Con la guerra in Ucraina e il conseguente blocco delle esportazioni di grano, nel Paese nordafricano è sempre più concreto lo spettro di una crisi alimentare. Per il governo non sarà facile trovare una soluzione. Nel frattempo, il presidente prepara gli egiziani citando Corano e vita di Maometto

Ultimo aggiornamento: 06/06/2022 11:22:47

Da diversi mesi in Egitto avanza lo spettro della crisi economica e alimentare. La guerra in Ucraina, a cui sono seguiti l’aumento dei prezzi delle materie prime e il blocco delle esportazioni di cereali, ha inferto l’ennesimo colpo a un’economia egiziana già gravemente compromessa dalla pandemia e da anni di malgoverno. Il 20 aprile scorso, la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva ha suonato il campanello d’allarme dicendo che «le condizioni dell’economia egiziana vanno peggiorando». Piuttosto allarmista è stato anche il Primo ministro egiziano Mostafa Madbouly, che il 15 maggio scorso durante una conferenza stampa ha parlato di una crisi economica senza precedenti.

 

In effetti, i segnali in questo senso sono numerosi e inequivocabili. Dal 2010 al 2020 il debito estero è quasi quadruplicato, raggiungendo alla fine del 2021 la cifra di 145 miliardi di dollari. Quest’anno, secondo le previsioni diffuse dal ministro delle Finanze Mohamed Maait, l’Egitto dovrà restituire 90 miliardi di dollari, una cifra che corrisponde al 54% della spesa pubblica totale, rispetto ai 63 miliardi di dollari restituiti lo scorso anno fiscale.

 

Inoltre, una parte molto consistente del denaro ottenuto in prestito non ha davvero generato ricchezza per il Paese essendo stato investito in progetti non immediatamente produttivi. Rientrano in questa categoria la costruzione della nuova capitale amministrativa, che ha assorbito 60 miliardi di dollari, la realizzazione della linea ferroviaria dell’alta velocità tra Ain El Sokhna ed El Alamein (26,5 miliardi di dollari), della centrale nucleare di El Dabaa (25 miliardi) e di un nuovo impianto per la produzione di energia elettrica (17,5 miliardi).

 

Soprattutto, agli investimenti in grandi opere non sono corrisposti interventi strategici per rendere il Paese autosufficiente nella produzione di beni alimentari di prima necessità. L’Egitto, infatti, continua a dipendere da altri Paesi per la sua sicurezza alimentare: è il maggiore importatore di grano al mondo (13 milioni di tonnellate) e il quarto Paese importatore di mais (9,7 milioni di tonnellate), senza contare che anche il 97% del suo fabbisogno di olio alimentare proviene dall’estero.

 

Questa dipendenza dalle importazioni è ulteriormente aggravata dall’inflazione galoppante. La lira egiziana (geneh) ha perso due terzi del suo potere d’acquisto e i prezzi dei beni primari sono schizzati alle stelle: dal 2013 a oggi il prezzo dell’olio è aumentato da 3 a 27 geneh al litro, lo zucchero è passato da 1,25 a 10,5 lire al chilo, mentre il prezzo del riso è salito da 1,5 a 10 geneh. Anche i prezzi della carne rossa, del pollo e del pesce sono triplicati, con il risultato che è diventato sempre più un lusso trovare questi prodotti sulle tavole degli egiziani. 

 

Complici anche il calo delle rimesse dei lavoratori all’estero, del turismo e delle esportazioni, negli ultimi anni il governo ha tagliato i sussidi ai cittadini e oggi, stando ai dati forniti dall’Agenzia centrale per la Mobilitazione pubblica e le Statistiche (CAPMAS) egiziana, un terzo delle famiglie del Paese non dispone di un reddito sufficiente per far fronte alle necessità alimentari di base.

 

Va ricordato infine che le società di proprietà delle forze armate esercitano un controllo quasi capillare dell’economia nazionale, ciò che di fatto scoraggia l’iniziativa privata benché negli ultimi mesi Sisi abbia auspicato, in più di un’occasione, un maggiore coinvolgimento degli investitori privati nello sviluppo economico nazionale.

 

In questa situazione, il governo egiziano non sembra riuscire a fare molto per venire in soccorso di quel 60% di egiziani che oggi vivono in stato di povertà. Il 21 aprile scorso, durante un incontro con i giornalisti, il presidente ‘Abd al-Fattah al-Sisi ha dichiarato che «le sfide in Egitto sono più grandi di qualsiasi presidente e di qualsiasi governo», in quella che è suonata quasi come un’ammissione dell’impotenza dello Stato di fronte a una situazione che può soltanto peggiorare.

 

Lo scorso 21 maggio, durante il discorso pronunciato in occasione dell’inaugurazione del progetto “Futuro dell’Egitto” (ideato nel 2010 con l’obbiettivo di incrementare la produzione agricola nazionale, poi sospeso con lo scoppio della rivoluzione nel 2011), il presidente ha invitato la popolazione «a sopportare senza lamentarsi» le condizioni di vita sempre più difficili, portando l’esempio del profeta dell’Islam e dei suoi compagni, che, perseguitati dai meccani ostili alla predicazione islamica, vissero tre anni nascosti nella Valle di Abu Talib, tra le montagne di Mecca, cibandosi soltanto di foglie d’albero, senza che mai nessuno si lamentasse per la fame.

 

L’aneddoto menzionato da Sisi fa riferimento alla diatriba che vide protagonisti i meccani politeisti e i clan dei Banu Hashim e dei Banu al-Muttalib, di cui facevano parte Muhammad e la sua famiglia. I meccani chiesero ad Abu Talib, zio del Profeta dell’Islam, di consegnare loro quest’ultimo. Il rifiuto di Abu Talib scatenò la reazione immediata dei meccani, che decisero di rompere tutti i legami sociali ed economici con i due clan, condannandoli così a vivere di stenti per tre anni.    

 

Oltre a questo aneddoto, nel suo discorso Sisi ha citato en passant anche un episodio tratto dalla storia coranica (molto simile a quella biblica) di Giuseppe. Interpretando i sogni del Faraone, Giuseppe profetizzò sette anni di grande abbondanza, seguiti da sette anni di carestia. Nominato viceré d’Egitto, fece immagazzinare il grano raccolto nei primi sette anni per fronteggiare il periodo di magra che sarebbe seguito. Sisi ha annunciato che l’Egitto si prepara a seguire l’esempio di Giuseppe, anche se non è chiaro quale grano potrà immagazzinare visto che i tempi in cui il suo Paese era un grande produttore di cereali sono abbondantemente finiti.        

 

Inutile dire che le boutade del presidente, la prima in particolare, hanno suscitato mille polemiche tra i suoi detrattori, che si sono scatenati sui social pubblicando commenti con gli hashtag “Vattene Sisi! (Irhal yā Sīsī)”, sulla falsariga dello slogan che aveva scandito la rivolta del 2011 contro l’allora presidente Hosni Mubarak, e “Foglie degli alberi (waraq al-shajar)”, in riferimento all’aneddoto citato da Sisi. C’è stato chi si è preso gioco dell’ego del presidente, che ricordando quella vicenda storica sembra quasi paragonarsi al Profeta; chi ha scritto che Muhammad, a differenza di Sisi, «non ha assediato i musulmani, non ha collaborato con gli ebrei contro i musulmani né ha rapito e torturato questi ultimi…»; e chi ha commentato in maniera sarcastica che i compagni del profeta hanno vissuto di stenti per tre anni, non per nove (cioè gli anni di governo di Sisi). E c’è anche chi ha fatto notare che «i compagni non chiesero nulla a Muhammad perché questi era con loro, soffriva la fame con loro e si nutriva di foglie come loro… [Il Profeta] diceva quello che faceva e ne sopportava le conseguenze, prima degli altri e più degli altri, era un “uomo”». A differenza di Sisi, implicitamente accusato di predicare bene e razzolare male. E non è neppure la prima volta che gli vengono rivolte queste accuse.

 

Soltanto pochi giorni fa i suoi oppositori hanno denunciato lo stile di vita opulento del presidente, definendolo un «principe del lusso militare, che ha costruito palazzi presidenziali […] e grattacieli, ma non ha saputo edificare una civiltà umana e sociale, ha creato un’atmosfera di odio tra gruppi e classi sociali, eretto un muro di separazione tra la minoranza sfacciatamente ricca e la maggioranza schiacciata da pratiche politiche ed economiche predatorie […], e distrutto i rapporti umani tra le componenti della società mettendole una contro l’altra».

 

Peraltro, accuse simili erano state mosse al Ra’is anche un anno fa in occasione della parata, letteralmente faraonica, che aveva voluto organizzare per trasferire le mummie di 18 re e 4 regine dell’Antico Egitto dalla sede che le ospitava da un secolo al nuovo Museo Nazionale della Civiltà Egizia a Fustat, la parte più antica del Cairo.

 

Al di là di queste accuse, tutto sommato abbastanza scontate, ciò che colpisce maggiormente nell’atteggiamento del Ra’is è l’uso del linguaggio religioso nei discorsi politici, una tendenza che riflette la difficoltà di Sisi di trovare argomenti e soluzioni concrete che risultino convincenti a una popolazione stremata da anni di conflitti sociali e gravi difficoltà economiche. A questo proposito, bisogna dire che il tema della carestia si presta particolarmente a interpretazioni religiose. Impotente nei fatti, il presidente egiziano sembra puntare sulla sensibilità islamica che ancora caratterizza la maggior parte degli egiziani, con l’obbiettivo, come ha scritto un commentatore sul quotidiano al-‘Arab, «di colmare le distanze tra loro e la presidenza egiziana, e raggiungere i loro cuori attraverso le loro menti».

 

Peraltro, questo tratto religioso che il presidente sceglie di mostrare o nascondere secondo l’esigenza del momento, nell’anno di governo islamista di Mohammad Mursi (2012/2013) gli era valso la fiducia dei Fratelli musulmani, che all’epoca erano soliti definirlo «un ufficiale impegnato nella religione» e che, anche in virtù di quel suo “impegno”, nel 2012 lo avevano nominato ministro della Difesa al posto del maresciallo Mohamed Hussein Tantawi, rimasto in carica per quasi due decenni.

 

Un anno dopo, Sisi avrebbe posto fine all’esperimento di governo dei Fratelli musulmani. La fine dell’islamismo, tuttavia, non ha decretato la fine dell’utilizzo dell’Islam a fini politici, che continua a essere una prassi diffusa, non soltanto in Egitto. A essere cambiato è il modo in cui il linguaggio religioso viene utilizzato: a differenza degli islamisti, che puntano a istituire uno Stato fondato sulla sharī‘a, Sisi ricorre al discorso islamico semplicemente perché la religione è parte integrante del sistema dello Stato e continua a essere il linguaggio che accomuna gli egiziani.

 

Difficilmente però gli episodi tratti dalla biografia del Profeta dell’Islam o dal Corano basteranno a rispondere ai problemi della popolazione. Rischiano invece di crescere le tensioni sociali e la spinta e emigrare.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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