Promesse e incognite di una stagione di ribellione/2. Quali conseguenze avranno per i cristiani i cambiamenti in corso? La libertà politica e la libertà religiosa procedono sempre di pari passo? E gli islamisti come affronteranno la nuova realtà e la imperiosa richiesta della libertà religiosa per le minoranze?

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:04

l Medio Oriente sta cambiando. In questo cambiamento come si situano i cristiani del Medio Oriente? Che ruolo hanno? Il mutamento in corso quali conseguenze avrà sulla loro presenza, sulla loro posizione e sul loro futuro in questa parte del mondo? Ci perderanno o ci guadagneranno e ¬intraprenderanno i necessari adattamenti? Prima osservazione:sotto i regimi autocratici i cristiani hanno sofferto molto. Questa sofferenza si è manifestata con evidenza nel numero crescente di cristiani che hanno scelto di emigrare da quasi tutti gli stati mediorientali. Anche quando questi regimi li trattavano bene, lo facevano con l’obiettivo di usarli contro gli islamisti. Il loro argomento ricorrente era che il Medio Oriente necessita di regimi autoritari forti per evitare che gli islamisti radicali prendano il sopravvento. Il cambiamento in atto nella regione dovrebbe dimostrare che tali ammonimenti erano interessati e insensati. Ora occorre attendere e vedere che piega prenderanno gli eventi. Molti regimi autoritari arabi usano gli islamisti come spauracchi per conservare il proprio ruolo e rendersi accettabili in Occidente. «O noi o gli islamisti» è stato il loro ritornello. Si è trattato di un compromesso vantaggioso sia per i Paesi occidentali che per questi regimi, almeno fintanto che gli interessi di entrambi sono stati soddisfatti. Il discorso relativo alla democrazia e ai diritti umani si è rivelato meramente retorico, con una risonanza minima sulla politica effettiva. I cristiani del Medio Oriente si trovavano tra i due fuochi. Hanno sofferto, ma non sono stati gli unici a soffrire. Un rapporto del Pew Forum on Religion and Public Life ha rilevato che quasi il 70% dei 6,8 miliardi di persone che abitano il pianeta vive in Paesi con “forti restrizioni” religiose. Dopo aver studiato 198 Paesi e regioni autonome, il Pew Forum ha constatato che in 75 di questi le autorità locali o nazionali ostacolano in qualche misura gli sforzi volti a diffondere la propria fede. In 178 Paesi la fede di appartenenza deve essere registrata presso il governo, obbligo che in 117 stati ha causato problemi ad alcune religioni. Il Medio Oriente non fa eccezione. Con quel poco di democrazia che c’è nella regione e con l’ancor più limitata libertà di espressione di cui i popoli di questa parte del mondo godono, è naturale aspettarsi maggiori restrizioni in materia di diritti religiosi. Se a questo aggiungiamo l’ascesa del fondamentalismo, che monopolizza il credo e addirittura Dio, e l’errore fatale di mescolare Cristianesimo e Occidente, non dovremmo affatto sorprenderci della situazione in cui ci troviamo, una situazione che suscita la preoccupazione dei cristiani arabi e mediorientali. Però, come ho anticipato, il Medio Oriente sta cambiando. Dopo l’Egitto e la Tunisia ci sarà -sicuramente un prossimo. Gli Stati candidati sono Yemen, Libia e Siria, e la lista è aperta. La democrazia liberale avanza. Ma la libertà politica e quella religiosa procedono sempre di pari passo? La Dichiarazione Universale dei Diritti umani, una delle più grandi dichiarazioni morali del XX secolo, non poteva essere più chiara. Recita che «ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione» e gode della «libertà di manifestare, […] la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti» (art. 18). La domanda è ora se l’ondata del cambiamento in Medio Oriente permetterà di raggiungere questi nobili principi. Terremoti e Scosse di Assestamento Gli sconvolgimenti in Medio Oriente hanno sollevato in maniera pressante la questione del futuro dei partiti islamisti. Faranno inevitabilmente parte del governo? Quale sarà il loro ordine del giorno? Come affronteranno le realtà regionali odierne e, più in particolare, la questione della libertà religiosa dei cristiani e dei musulmani di confessioni diverse? Le rivolte in corso, dalla Libia allo Yemen, dall’Algeria alla Giordania, alla Siria e al Bahrein, e prima, dalla Tunisia all’Egitto, non hanno – e sottolineo non hanno – lanciato nessuno slogan di carattere religioso, come il ben noto slogan che recita che l’Islam è la soluzione, e neppure i soliti slogan contro l’imperialismo, l’americanismo e il sionismo. Gli slogan riguardavano esclusivamente la libertà, la democrazia, la dignità, le riforme sociali ed economiche, la trasparenza e la lotta alla corruzione, il principio di legalità e l’applicazione della legge. Sono slogan direttamente legati ai diritti e ai valori umani. Questo non significa che gli islamisti non tenteranno di mettersi alla testa di queste rivolte, distorcendone gli obiettivi. Né significa che l’enorme cambiamento procederà senza difficoltà. Ciò che sta accadendo è uno straordinario scossone socio-politico. La natura insegna che a un grande terremoto seguono sempre una serie di piccole scosse prima che la situazione si assesti. La nostra speranza è che queste sollevazioni – rivoluzioni – si assestino sulla base del riconoscimento dell’identità nazionale e del rispetto dei pieni diritti di cittadinanza e uguaglianza. Padre Khalil Alwan, già Segretario generale del Consiglio dei Patriarchi Cattolici d’Oriente ha affermato: «Ciò che contraddistingue le Chiese orientali è il fatto di essere apostoliche. Esse sono state fondate dagli apostoli, Marco in Egitto e Pietro in Libano e Siria. Siamo fieri di essere cristiani orientali e non cristiani in Oriente. Siamo componenti essenziali di questi Paesi e parte della loro formazione e storia. Siamo i costruttori della civiltà araba e abbiamo contribuito alla rinascita della sua lingua e cultura. Il Cristianesimo in questo Oriente è una grande ricchezza». Il cammino verso la coesistenza pacifica e la convivenza tra musulmani e cristiani non può essere percorso con disprezzo, mancanza di rispetto o con l’uso della forza. L’unico modo per intraprenderlo, come del resto è sempre stato fatto fin dai tempi del Profeta Muhammad (su di lui sia la pace), è il mutuo rispetto, la comprensione, l’accettazione e la collaborazione. Essere diversi non significa essere contro o “anti-”. Le differenze di opinione, di cultura, di religione, di razza e lingua sono parte del patrimonio umano e sono espressione della grandezza di Dio come Creatore. Siamo chiamati ad accettare e rispettare tutte queste differenze allo stesso modo in cui crediamo in Dio e rispettiamo la Sua volontà di averci creati diversi e di volerci diversi l’uno dall’altro perché ci conosciamo a vicenda, come afferma il nobile Corano. La verità non sta da una parte sola. Credere di aver ragione non significa che l’altro debba necessariamente avere torto. In società plurali bisogna dare la precedenza al concetto di diversità per realizzare l’integrazione. A ben vedere però, la sicurezza e la prosperità risiedono proprio nella pluralità delle società mediorientali. Lo Stato nazionale non ha condotto e non condurrà mai a una cultura propria. La cultura, mette in guardia l’antropologo Ernest Gellner, non è una nostra “scelta”, bensì una nostra “sorte”. Modificare le scelte può risultare semplice o difficile, ma è sempre possibile. Modificare la sorte, invece, è qualcosa di diverso. È come cambiare etnia o DNA, ciò che supera le nostre normali capacità. Da Giacarta a San Francisco Ancora più importante, ci troviamo di fronte alla globalizzazione, la vera fede universale di oggi, che subordina tutte le consuetudini locali alle leggi del mercato. Sotto la loro influenza, la religione perde qualsiasi affinità con le culture che in passato la sostenevano. Giacarta, la capitale del Paese musulmano più grande del mondo, dista 5.000 miglia dalla città santa della Mecca e la stessa Mecca ha perso una buona parte dei suoi caratteri specificatamente arabi. I pellegrini giapponesi vanno a San Francisco per trovare una cultura buddista più stimolante di quella che può offrire Tokio. I mormoni non sono più confinati nello Utah, ma trovano seguaci a Manila. Anche le Chiese cristiane-ortodosse, che sono definite dai loro Paesi di origine, hanno perso il loro carattere etnico; in Francia, un numero significativo di seguaci ortodossi ha rifiutato di riconoscere l’autorità del Patriarca russo. In Medio Oriente noi cristiani e musulmani abbiamo ora chiara la nostra situazione: a quanto pare stiamo, come nel celebre quadro di Géricault La zattera della Medusa, su un enorme relitto galleggiante. Non sta per affondare, ma dobbiamo scegliere tra collaborare gli uni gli altri con le scarse risorse a disposizione su questo relitto galleggiante, oppure divorarci a vicenda. Non possiamo più permetterci di seguire la regola profana dei politici secondo la quale “la speranza di un uomo è il timore di un altro”. Dobbiamo imparare a comportarci secondo la regola sacra per cui “il sogno di una comunità religiosa non è necessariamente l’incubo di un’altra”. Isaac Newton diceva: «Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di tanti esseri umani comuni, anche dei pigmei». In Medio Oriente possiamo vedere lontano ergendoci su cumuli di errori di calcolo e delusioni. Possiamo dire che il segreto di una società riuscita è che i cittadini in minoranza prendano coscienza di essere più di una sola cosa alla volta: devono essere capaci di sentirsi arabi e cristiani, arabi e musulmani, orientali musulmani e cristiani. Non è che le società multi-etniche siano impossibili. È solo che spesso sono piuttosto vulnerabili. Le divisioni di razza, di lingua, di classe, di religione possono essere accettate, tollerate e persino gradite: si aggiungono alle complessità e alle possibilità della vita. Tuttavia possono anche rendere una società più fragile, soprattutto quando un gruppo si distingue radicalmente da un altro dal punto di vista etnico, religioso ed economico. Le società con divisioni interne sembrano non resistere bene alle scosse provenienti dall’esterno. A meno che non si dia a persone appartenenti a contesti religiosi diversi un senso di appartenenza e non s’infonda loro la percezione che la loro identità e il loro patrimonio sono valori aggiunti nel mosaico delle società mediorientali, una vera comunità è impossibile. Abbiamo imparato e stiamo ancora imparando a confrontarci con un concetto di diversità che abolisce o finge di non vedere i «narcisismi delle piccole differenze», come dice Freud. La diversità senza il senso della comunità porta al tribalismo. La comunità senza il senso della diversità conduce all’alienazione di tutte le minoranze. È difficile percepire la tensione se si vive separati in un angolo, dietro le mura della propria comunità. È difficile percepire la tensione se la maggioranza soffoca la minoranza al punto di ridurla al silenzio. La tensione la si percepisce solo quando i gruppi interagiscono, cercando di esprimere ciascuno la propria identità (etnica, linguistica o religiosa) e, nello stesso tempo, di mantenere quell’identità sufficientemente sotto controllo da mantenere legami comuni. Risiede qui la difficoltà del processo di nation building in Medio Oriente. Ma dopo la divisione del Sudan, il fallimento della Somalia, la frammentazione settaria dell’Iraq, le tensioni religiose in Egitto e il pericolo derivante dalla pluralità in Libano, sorge spontanea la domanda se possa esservi altra via d’uscita da questo caos se non quella di accettare e rispettare le differenze tra gli esseri umani secondo il volere di Dio e come dono di Dio. Per estremisti e fondamentalisti porre questa domanda è più o meno utile quanto usare una macchina da scrivere manuale per accedere a internet. Ma chi lo sa? Il Medio Oriente sta cambiando. Inoltre, la terra delle religioni celesti è la terra dei miracoli. Anche per questo c’è bisogno di un miracolo.

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