma temo che negli ultimi anni sia un po’ in sofferenza.

 

Le moschee che aderiscono devono versare un contributo?

 

Dovrebbero, ma non sempre riescono perché le moschee vivono dei contributi dei fedeli. È vero che a volte possono arrivare dei finanziamenti dall’estero, solitamente per l’acquisto di un immobile, ma questi finanziamenti non coprono mai anche le spese di gestione. Può accadere che piova dal cielo un milione di euro con cui si compra un edificio, ma che poi manchino i fondi per gestirlo. Per le moschee non è facile. La maggior parte degli imam, per esempio, non riceve alcun trattamento economico. Quando ho fondato la moschea a Cinisello Balsamo, di cui sono stato Presidente, ho cercato di ovviare a questo problema. Per me era centrale che l’imam non avesse problemi economici. Il suo lavoro è guidare le persone e deve poterlo fare in maniera serena, senza dover pensare a come pagare le bollette a fine mese.

 

A Lecco organizzate anche attività inter-culturali o inter-religiose?

 

Da circa un anno ho cominciato a collaborare stabilmente con una realtà cattolica che si trova proprio di fronte alla nostra moschea. “La casa sul pozzo” è una comunità guidata da Don Angelo. Organizzano attività di dopo scuola e di accoglienza per i giovani. Abbiamo organizzato insieme alcune conferenze pubbliche. Una di queste metteva a tema la Dichiarazione di Abu Dhabi firmata da papa Francesco e dal Grande Imam di al-Azhar. Insieme abbiamo organizzato anche una cena in strada durante il Ramadan per la cittadinanza. Lecco, che sembrerebbe una città chiusa, ha risposto molto bene. Abbiamo mangiato couscous e spezzatino con polenta, è stata una cena fantastica. Tra l’altro sono contento di dire che è stata una mia idea perché volevo vedere gli africani e gli arabi mangiare la polenta e lo spezzatino! Gli italiani, dal punto di vista culinario, sono molto più aperti e mangiano qualsiasi cosa, mentre gli arabi e gli africani, a meno che non si tratti di lasagna o pizza, prediligono la loro cucina tradizionale. L’anno scorso, sempre con don Angelo, abbiamo organizzato tre serate di conoscenza dell’Islam a cui hanno partecipato in media 30/40 persone.

 

Organizzi attività anche a Milano?

 

Sì, l’anno scorso per esempio tenevo ogni martedì una lezione sulla vita del Profeta. In generale, organizzo attività là dove si aprono delle opportunità. Tengo corsi di formazione a Bergamo una volta al mese, a Cinisello incontro i giovani ogni mercoledì, poi anche a Roma e Torino.

 

Ho visto sul tuo blog che sei uno dei fondatori dell’Associazione Scout Musulmani Italiani (ASMI). Com’è la realtà degli scout musulmani in Italia?

Ho fondato quest’associazione insieme ad altre tre persone, io ero il tesoriere. L’ASMI è nata come realtà nazionale per la formazione dei giovani. Dopo aver attraversato una fase di coma, ha ripreso piede a livello locale, soprattutto a Milano, Saronno e Verona.

 

Se non sbaglio, fai anche street da‘wa

Sì, ho iniziato tanti anni fa e probabilmente, insieme al mio gruppo, siamo stati tra i primi a fare la predicazione di strada. L’obiettivo della street da‘wa è essere presenti. Si tratta fondamentalmente di dare la possibilità alle persone di conoscere l’Islam rispondendo alle domande che ci vengono poste e distribuendo opuscoli informativi.

 

Secondo te un giovane musulmano italiano che oggi vuole conoscere meglio l’Islam, a quali imam europei potrebbe far riferimento?

 

Non mi sono mai posto la questione. Io direi che dovrebbero cominciare frequentando la loro moschea locale. Sulle questioni pratiche come la preghiera, il digiuno, il lavoro… ogni imam può rispondere. Per chi invece vuole seguire un percorso di formazione accademica esistono degli istituti creati ad hoc, come l’Institut Européen des Sciences humaines di Château-Chinon in Francia. Quella è sicuramente un’opzione valida. Per chi vuole studiare in Inghilterra invece consiglierei lo IERA, l’Islamic Education and Research Academy. E poi c’è il Consiglio europeo per la Ricerca e per la Fatwa in Europa, che è sicuramente un’istituzione valida per le grandi domande.

 

Secondo te, i musulmani italiani conoscono il Consiglio europeo della Fatwa?

 

Lo conoscono gli imam. In generale, il 99% delle persone che sono emigrate in Italia lavorano e non si interessano molto a queste questioni. Anche perché per loro vale quello che dice l’imam in moschea. Poi, quando tornano a casa, accendono la tv e ascoltano il mufti egiziano o saudita, che spesso dicono cose diverse rispetto all’imam della moschea, e questo genera confusione. In ogni caso, il Consiglio europeo della Fatwa è un punto di riferimento per i centri culturali che promuovono il fatto di essere italiani, ma non lo è per i centri che promuovono l’Islam consolare. Penso per esempio all’Islam marocchino, o alle realtà che guardano all’Arabia Saudita, o più in generale, al Golfo.  

 

Ci sono ancora molti centri culturali in Italia che fanno riferimento all’Arabia Saudita?

 

Sì, ma più per una questione di pensiero che economica. Di centri salafiti in Italia ce ne sono parecchi. A Milano c’è quello in via Stadera. Invece non so se si possono definire salafiti i centri di via Quaranta e di viale Jenner, perché sono ormai a gestione egiziana più che saudita. Anche se la differenza di pensiero è minima. Alcuni centri salafiti sono presenti anche a Genova e a Torino.

 

Come sta evolvendo secondo te l’Islam italiano?

 

Diciamo che non è appena nato, ma è come un bambino alle elementari. L’Islam italiano è in fase di formazione e sta cercando di imparare dalle esperienze degli altri Stati, possibilmente senza ripetere gli stessi errori.

 

Che cosa intendi?

 

Esiste una prima generazione che ha gettato le fondamenta, costruito moschee, organizzato attività e stretto rapporti. Poi c’è una generazione di musulmani nati in Italia e una generazione di musulmani emigrati da altri Paesi che, quando arrivano, non capiscono tutto il lavoro che è stato fatto dalla prima generazione. Può capitare che mettano in discussione ciò che è stato fatto prima e che nascano dei conflitti. A questo proposito mi è rimasta impressa una cosa che mi aveva detto shaykh Pasquini [imam della moschea di Segrate, NdR]: «Se Dio ama un popolo chiude la porta della discussione e apre quella del lavoro. Se invece non ama un popolo, apre la porta della discussione e chiude quella del lavoro». Il mio tentativo è chiudere la porta delle discussioni. Il fatto è che, spesso, non si è valorizzato abbastanza il contributo delle prime generazioni, e molte persone sono rimaste incomprese.

 

Chi corre il rischio di rimanere incompreso?

 

Molti della prima generazione come Ali Abu Shwaima, Nouri Dachan o Aboulkheir Breigheche di Trento. Loro hanno una grande conoscenza e un grande carisma, ma si sono trovati spesso in contrasto con le ventate di Islam provenienti dal Golfo.

 

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