Tradizione islamica e nuove sfide /4. Il caso Italia. In una fase complessa della vita, come quella migratoria, le persone devono confrontare le proprie origini ed eredità con quelle della società ospite. I risultati di due indagini realizzate in Lombardia tra generazioni immigrate femminili. 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:49

Tradizione” deriva dal verbo tradere che significa consegnare, trasmettere. È un verbo transitivo che implica due soggetti, uno che consegna e l’altro che riceve, e un oggetto, ciò che viene messo in circolo. Nonostante il significato attivo del verbo, spesso al termine si attribuisce un’accezione statica: tradizione indicherebbe allora un corpus più o meno coerente di credenze, pratiche e consuetudini condivise da un gruppo di persone appartenenti a una medesima cultura. Si cela in tal modo che l’azione del trasmettere rimanda a una relazione tra due soggetti e l’effetto emergente di essa non può mai essere statico, ma sottoposto a una morfogenesi insita nel passare dall’uno all’altro. Se viceversa si intende la tradizione in senso dinamico, si evidenzia il contenuto della agency (azione umana) tra i soggetti e cioè ciò che vale la pena di trasmettere. Lo specifico della trasmissione circola e passa, se e in quanto sono presenti de facto o simbolicamente le diverse generazioni con l’intenzionalità specifica di tramandare qualcosa: quest’ultima prende la forma concreta della cura dei legami e della trasmissione di un determinato patrimonio. La famiglia è il contesto di prossimità nel quale può essere osservata una temporalità situata, la quale svolge un ruolo fondamentale nella dinamica della trasmissione tra le generazioni del patrimonio simbolico-valoriale. Alla costruzione di tale patrimonio concorrono in misura determinante la memoria individuale e generazionale, ma anche quella collettiva e culturale. Infatti, il noi delle famiglie si innesta sulle generazioni precedenti, comprende chi è ancora sulla scena e chi ne è uscito e si apre alle generazioni future [1] La relazione tra tradizione e trasmissione intergenerazionale viene esplicitata in modo particolare nelle fasi di transizione (personali, familiari e sociali). In tal senso l’esperienza della migrazione mette bene in luce il legame drammatico tra questi diversi aspetti. In una fase “rischiosa” come quella migratoria le persone sono chiamate a misurarsi con le loro tradizioni e origini e a paragonarle con quelle della società ospite, attuando, con vari gradi di consapevolezza, un processo riflessivo. Una verifica empirica di tali dinamiche è osservabile in due indagini recenti che mettono in luce rispettivamente il processo di trasmissione dei valori, quasi una sfida, tra generazioni immigrate femminili (egiziane, marocchine e pakistane) [2] e le specifiche dinamiche del tramandare e trasmettere nella comunità egiziana residente a Milano, sia cristiana (copta) sia musulmana [3]. Tali ricerche hanno confermato la centralità nella vita di questi immigrati, nonché in quella dei loro figli, del patrimonio culturale riferito ai paesi di origine (Egitto, Marocco, Pakistan) [4] mettendo contestualmente in luce i cambiamenti, le ambivalenze, le contraddizioni spesso generate dall’incontro con il nuovo contesto e con le opportunità che esso offre. Alcuni punti salienti di riflessione emersi dalle indagini possono essere riassunti come segue. Un primo elemento è la presenza di codici culturali riconosciuti, strutturati, chiari, in alcuni casi cristallizzati, connessi alle culture e ai paesi di origine delle persone intervistate: essi costruiscono e organizzano in modo definito l’esperienza cognitiva, affettiva e relazionale delle donne che arrivano in Italia. Basilare è la fede di appartenenza, che nei rispettivi paesi d’origine costituisce la struttura dell’agire tanto del singolo quanto della società: questo aspetto appare in forte discontinuità con il ruolo della religione nel contesto di arrivo. In proposito le ricerche europee e nordamericane confermano che i figli musulmani nati e/o cresciuti nelle nazioni occidentali, pur aspirando a un’integrazione socio-culturale maggiore rispetto a quella dei loro genitori, tendono a identificarsi fortemente con l’eredità culturale e religiosa trasmessa dalla famiglia e a mantenere in modo saldo tradizioni e stili di comportamento [5]. Ruolo da Salvaguardare In particolare, nel caso della comunità egiziana e pakistana è evidente l’attenzione rivolta a salvaguardare il ruolo delle donne, mogli e/o figlie, incaricate di custodire e tramandare i valori tradizionali, anzitutto sposando un correligioso, secondariamente concentrando le proprie energie e il proprio tempo nella cura della famiglia, essendo esse considerate custodi delle tradizioni tanto nel paese d’origine quanto in Italia. Questa è una delle ragioni che spinge non poche famiglie (soprattutto musulmane) a rimandare le proprie figlie in Egitto in età adolescenziale al fine di far loro contrarre matrimonio nel paese di origine, come normalmente accade. I giovani egiziani, per trovare moglie, tendono infatti a far ritorno nel paese di origine, dove si suppone che le giovani siano state educate secondo i valori tradizionali senza essere sfidate da una realtà così differente come quella del paese di accoglienza. Nel caso particolare della comunità copta, sempre più frequenti sono invece i matrimoni tra giovani giunti a Milano in giovane età e cresciuti all’interno della vita parrocchiale. Anche nelle famiglie pakistane immigrate la tradizione del matrimonio combinato – pur sfidata da modelli diversi di scelta del partner e di formazione della coppia coniugale – rappresenta un elemento fondamentale che mantiene la sua forza e il suo significato nella migrazione anche per le generazioni più giovani. Un secondo elemento di riflessione è il fatto che la migrazione provoca una maggiore difficoltà a vivere in sintonia con le attese culturalmente interiorizzate. Il compito identitario prioritario, che è quello di essere/riconfermarsi una brava moglie e una brava madre, viene infatti messo fortemente in discussione nella migrazione. Essere all’altezza dei compiti che definiscono l’identità femminile secondo le tradizioni apprese in patria è fonte di grande fatica per le donne adulte emigrate, specialmente considerando il contesto di accoglienza, in cui i valori legati alla femminilità sono assai dissimili e in cui la donna si trova immersa in una condizione di profonda solitudine e vuoto relazionale. Per le tre comunità considerate (egiziane, marocchine e pakistane) – anche se in modo più accentuato per le generazioni femminili egiziane e pakistane – la mancanza di sostegno da parte della famiglia di provenienza, sia dal punto di vista psicologico ed emotivo, sia in termini di tutela nel caso in cui insorgano difficoltà nel rapporto di coppia, pone queste donne in una condizione di solitudine raramente sperimentata nel paese d’origine. La scarsa conoscenza della lingua italiana e la mancanza del supporto della rete parentale rendono più complessa anche la ricerca di un lavoro, problema riscontrato sia dalle immigrate copte sia da quelle musulmane. La tradizione culturale, tuttavia, ha nel processo migratorio la possibilità di trasformarsi, accostando modalità alternative di rappresentazione della propria condizione femminile. Il confronto inevitabile tra modelli culturali offre esiti molteplici e differenziati. Esistono zone e valori che non possono essere toccati e che non sono negoziabili (ad esempio il matrimonio misto è impensabile), ma esiste un’area grigia intermedia rispetto alla quale sembra esserci maggiore possibilità di scambio e di confronto a livello intergenerazionale (ad esempio la condivisione di spazi ed esperienze tra coetanei maschi e femmine, le forme più negoziate di matrimonio combinato, la valorizzazione dei percorsi di scolarizzazione delle ragazze). La novità apportata dall’esperienza italiana è l’incontro con la libertà, o meglio con forme diverse da quelle sperimentate nei propri Paesi d’origine e ciò costituisce un terzo elemento di riflessione. Gli elementi ‘visibili’ e a volte assaporati di questa mutata condizione sono molteplici: la maggiore possibilità di movimento, l’accesso a spazi extrafamiliari, una più ampia autodeterminazione nelle scelte, il minor controllo esercitato dalla rete familiare e dalla comunità allargata, la possibilità di vivere al di fuori di regole codificate. Tutto ciò attrae e affascina ma provoca anche reazioni difensive di fastidio, di irritazione, di chiusura. Nel contesto di accoglienza i gradi di libertà consentiti sono infatti legati all’universo valoriale occidentale e a volte confliggono con il ruolo di custodi dei valori e dei costumi atavici che la cultura di origine affida alle donne. Sentimento di Ambivalenza Questi orientamenti caratterizzano due specifiche condizioni, una relativa alle donne di prima generazione, l’altra alle adolescenti e alle giovani. Per le madri il problema è duplice. Da un lato, stante la condizione di solitudine, molte di esse non sanno come utilizzare la maggiore libertà che finisce per essere solo apparente: «sono in casa senza far niente» è una lamentela ricorrente. Il tutto si traduce in un vissuto di solitudine e in un vuoto di prospettive di sviluppo personale che rinforza il ruolo familiare senza possibilità di un esercizio competente e adeguato degli spazi liberi a disposizione (anche se le tradizioni nazionali incidono fortemente su questo aspetto). Dall’altro, la libertà pone un problema perché è vista come portatrice di potenziali rischi. Le adolescenti e le donne più giovani condividono in parte le ambivalenze delle madri nei confronti della libertà “italiana”, esprimendo un misto di ammirazione e di fastidio/insofferenza nei confronti delle ragazze italiane e dei loro stili di vita. Il loro disorientamento riguarda il timore di venir meno alle attese familiari e di tradire, con un’apertura eccessiva verso il nuovo contesto sociale, la fiducia riposta nei loro confronti. Rispetto alle donne adulte le ragazze più giovani sono però, come prevedibile, maggiormente attratte dalle diversità che l’Italia propone e, pur dovendo destreggiarsi tra richiami e modelli educativi e valoriali diversi, sono più orientate ad aprirsi in maniera naturale al contesto esterno. Hanno ben chiara l’esistenza di limiti invalicabili, ma sono più propense a negoziare e spostare i confini della loro appartenenza verso il “territorio italiano”. Caso esemplificativo è quello del rapporto uomo-donna. In merito, nonostante la fedeltà alla tradizione, le ragazze, soprattutto egiziane e marocchine, faticano a pensare a un rapporto in cui esse non abbiano nessun tipo di parola. Anzi, a cominciare dalla scelta del partner fino alla possibilità di intraprendere una carriera lavorativa, le adolescenti esprimono una posizione ben chiara, orientata a una maggiore autonomia nelle decisioni. Per le adolescenti pakistane, il conflitto familiare – difficilmente esplicitabile – sembra giocarsi tra la riproposizione di un’identità femminile imperniata in modo esclusivo sul ruolo di moglie/madre e la possibilità di conciliare questa immagine di sé con le opportunità offerte dal forte investimento formativo che l’Italia ha reso loro possibile e che gli stessi genitori sembrano valorizzare. È molto presente in tutti i genitori e nelle donne, che si sentono portavoce delle tradizioni, l’idea di interrogarsi sui modi di ‘trasmettere’ i valori fondamentali della propria cultura, anche perché è presente in molti la consapevolezza che il contatto con l’Occidente genera un processo di cambiamento irreversibile. Il minor controllo sociale sperimentato in Italia sembrerebbe consentire parziali aperture impensabili nella terra d’origine, per esempio nella regolazione delle distanze tra uomo-donna, tra genitore-figlio o nella modalità di rapporto con l’esterno. Il cambiamento caratterizza in modo inevitabile le famiglie – genitori e figli, prime e seconde generazioni – anche se è vero che in questo processo i giovani sembrano esprimere posizioni e ruoli più attivi e anche competenti non solo nei confronti del contesto etnico-culturale di appartenenza, ma anche della società italiana. Viene dunque affidata alle giovani di seconda generazione la possibilità di elaborare la propria identità in una prospettiva interculturale [6], laddove, bilanciando i rischi e le risorse coinvolti in tale processo, esse si muovono in un contesto di maggiore autonomia rispetto ai dettami culturali dei paesi d’origine delle loro madri, dal momento che la loro scolarizzazione in Italia comporta una familiarità con la cultura d’accoglienza e una necessità di affrontare le discrepanze tra le due tradizioni non sperimentata dalla generazione che le precede.


[1] Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, Family Identity: Ties, Symbols and Transitions, Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah (New Jersey) 2006; Eugenia Scabini e Giovanna Rossi (a cura di), La migrazione come evento familiare, Vita e Pensiero, Milano 2008. [2] Irer - Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, Milano 2008: Donne immigrate presenti sul territorio della regione Lombardia. Studio della condizione delle donne arabe e pakistane. La ricerca, cui chi scrive ha partecipato, ha adottato un approccio di tipo qualitativo: sono state realizzate 31 interviste in profondità a donne immigrate di prima generazione e ad adolescenti/giovani donne nate o ricongiunte di origine marocchina (N=10), egiziana (N=11) e pakistana (N=10), 5 focus-group e 9 interviste a testimoni ‘privilegiati’. [3] Cristina Lisbona, La comunità egiziana a Milano: analisi e confronto della realtà egiziana copta e egiziana musulmana nel contesto cittadino milanese, tesi di laurea magistrale, relatore prof.ssa Valeria Fiorani Piacentini, Università Cattolica di Milano, a.a. 2007/2008. [4] Cfr. la settima indagine ORIM (Osservatorio Regionale per l’Integrazione e la Multietnicità) dal titolo L’immigrazione straniera in Lombardia. La settima indagine regionale. Rapporto 2007, Regione Lombardia/ISMU, Milano 2008. La ricerca, coordinata da Gian Carlo Blangiardo, stima in 438.900 donne la componente femminile proveniente da paesi a forte pressione migratoria, al 1° luglio 2007. Di esse 7.900 sono pakistane (1,8% della presenza regionale), 16.800 egiziane (3,8%) e 42.600 marocchine (9,7%). Si tratta rispettivamente del quindicesimo, del nono e del secondo gruppo nazionale femminile nella graduatoria lombarda. [5] Gonneke W.J.M. Stevens, Trees V.M. Pels et alii, Patterns of psychological acculturation in adult and adolescent Moroccan immigrants living in the Netherlands, in «Journal of Cross-Cultural Psychology» vol. 35, n.6 (2004), 689-704.   [6] Pierpaolo Donati, Oltre il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2008, 60.

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