Promettendo un accesso diretto a un Islam ricreato ex novo, la “manipolazione wahhabita” esercita un’attrazione pericolosa sul mondo islamico. Un libro-intervista

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:59

the-mosaic-of-islam.jpgRecensione di Suleiman Mourad, The Mosaic of Islam. A Conversation with Perry Anderson, Verso, London-Brooklyn (NY) 2016 (traduzione francese La mosaïque de l’islam: entretien sur le Coran et le djihadisme avec Perry Anderson, Fayard, Paris 2016)

 

Storico libanese trapiantato negli Stati Uniti, Suleiman Mourad riesce la difficile prova del libro-intervista e per di più su un argomento quanto mai sensibile: l’Islam.

 

Stimolato dalle domande di Perry Anderson – che, per inciso, presuppongono una non comune quantità e qualità di letture sul tema – Mourad, formatosi all’università americana di Beirut e a Yale e oggi professore di religione allo Smith College in Massachusetts, affronta svariati argomenti che si lasciano raccogliere attorno a quattro nuclei: il Corano e l’Islam delle origini; il jihad; la differenza tra sunnismo e sciismo; e infine la crisi del mondo musulmano contemporaneo.

 

Nell’impossibilità di ripercorrere nel dettaglio i contenuti del libro, meritano di essere evidenziate alcune idee-forti che attraversano l’intero volume e lo rendono di grande aiuto per comprendere le dinamiche interne alle società islamiche contemporanee.

 

Innanzitutto, che cos’è il sunnismo? Mourad, pur essendo nato in una famiglia sunnita del Libano meridionale, confessa di aver preso solo gradualmente coscienza della straordinaria varietà di opinioni espresse dagli ulema su quasi ogni questione. E avanza un esempio forse un po’ irriverente, ma che aiuta molto bene a capire il punto: «Il sunnismo classico [...] assomigliava molto all’accademia odierna – oggi si possono mettere insieme varie persone a parlare di Lincoln, Shakespeare o qualsiasi altro argomento e in un panel fatto di quattro oratori ci possono essere opinioni completamente discordanti, ma alla fine della giornata tutti andranno al bar a bere qualcosa insieme. E se scriveranno sul tema, diranno “questa è la mia opinione, ma gli altri vedevano le cose in un altro modo”. Questo è in sostanza quello che noi chiamiamo Islam sunnita, nella sua corrente principale» (p. 82). L’idea fondamentale del sunnismo sarebbe perciò «il compromesso, la convinzione che nessuna setta abbia completamente ragione» (p. 81).

 

Questa posizione è per Mourad, se non morta, quantomeno in grave pericolo a causa della «manipolazione wahhabita» (p. 98) che, promettendo un accesso diretto a un Islam ricreato ex novo, esercita una fortissima attrazione sul mondo islamico, anche a prescindere dalle ingenti risorse economiche di cui dispone. A livello geopolitico il predominio wahhabita si traduce in una «crescente paranoia verso l’Iran» (p. 100). Peraltro, anche Hezbollah e il regime iraniano sono animati da un’ideologia altrettanto settaria: «la differenza è che il messaggio non è diffuso apertamente – è mantenuto all’interno di un circolo chiuso» (p. 135).

 

È nel quadro di tale conflitto che viene riattivata la nozione di jihad, sulla cui storia Mourad ha scritto diversi importanti lavori. Non si tratta ovviamente di negare la dimensione militante e militare di questo istituto, perché – osserva Mourad con grande onestà intellettuale – «la recente pretesa che il jihad significherebbe nell’Islam una lotta interiore è come minimo insincera» (p. 43). Il punto è piuttosto che esso ha conosciuto un’oscillazione a proposito della sua natura di obbligo individuale o collettivo. Dopo le prime conquiste, i califfi abbasidi (750-1258) si sarebbero attivati per cercare di porre questo istituto sotto il loro controllo e «addomesticarlo» (p. 45) in funzione degli interessi politici del loro impero. Tuttavia le Crociate avrebbero riattivato e re-intensificato l’ideologia del jihad individuale, in particolare all’interno del sultanato mamelucco impegnato in prima linea nella lotta (1250-1517). «Gli abbasidi avevano assunto degli studiosi per contrastare l’idea del jihad come dovere individuale, ma i mamelucchi non fecero altrettanto. Così se uno entra in un qualsiasi seminario, la formulazione del jihad che vi è insegnata è quella radicalizzata durante il periodo delle Crociate» (p. 49).

 

Questa allarmante constatazione apre in realtà a due considerazioni: prima di tutto, la necessità di comprendere nel dettaglio l’ideologia jihadista contemporanea. Mourad offre l’esempio del tenente Islambouli che dopo aver ferito a morte l’ex leader egiziano Anwar al-Sadat non colpì l’allora vicepresidente Hosni Mubarak, che pure si trovava a portata di tiro, perché la fatwa che lo legittimava ad agire riguardava il solo presidente egiziano. Il problema è che «l’analisi convenzionale del terrorismo islamista non presta attenzione a quello che i militanti dicono effettivamente. Guarda ai fattori economici o alle circostanze storiche e opera a partire da una comprensione solo molto generica della religione e dell’ideologia, ignorando i termini precisi in cui vengono giustificate le azioni» (p. 93).

 

D’altro canto è quasi naturale porsi la domanda se la formulazione del jihad ereditata dall’epoca delle Crociate possa essere riformata. Mourad non risponde direttamente, ma mette in guardia da quella che, molto acutamente, definisce «la trappola protestante» (p. 125), cioè l’idea che la soluzione risieda in un ritorno al solo testo del Corano, senza mediazioni. Da storico egli osserva che «il Corano legittima molte cose che i musulmani moderni considerano imbarazzanti: schiavitù, jihad militare, controllo delle donne, poligamia, errori scientifici» (p. 126). La soluzione di molti pensatori modernisti, legati coscientemente o meno a un approccio protestante alla scrittura, è che occorra recuperare lo “spirito del Corano”. «Questa mossa permette a uno studioso di decidere che lo spirito del Corano promuove la giustizia sociale e l’intero testo può essere così reinterpretato di conseguenza o ignorato. Così facendo, i riformisti moderni hanno avvertito i limiti del Corano, ma soltanto dopo aver fatto scempio della cosa migliore che l’Islam abbia prodotto: l’affascinante civiltà che i musulmani hanno creato nei secoli» (p. 126). Non si potrebbe formulare in maniera più chiara la critica alla scuola modernista che, pur promuovendo numerosi e benvenuti “aggiornamenti”, non riesce a liberarsi dall’impressione di realizzare una lettura selettiva e in ultima analisi opportunistica delle fonti.

 

Mourad, che si presenta come un uomo in ricerca, «non limitato da nessuna affiliazione religiosa» (p. 136), non si sente in dovere d’indicare quale potrebbe essere la soluzione al dilemma modernista. La sua produzione scientifica evidenzia però una linea d’indagine che va nel senso di un approfondimento dell’età tardo-antica, per riscoprire i nessi tra il Corano e le altre tradizioni religiose, in particolare il Cristianesimo. E forse non è errato affermare che la figura di Gesù di Nazareth, con tutto ciò che vi è di associato (Maria, Gerusalemme, la civiltà siriaca...), percorre come un filo rosso l’opera di Mourad e il suo tentativo di valorizzare e recuperare il dinamismo espresso dalla civiltà islamica classica.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Martino Diez, La crisi del “compromesso” sunnita, «Oasis», anno XIII, n. 26, dicembre 2017, pp. 133-135.

 

Riferimento al formato digitale:

Martino Diez, La crisi del “compromesso” sunnita, «Oasis» [online], pubblicato il 31 gennaio 2018, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/la-crisi-del-compromesso-sunnita.

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