Nel suo ultimo docu-film il regista Bryan Fogel ricostruisce la storia dell’omicidio di Jamal Khashoggi e indaga il ruolo svolto nella vicenda dal principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Recensione di The Dissident

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:23

Il 25 febbraio scorso la CIA ha desecretato il report che prometteva di far luce sulla vicenda dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato saudita ad Istanbul. Il documento conferma l’ipotesi dell’omicidio di Stato a cui era giunta nel giugno 2019 l’indagine ONU condotta da Agnès Callamard, già relatrice speciale delle Nazioni Unite per le questioni extragiudiziali e che, lo scorso gennaio, ha ricevuto minacce di morte da alcuni funzionari sauditi per aver supposto il coinvolgimento di Mohammad bin Salman nell’assassinio. Il report della CIA conferma che il principe ereditario ha «autorizzato un’operazione a Istanbul, Turchia, per rapire o uccidere il giornalista», ma ha probabilmente deluso chi si aspettava di trovare qualche dettaglio clamoroso, dal momento che le sue quattro pagine non aggiungono nulla alle cento dell’indagine condotta in precedenza da Agnès Callamard. Un atto politico più che un tentativo vero di offrire risposte, la diffusione del rapporto dell’intelligence statunitense è importante nella misura in cui segna un cambio di passo nei rapporti tra la Casa Bianca e lo storico alleato saudita che, pur rimanendo tale, non godrà più del sostegno incondizionato garantito dall’ex presidente Donald Trump.

 

Per capire l’affaire Khashoggi, perciò, il report da leggere non è quello della CIA ma quello dell’ONU, che ha ispirato al premio Oscar Bryan Fogel l’idea di realizzare The Dissident, un coraggioso documentario che racconta, in circa due ore, i retroscena dell’omicidio.

 

Il film mette in scena le due anime di Khashoggi: quella dissidente, raccontata dal giovane Omar Abdulaziz, ventisettenne saudita che dal 2009 vive in esilio a Montreal, e quella più profondamente umana, raccontata dalla fidanzata turca del giornalista saudita Hatice Cengiz. I loro racconti si intersecano, come a voler descrivere luci e ombre di una personalità a tratti contradditoria. Hatice racconta l’uomo profondamente solo che nel 2017, in seguito alla campagna di arresti ordinata da MBS a danno di chi osava esprimere il proprio dissenso nel Regno, aveva deciso di lasciare il suo Paese per vivere a Washington ed essere «la voce dei senza voce». Una decisione molto sofferta che avrebbe implicato inevitabilmente anche il divorzio dalla moglie, messa sotto pressione dalle autorità saudite. Ripresa mentre passeggia a Istanbul, Hatice ripercorre i momenti salienti della loro relazione, il primo incontro a una conferenza sul Medio Oriente, il loro primo appuntamento ufficiale, l’acquisto dell’anello e della casa e infine l’ultimo istante insieme: l’attimo in cui Khashoggi entra nel consolato e lei inizia l’attesa di quattro lunghe ore davanti all’edificio. 

 

Ripreso nel freddo inverno di Montreal, Omar ripercorre invece l’ultimo anno della sua amicizia con Jamal focalizzandosi sul preciso momento in cui Khashoggi dismette i panni del semplice giornalista che lotta per la libertà di espressione in un Paese in cui «avere un’opinione è un crimine», e varca la soglia della dissidenza, firmando così la sua condanna a morte.

 

Per trent’anni Jamal è stato parte del sistema saudita, come testimoniano le fotografie che lo ritraggono insieme a MBS, a re Salman e al loro predecessore. Del resto in Arabia Saudita i giornalisti sono uno strumento del potere, spiega l’ex direttore di al-Jazeera nel documentario: «Da loro il regime si aspetta che lodino il governo. Hanno ereditato questa cultura dal deserto, quando i poeti andavano dal capo tribù lodandone la saggezza e le virtù politiche».

 

the _dissident.jpgPer Ayman Nur, amico di lunga data di Khashoggi che nel 2004 aveva sfidato Mubarak alle elezioni presidenziali egiziane, il punto di svolta nella vita del giornalista saudita sarebbe arrivato nel 2011, con la Rivoluzione egiziana. Khashoggi infatti era presente in piazza Tahrir durante le manifestazioni di massa e aveva criticato la successiva contro-rivoluzione, sostenuta, anche economicamente, dall’Arabia Saudita.

 

Quella linea rossa che per tanti anni era stato attento a non superare, Khashoggi l’avrebbe varcata definitivamente nel 2018 finanziando la guerra digitale che ha contrapposto la monarchia saudita alla diaspora dissidente. All’“esercito delle mosche”, la squadra ingaggiata da MBS per creare centinaia di account Twitter falsi da cui diffondere la narrazione ufficiale con l’hashtag #Vision2030, Omar Abdulaziz ha risposto con l’“esercito delle api”, creato con l’aiuto economico di Khashoggi. Decine di dissidenti residenti in tutto il mondo hanno a loro volta creato centinaia di account falsi, usando delle sim americane e canadesi per non farsi identificare, e twittato gli hashtag #RenaissanceToFreedom e #What_do_you_know_about_the_bees, che in poco tempo avrebbero superato l’hashtag #Vision2030. Una guerra informatica che il regista evoca in maniera magistrale mettendo in scena, attraverso un’animazione fantasy ambientata nel web, gli attacchi sferrati da uno sciame di mosche, che rappresentano i troll della monarchia saudita, a cui rispondono le api, cioè l’esercito di dissidenti.

 

The game is over

 

Uno degli aspetti più singolari ma anche più inquietanti che emerge dalla vicenda è il sistema di sorveglianza informatica messo in campo dai regimi autoritari per combattere i dissidenti, fino alla morte. L’Arabia Saudita dispone della migliore tecnologia digitale esistente sul mercato. Dal gruppo israeliano NSO ha acquistato lo spyware Pegasus, un software ufficialmente destinato solo alle agenzie governative e di intelligence, che consente di controllare da remoto cellulari e pc. Il programma è stato utilizzato nel 2018 dal governo saudita per violare il telefono di Omar Abdulaziz attraverso l’invio di un sms relativo a una falsa spedizione DHL, e poco dopo quello di Jeff Bezos – fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, quotidiano per il quale scriveva Jamal al-Khashoggi – con un messaggio partito direttamente dal cellulare di MBS. Jeff Bezos peraltro compare alla fine del documentario in uno spezzone di filmato che lo ritrae con Hatice Cengiz e altre personalità durante una commemorazione organizzata fuori dal consolato saudita a Istanbul in occasione del primo anniversario della morte del giornalista.

 

La forza del documentario sta nell’abbondante materiale inedito con cui è stato realizzato, tra cui le trascrizioni degli agghiaccianti dialoghi intercorsi tra i sicari durante l’omicidio del giornalista: spezzoni sonori che documentano prima il momento del soffocamento della vittima, definita dai suoi killer l’«animale sacrificale», poi lo smembramento del suo corpo tra le risate e i commenti sarcastici dei presenti; filmati realizzati dalla polizia scientifica turca della sala riunioni dove è stato commesso l’omicidio; stralci di chat tra Khashoggi e Omar Abdulaziz, e alcuni messaggi privati che il giornalista ha scambiato con la fidanzata.

 

Come ha dichiarato Bryant Fogel in più di un’intervista, il documentario è stato reso possibile anche dalla collaborazione delle autorità turche, che hanno messo a disposizione le carte dell’indagine e concesso di intervistare gli agenti che l’hanno svolta. Questo elemento non è per nulla secondario. Esso testimonia infatti gli equilibri geopolitici che erano in atto in Medio Oriente tra l’anno dell’omicidio di Khashoggi e la fine del 2020. In quest’ottica non sorprende troppo la disponibilità di Ankara a fornire la documentazione in un momento in cui i suoi rapporti con Riyad erano molto tesi sia per effetto della crisi del Golfo che per l’omicidio. Il riavvicinamento tra il Regno saudita e la Turchia è infatti cosa piuttosto recente. Così come non sorprende che un Paese sostenitore dell’Islam politico quale la Turchia si sia speso per mettere alle strette la monarchia saudita dal momento che sono piuttosto note le posizioni simpatizzanti di Khashoggi verso i Fratelli musulmani e il suo legame personale con Erdoğan.

 

Con grande abilità, Fogel denuncia la violenza sponsorizzata dall’Arabia Saudita e i metodi spietati e disumani adottati per reprimere il dissenso, e allo stesso tempo apre alla riflessione sull’impiego della tecnologia per controllare il discorso pubblico e limitare la libertà di espressione. Una questione che non si limita al caso Khashoggi, ma sta diventando un fenomeno strutturale del mondo arabo post-2011.

 

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