Dopo l’ultima ondata di attentati jihadisti, i musulmani francesi che promuovono una rilettura della tradizione islamica hanno iniziato a trasformare le proprie idee in azioni collettive

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:23

In diversi punti della sua opera, il grande islamologo Jacques Berque, per venticinque anni titolare della cattedra di Storia sociale dell’Islam contemporaneo al Collège de France, dispensa, con il linguaggio allo stesso tempo erudito e poetico che lo caratterizzava, il suo I have a dream alla Luther King. Ne L’islam au temps du monde, per esempio, egli immaginava che «tornare contemporaneamente alle pienezze cosmiche e alle disponibilità razionali del messaggio significasse per l’Islam moderno dispiegare nuovamente il ventaglio di potenzialità frantumato da una sfortunata storia»[1]. Poco prima della sua morte nel 1995, scriveva inoltre al suo complice Jean Sur:

Supponga che si crei in Francia non un Islam francese, ma un Islam di Francia, per semplificare diciamo un Islam gallicano, cioè un Islam che sia al corrente delle preoccupazioni di una società moderna, che risolva i problemi che non ha mai dovuto risolvere nelle sue società di origine, le quali, per ragioni storiche, non sono società al livello del nord del Mediterraneo. Immagini la risonanza che questo Islam del progresso avrebbe nel resto dell’area islamica[2].

A più di vent’anni dalla formulazione di questo pio desiderio, social network e siti della comunità musulmana brulicano di appelli a emanciparsi da una parte della Tradizione musulmana (criticando la giurisprudenza, relativizzando il corpus degli hadīth, contestualizzando e reinterpretando il Corano…) e propongono nuovi paradigmi ai musulmani che vivono in un ambiente secolarizzato. Tutto ciò non manca di provocare le reazioni delle tendenze conservatrici. Negli ultimi anni, con il venire a galla dell’arcipelago riformista, i dibattiti si sono intensificati, con un forte effetto d’accelerazione in seguito agli attentati del 2015 in Francia. In questo articolo ci soffermeremo sulle dispute che hanno costellato lo spazio discorsivo musulmano francese (o francofono, includendo un gruppo Facebook gestito da alcuni belgi) soprattutto negli ultimi tre anni, con un picco nel 2017 e nel 2018.

 

La svolta degli attentati del 2015

 

Oltre agli effetti securitari e politici che conosciamo, gli attentati del gennaio 2015 contro Charlie Hebdo e l’Hypercasher, da parte dei fratelli Kouachi e di Amédy Coulibaly (rispettivamente 11 e 4 morti), poi quelli del 13 novembre al Bataclan, in una serie di caffè parigini e nei pressi dello Stade de France (131 morti), hanno avuto l’effetto di accelerare i dibattiti critici tra differenti sensibilità dell’Islam in Francia e non solo.

 

Il successo della Lettera aperta al mondo musulmano[3] di Abdennour Bidar ne è stata solo la manifestazione più visibile. In questo testo, scritto in prima persona, l’autore accusa un mondo musulmano “personificato” di rifugiarsi «nel riflesso dell’autodifesa senza assumersi anche, e soprattutto, la responsabilità dell’autocritica». Pone poi una serie di domande al suo interlocutore idealtipico (aspetto sul quale è stato criticato), tra le quali: «perché questo mostro ignobile (Isis, NdR) ha scelto il tuo volto e non un altro? Perché ha preso la maschera dell’Islam e non un’altra?». Anche altre personalità come Rachid Benzine, Tareq Oubrou (l’uno islamologo, l’altro imam, entrambi franco-marocchini) o Asma Lamrabet (biologa e teologa di nazionalità marocchina), o ancora il Dottor al-Ajamî (pseudonimo di un medico e teologo musulmano che propone un approccio detto “letterale” al Corano[4]) hanno formulato le loro diagnosi. Non possiamo soffermarci su tutte le valutazioni e le proposte avanzate da questi pensatori riformisti o critici, non solo dopo gli attentati ma anche in precedenza[5]. Esse costituiscono una prima ondata di appelli a riformare la tradizione islamica in Francia, che continua l’opera critica (nel senso forse tanto kantiano quanto marxista) di tre grandi pensatori – Mohammed Arkoun, Mohammed Abed al-Jabri e Nasr Hamid Abu Zayd –, dopo la loro morte del 2010.

 

Constatiamo tuttavia che queste velleità critiche nell’Islam (cioè provenienti da musulmani che si definiscono pubblicamente come tali) sono sopravvissute al periodo traumatico degli attentati e si stanno affermando nello spazio discorsivo musulmano, suscitando reazioni accese da parte di un insieme di attori che intendono difendere “la tradizione” e le interpretazioni classiche dell’islam contro quelli che, dall’interno, chiedono (rivendicando l’appartenenza alla religione musulmana e lavorando sul corpus islamico) un aggiornamento. L’aspetto più interessante di questo fenomeno è il fatto che, ormai, gli attori del riformismo musulmano in Francia aggiungono alla critica della tradizione classica modalità pratiche di organizzazione e di azione collettiva (ed è per questo che possiamo parlare di affermazione e non solo di comparsa).

 

Definire il “riformismo musulmano”

 

Prenderemo in prestito la definizione di riformismo musulmano di Steven Duarte, docente all’Université Paris XIII e autore di una tesi sull’argomento[6], il quale identifica gli approcci riformisti all’Islam attraverso cinque criteri:

  1. La «coscienza di una crisi profonda dell’Islam»;
  2. La padronanza minimale del linguaggio del patrimonio antico (turāth);
  3. L’«apertura all’alterità» (in termini di confessione o convinzione);
  4. Un “orizzonte d’attesa” definito principalmente dalle popolazioni musulmane;
  5. Il mantenimento di una normatività religiosa, anche se adattata.

 

Attraverso questi criteri, Duarte punta a delimitare un’attività, quella dell’islāh (riforma, NdR), a cui si sono richiamate numerose sensibilità, a volte molto diverse. Le persone di cui tratta questo articolo condividono più o meno queste cinque tra preoccupazioni (1, 3, 5) e disposizioni (2 e 4).

 

La riflessione di un riformista della seconda ondata

 

Nel contesto della diffusione del fenomeno jihadista tra Medio Oriente ed Europa, il 1 luglio 2017 Le Monde dà la parola a Omero Marongiu-Perria, in un articolo intitolato Aprire l’Islam contemporaneo per lottare contro il jihadismo, in occasione della pubblicazione del suo Riaprire le porte dell’Islam. Ma il libro, così come l’intervista, va al di là della critica della strumentalizzazione della tradizione religiosa musulmana da parte dell’Isis. Marongiu-Perria, che ha gravitato nell’orbita dell’UOIF (Unione delle Organizzazioni Islamiche di Francia, NdR) e ha avuto un’esperienza iniziale come imam nel corso degli anni ’90, prima di dedicarsi agli studi di sociologia e di prendere una direzione riformista, difende infatti l’idea che più in generale è con il “paradigma egemonico”[7] dell’Islam sunnita che occorre fare i conti (sul piano critico). È questo infatti a produrre anacronismi e regressioni e a creare un divario tra i musulmani da un lato e il contesto secolarizzato e le esigenze delle democrazie liberali dall’altro. Il paradigma egemonico è costituito, secondo lui, da cinque elementi:

la visione di un Dio che domina sul mondo e che è essenzialmente preoccupato dal computo delle azioni umane; il rapporto di sottomissione a questo Dio, che si traduce per i musulmani in un sistema coercitivo a volte molto violento; la necessità di dominare i non-musulmani e il famoso statuto dei dhimmi, o “protetti” dello Stato musulmano; il rapporto di dominazione sulla donna; infine, il controllo rigoroso della vita privata e pubblica attraverso un sistema di costrizione piuttosto sofisticato.

Questi cinque elementi costituiscono secondo Marongiu-Perria un «sistema coerente» che continua a strutturare il rapporto dei leader religiosi musulmani con il mondo e con l’Islam.

 

Copertina Marongiu-Perria.jpgCosì, nella sua opera, dopo aver presentato la sfida che l’Isis rappresenta per il pensiero teologico musulmano contemporaneo, dal momento che i suoi ideologi fanno leva su versetti del Corano, hadīth e fiqh medievale, Marongiu-Perria concentra il suo lavoro critico sui rappresentati della tradizione giuridica malikita in Francia e altrove. Egli si sofferma sul caso particolare della schiavitù, giustificata (in Mauritania soprattutto) perché il Corano la permette ad alcune condizioni. In conclusione, il pensatore francese individua tre grandi problemi: «la sacralizzazione delle fonti e dei personaggi dell’Islam» da parte dei leader religiosi (p. 171), la diffusione di una letteratura islamica, prevalentemente giuridica ed esegetica, anacronistica e decontestualizzata, priva di apparato critico (p. 172) e infine la chiusura dei leader religiosi nella «storia mitica»[8] (p. 174). L’opera è provvista di un solido apparato di note e di una bibliografia in cui non mancano i testi di giurisprudenza classica.

 

L’intervista su Le Monde, portando nello spazio pubblico lo sforzo di reinterpretazione (ijtihād) di Marongiu-Perria, non ha tardato a suscitare reazioni sui siti della comunità musulmana. Mizane.info e Saphirnews hanno ospitato, poco meno di due mesi dopo, due editoriali che, senza presentarsi come tali, sono sembrati una risposta alle critiche della tradizione e alle pretese riformiste esposte sulla pubblica piazza. È stato il giornalista e saggista Fouad Bahri, proveniente dal settimanale franco-turco Zaman, a ribattere per primo su Mizane (proprietà dei dirigenti delle edizioni AlBouraq). La sua risposta, intitolata L’islam contemporaneo davanti alla duplice sfida del wahhabismo e del riformismo, mette sullo stesso piano il rigorismo dalle radici medievali e la volontà di adattare la normatività e certe concezioni classiche dell’Islam alle esigenze contemporanee. Dopo un incipit molto breve sul wahhabismo, i restanti due terzi dell’articolo sono dedicati a stroncare le pretese di quello che l’autore definisce «liberal-riformismo», animato da una «mistica della libertà» che è solo «un inganno». Questo liberal-riformismo, che l’autore distingue nettamente dall’«umanesimo religioso», è accusato di rompere con il «teocentrismo islamico» per favorire e persino sacralizzare un «antropocentrismo modernista». Egli vede in questa tendenza un «vero e proprio cavallo di Troia ideologico della secolarizzazione dell’Islam, pensata e voluta dall’élite francese».

 

A distanza di poco più di un mese, gli ha fatto eco Sofiane Meziani, con un fondo dal titolo emblematico (Riformare o svendere l’Islam?), rincarando la dose qualche giorno dopo con un articolo intitolato L’islam, la decostruzione e il risollevamento dell’Occidente, che fin dall’incipit lascia pochi dubbi, se ancora ne restassero, sulla sua sensibilità antimoderna («…la modernità non è nient’altro che un’impresa di desacralizzazione»). Non possiamo sviluppare qui gli argomenti di tutti gli avversari del riformismo. Precisiamo soltanto, in un abbozzo di sociologia di questo campo della disputatio musulmana in Francia, che Meziani, autore di un Piccolo manifesto contro la democrazia, è professore di Etica al Liceo Averroè di Lille, fondato dal presidente dei Musulmani di Francia (ex UOIF) Amar Lasfar, ed è regolarmente invitato come conferenziere a eventi sul pensiero islamico in Francia. Il sito Mizane lo presenta come un sostenitore del guenonismo tradizionalista, una sensibilità mistica che promuove un’ortoprassi collegata a una critica della modernità sulla linea di René Guénon. Vi è inoltre una filiazione intellettuale da Tariq Ramadan. D’altro canto, non era la prima volta che un guenoniano francese attaccava i sostenitori della riforma dell’Islam: nel 2017, sul canale Youtube Sawt24, Slimane Rezki ha pubblicato un video, ripreso dal sito Mizane, che criticava la nozione stessa di “riforma” (alla quale preferisce quella di “restaurazione”), infarcito di termini poco piacevoli nei confronti di coloro che classificava in questa categoria. Marongiu-Perria ha deciso, in seguito alle tre invettive di Bahri, Meziani e Rezki, di insistere sulla questione in modo abbastanza diretto, firmando un editoriale su Saphirnews, inequivocabilmente intitolato Bisogna sopprimere la tradizione musulmana egemonica.

 

Si potrebbero prendere altri esempi della diffusione di posizioni riformiste nel campo musulmano e dei conseguenti dibattiti, come l’interessante caso di Hocine Kerzazi, professore di storia e geografia al liceo e dottorando in islamologia, che sul sito oumma.com divulga a beneficio dei suoi correligionari i risultati degli ultimi approcci storico-critici, soprattutto di quelli applicati agli hadīth. Si potrebbero aggiungere le opere e gli editoriali di Malik Bezouh, Mohammed Chirani, Michaël Privot, o ancora Farid Abdelkrim, che condividono con Oubrou e Marongiu-Perria il fatto di essere stati tutti, a un certo punto del loro percorso, “Fratelli musulmani”, o almeno membri attivi dell’UOIF, e di essere ora i primi critici del rigorismo, e più direttamente della federazione alla quale sono appartenuti. Non possiamo sviluppare oltre questa tematica. A questo punto è tuttavia interessante notare il modo in cui queste dinamiche riformiste si prolungano, attraverso l’impegno associativo, oltre lo spazio della disputatio digitale, traducendosi in velleità di occupazione di una parte dello spazio socio-religioso musulmano in Francia.

 

Dalla disputatio digitale al campo socio-religioso musulmano in Francia

 

Recentemente, sono nate tre associazioni che si collocano in modo abbastanza netto all’interno della tendenza riformista. Nel febbraio del 2017, è stata creta l’Association pour la renaissance de l’islam mutazilite (Associazione per la rinascita dell’Islam mu‘tazilita, ARIM), per iniziativa dell’attuale Presidente Faker Korchane, professore di filosofia in una scuola superiore, e della tesoriera Eva Janadin (pseudonimo), convertita, ricercatrice e dottoranda in storia dell’Islam. Questa corrente razionalista dell’Islam, che postula principalmente il carattere creato del Corano, ha conosciuto il suo momento di gloria nel IX secolo sotto il califfato di al-Ma’mūn (813-833), prima di scomparire nelle vicissitudini della complessa storia delle relazioni tra religione e politica. I promotori dell’ARIM mostrano chiaramente l’ambizione di far conoscere in Francia questa corrente, il cui scopo è, secondo le loro parole, di «unire la ragione alla fede, cioè di approcciarsi alla Rivelazione alla luce della riflessione (fikr) e del discernimento (furqān)».

 

Il loro slogan è costituito da un gioco di parole a partire dall’acronimo della loro associazione (ARIM): «Arrimons la raison à la foi (ancoriamo la ragione alla fede)». Per farlo, si fissano tre tipi di obiettivi: “culturale”, “intellettuale” e “spirituale”. Il loro sito è un tentativo di rispondere ai primi due, mettendo a disposizione delle risorse pedagogiche (vedi lo screenshot qui sotto). La categoria “strumenti”, per esempio, offre molti contenuti, divisi in otto sottocategorie: “Storia”, “I 5 principi del mu‘tazilismo”, “Dizionario”, “Video pedagogici”, “Recensioni”, “Ritratti”, “Biblioteca in linea” e “Bibliografia”. La sottocategoria “Storia” è suddivisa a sua volta in sette schede, tra le quali troviamo una presentazione generale del contesto in cui si è sviluppato il mu‘tazilismo, una breve biografia del califfo al-Ma’mūn e della mihna (le persecuzioni messe in atto dal Califfo contro chi non si conformava alla dottrina ufficiale mu‘tazilita, NdR) o ancora un’introduzione alla dottrina teologica ash‘arita.

Mutaziliti Francia.JPG

 

L’obiettivo spirituale è quello di «ricostruire un nuovo modo di essere musulmani(e), traendo le conseguenze di questo lavoro critico per la nostra pratica spirituale». Questo contesto associativo promette sia di preservare i propri membri da «qualsiasi giudizio o pressione comunitaria e familiare» sia di tenersi a distanza «da qualsiasi discorso denigrante o apologetico sull’Islam». È inoltre previsto uno «spazio di creatività artistica (scrittura, arti grafiche, musica, ecc.)», che intende «dare la possibilità a ognuno e a ognuna di esprimersi e valorizzare quest’eredità culturale e spirituale che è l’Islam».

 

Dalla fine del 2018, i cofondatori di questa iniziativa si sono inoltre lanciati in altri due progetti, che hanno dato vita ad altri due sodalizi e hanno rapidamente attirato l’attenzione sia degli ambienti musulmani riformisti e liberali sia dei conservatori, oltre che di un pubblico più ampio (non-musulmano). Korchane si è infatti alleato con Kahina Bahloul, quarantenne franco-algerina, agente assicurativa e aspirante imam, che ha conseguito un master in islamologia all’École Pratique des Hautes Études (EPHE) e vanta una formazione tradizionale acquisita in Algeria. Il loro progetto è quello di fondare una moschea “inclusiva”, in cui una donna possa esercitare l’imamato universale (dirigere indifferentemente la preghiera dei fedeli maschi e femmine) e in cui uomini e donne possano pregare fianco a fianco. La moschea (o più probabilmente sala di preghiera, per cominciare) dovrebbe chiamarsi Fatima, dal nome della figlia che il profeta Muhammad ebbe dalla sua prima moglie Khadija.

 

Da parte sua, Eva Janadin si è avvicinata ad Anne-Sophie Monsinay (pseudonimo), professoressa di musica alle superiori, influenzata dal lavoro del filosofo iqbaliano Abdennour Bidar, per lanciare, alla fine del 2018, il progetto della moschea Sīmorgh. Questa «non aderirà a nessuna obbedienza giuridica dell’Islam, ma s’ispirerà agli insegnamenti della mistica sufi in un cammino progressista e non tradizionalista», come scrive Monsinay in un post di presentazione su Facebook. Questo luogo di culto sarà gestito dall’associazione V.I.E. (Voie pour un Islam Eclairé, “Via per un Islam Illuminato”), lanciata qualche mese prima, nel settembre del 2018. Quattro principi guideranno la gestione di questo spazio di culto:

  1. L’uguaglianza degli individui (imamato delle donne, promiscuità durante preghiera, nuovo statuto degli imam);
  2. Le libertà individuali (preghiera con o senza velo per le donne;
  3. L’inclusione;
  4. La francofonia (sermoni in francese, possibilità di dirigere la preghiera in arabo o in francese).

 

L’annuncio del progetto è seguito da un invito a sostenere finanziariamente l’iniziativa e si conclude con la formula «che la pace sia con voi. Salām». Uno dei primi ostacoli tecnico-giuridici con cui Janadin e Monsinay hanno dovuto fare i conti è il fatto che l’associazione V.I.E. che avevano precedentemente creato era stata costituita come associazione ai sensi della legge del 1901, cioè a carattere culturale e non cultuale (come molte altre associazioni musulmane, costituite secondo la legge del 1901, anche se hanno uno scopo cultuale).

A differenza del progetto di moschea Sīmorgh (Eva Janadin e Anne-Sophie Monsinay), in cui in fedeli potranno disporsi a proprio piacimento senza dover occupare spazi prestabiliti a seconda del sesso, la moschea Fatima (Faker Korchane e Kahina Bahloul) precede due spazi distinti, anche se affiancati, nella stessa sala, di fronte al mihrab e al minbar

 

A spingerle a proseguire questa dinamica, inserendola in una cornice associativa, è stato il successo di un incontro svoltosi all’insegna dell’“Islam progressista”, che ha cercato nuove vie d’espressione della fede musulmana e spazi fisici di dialogo. Questo evento, organizzato per la prima volta nel 2017 a Parigi, al Forum 104, aveva radunato un centinaio di persone. Tra gli oratori c’era Abdennour Bidar.

 

Le due coppie, promotrici di progetti di moschee o sale di preghiera, non sono riuscite a collaborare a causa di alcune differenze di visione su dei dettagli pratici, di natura se non teologica almeno etica. Per esempio, Korchane et Bahloul sono sostenitori di una promiscuità senza vincoli di posizionamento, in cui gli uomini e le donne possono pregare indifferentemente fianco a fianco o gli uni dietro alle altre (o viceversa), mentre Janadin e Monsinay propongono la condivisione della stessa sala, ma con gli uomini davanti alle donne, per ragioni legate all’atto di prosternazione (sujūd). È necessario notare, per quanto rapidamente, che i quattro attivisti si sono contemporaneamente avvicinati all’Association Musulmane pour l’Islam de France (Associazione Musulmana per l’Islam di Francia, AMIF) lanciata sempre alla fine del 2018 dal consulente ed ex-consigliere di Jean-Pierre Raffarin, Hakim el-Karoui, che ha lo scopo di trovare delle modalità di finanziamento autonomo del culto musulmano (soprattutto attraverso una tassa sullo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca).

 

Le reazioni degli oppositori delle moschee inclusive e dell’imamato femminile

 

Dopo la pubblicazione, nel gennaio 2019, dei primi articoli su questi progetti, sul profilo Facebook di un imam del sud-est della Francia, Noureddine Aoussat, è apparso un lungo post che sarebbe poi stato diffuso su diversi gruppi. Secondo il testo, intitolato Moschee inclusive o piuttosto nocive?, «queste moschee dette inclusive hanno un solo scopo: sottrarsi alla legge islamica e alla tradizione profetica». L’imam afferma che questo potrebbe aprire alla «donna che dirige la preghiera in jeans stretti, senza velo e con un maglione scollato» e che tali pratiche sono estranee a «tutte le regole di interpretazione dei testi».

 

Si possono citare anche le critiche e persino gli insulti ricevuti da Kahina Bahloul. Nel maggio scorso, un’intervista rilasciata dall’attivista al canale Al-Araby ha infatti generato su Facebook 736.000 visualizzazioni, 10.000 reazioni e 3.700 commenti, alcuni dei quali non hanno esitato a rivolgerle espressioni come: «satanista», «brucerai», «shirk (politeismo)», ecc.

 

Oltre alla disputatio virtuale e all’occupazione dello spazio digitale attraverso i gruppi Facebook, i promotori di questi progetti di moschee inclusive partecipano al dibattito teologico e delle idee, occupando lo spazio discorsivo musulmano e non solo. Così, Kahina Bahloul ha recentemente pubblicato sul primo sito intellettuale musulmano in Francia, Les Cahiers de l’islam (I quaderni dell’Islam, che è anche una rivista), un testo che, con tanto di riferimenti teologici, punta a sostenere la possibilità dell’imamato femminile. Dal canto loro, Eva Janadin e Anne-Sophie Monsinay hanno pubblicato un libriccino intitolato Una moschea mista per un Islam spirituale e progressista, nel quale incrociano fonti classiche, elementi di storia (Janadin è specialista dell’epoca abbaside), lavori d’islamologi passati e contemporanei con gli orientamenti personali che desiderano dare al progetto.

 

La capacità dei riformisti di animare il dibattito

 

Queste reazioni rivelano la risonanza sempre più ampia degli approcci riformisti e storico-critici tra i cittadini francesi di confessione musulmana, che vi aderiscono, vi si oppongono, o se ne tengono a distanza. Si tratta di un elemento importate: sono questi approcci a suscitare il dibattito nel campo religioso. Quest’ultimo non è più soltanto lo spazio discorsivo privilegiato delle tendenze salafite e dei fratelli musulmani (o affini), che numerosi specialisti consideravano capaci di imporre l’agenda dei temi da discutere, attribuendo loro, a dir poco, una forma di magistero morale e di rispettabilità che andava al di là dei loro seguaci più prossimi. Siamo all’alba di un identico scenario per la(le) corrente(i) riformista(e)? È ancora presto per dirlo, ma possiamo sicuramente concludere che dopo questa seconda ondata post-attentati del 2015 (e dopo i grandi precursori del mondo arabo e i loro corrispettivi francesi) la corrente riformista ha superato la fase embrionale, per affermarsi senza vergogna nel campo musulmano francese e, soprattutto, dando vita a dei collettivi, a dinamiche associative e ormai a progetti di luoghi di culto.

 

Bibliografia

Farid Abdelkrim, Pourquoi j’ai cessé d’être islamiste. Itinéraire au cœur de l’islam en France, Les Points sur les i, Neully-sur-Seine 2015.

Mohammed Abed al-Jabri, Introduction à la critique de la raison arabe (pres. e trad. A.Mahfoud et M.Geoffroy), La Découverte/IMA, Paris 1994.

Nasr Hāmid Abū Zayd, Naqd al-khitāb al-dīnī, al-Qāhira 1992.

Mohammed Arkoun, Pour une critique de la raison islamique, Maisonneuve et Larose, Paris 1984.

Cédric Baylocq, From Conservative Islam to the ‘Theology of acculturation’; a French imam’s journey in Mohammed Hashas, Jan Jaap de Ruiter, Niels Valdemar Vinding, and Khalid Hajji (a cura di) Imams in Western Europe Developments, Transformations, and Institutional Challenges, Amsterdam University Press, Amsterdam 2018. 

Cédric Baylocq, Questions de pratiquants et réponses d’imam en contexte français, in «Revue des Mondes Musulmans et de la Méditerranée», n. 124 (2008), pp. 281-308, http://remmm.revues.org/6038.

Jacques Berque, L’Islam au temps du monde, Actes Sud-Sindbad, Paris 2003 [1984].

Jacques Berque, Jean Sur, Les Arabes, l’islam et nous, Mille et une nuits, Paris 1996.

Abdennour Bidar, Lettre ouverte au monde musulman, Les liens qui libèrent, Paris 2015.

Mohammed Chirani, Islam de France. La République en échec, Fayard, Parsi 2017.

Omero Marongiu-Perria, Rouvrir les portes de l’islam, Atlande, Neully-sur-Seine 2017.

Sofiane Meziani, Petit manifeste contre la démocratie, Les points sur les i, Paris 2017.

Michaël Privot, Quand j’étais Frère Musulman. Parcours vers un islam des Lumières, La boîte à Pandore, Cherbourg 2017.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Testo tradotto dal francese
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[1] Jacques Berque, L’Islam au temps du monde, Actes Sud-Sindbad, Paris 2003 [1984], p. 270.

[2] Jacques Berque, Sur Jean, Les Arabes, l’islam et nous, Mille et une nuits, Paris 1996, pp. 25-26.

[3] Prima su internet (https://www.huffpostmaghreb.com/abdennour-bidar/lettre-ouverte-au-monde-m_1_b_6443610.html) poi in una versione ampliata, pubblicata nel 2015 dalle edizioni Les liens que libèrent.

[4] Che si differenzia dal cosiddetto “letteralismo” e decostruisce di fatto tutte le costruzioni interpretative classiche dell’Islam, che in tal senso classificheremmo piuttosto all’interno della famiglia “coranista”. È possibile consultare i suoi lavori sul suo sito www.alajami.fr.

[5] Lo abbiamo fatto in un pezzo intitolato «Charlie e i pensatori critici nell’Islam», Junkpage, febbraio 2015, https://journaljunkpage.tumblr.com/post/109678314950/conversation-avec-c%C3%A9dric-baylocq-charlie-les

[6] L’idée de réforme religieuse depuis les indépendances, EPHE, 2014, http://www.theses.fr/2014EPHE5022

[7] L’imam di Bordeaux Tareq Oubrou parla, dall’inizio degli anni 2000, di un Islam alla ricerca del suo «paradigma perduto», parafrasando Edgar Morin. Egli identifica, tra i problemi dell’Islam, il fatto di essere sempre stato pensato in un contesto dominante ed egemonico (al momento dell’espansione, a partire dal IX secolo, e successivamente in situazione maggioritaria), quando invece si tratta di pensarlo come fatto minoritario, per i musulmani di Francia e d’Europa, altrimenti l’importazione di questo «pensiero egemonico» non potrà che generare scontri (Baylocq, 2008, 2018).

[8] Tuttavia, né qui né altrove nell’opera, l’autore sviluppa il concetto arkouniano di “mito-storia”.

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