"God bless America" /3. Un padre francescano apre la lunga lista dei morti dell'11 settembre. Non è un caso. Già pochi minuti dopo il crollo delle Torri le gerarchie cattoliche, i semplici sacerdoti e i leaders delle varie realtà cristiane del paese, si impegnarono in una azione decisiva e profonda, spingendo un'intera nazione a porsi domande radicali sull'esistenza, sul male, su Dio.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:21

Il certificato di morte n. 1, firmato da un medico legale negli USA l'11 settembre 2001, è stato quello di un prete cattolico. Padre Mychal Judge, un francescano, era il cappellano dei vigili del fuoco di New York e fu tra i primi ad arrivare al World Trade Center colpito dagli aerei dirottati. Fu anche tra i primissimi a morire e il destino ha voluto che la lista del macabro riconoscimento dei cadaveri prendesse il via proprio dal suo nome. È significativo che negli atti ufficiali che documentano gli effetti del più grave attentato terroristico nella storia, l'evento-simbolo dell'inizio del XXI secolo, ad aprire un elenco di quasi tremila vittime ci sia un sacerdote. Fin dagli istanti seguiti all'attacco, per l'America è stato chiaro come la sfida storica da affrontare fosse anche quella di fare i conti con le connotazioni religiose che l'offensiva di Al-Qaida si portava dietro. Le ultime parole pronunciate sugli aerei dirottati di cui sia rimasta traccia sono «Allahu akbar!», gridato dai terroristi nove volte negli ultimi sette secondi di registrazione della "scatola nera" del volo United 93, caduto in Pennsylvania. Fin dai momenti iniziali dopo la tragedia, e per i cinque anni che sono seguiti, gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con il pericolo di reagire in modo indiscriminato contro l'Islam, anche tra le mura di casa. Nello stesso tempo, l'enormità dell'accaduto ha spinto un'intera, frenetica nazione a porsi domande radicali sull'esistenza, sul male, su Dio. La portata e la capillarità della risposta all'11 settembre venuta dalle comunità cristiane di ogni denominazione e dai loro leader, è un fenomeno ancora poco studiato e non compreso in tutta la sua portata. Gli effetti sono stati decisivi e si sono fatti sentire dovunque: dalle piazze ai campus universitari, dalle chiese alla Casa Bianca. È stato per esempio proprio l'intervento e il consiglio da parte di esponenti del mondo cristiano (religiosi e studiosi), a spingere il Presidente George W. Bush a compiere una retromarcia dopo aver definito il 16 settembre 2001 la guerra al terrorismo una «crociata»: un termine che aveva immediatamente infiammato il mondo arabo. Le gerarchie cattoliche, i semplici sacerdoti e i leader delle varie realtà cristiane del paese, avviarono la loro reazione all'attacco nel giro di pochi minuti dal crollo delle torri. Se Padre Mychal andò a morire con i vigili del fuoco, altri sacerdoti e pastori protestanti, rabbini e imam, si misero subito al lavoro per accogliere gli sfoghi e le preghiere di chi usciva dalle rovine fumanti di Ground Zero. L'Arcivescovo di New York, Cardinale Edward Egan, indossando un camice verde da chirurgo, si dedicò alle estreme unzioni al St.Vincent Catholic Hospital di Manhattan, a due passi dal World Trade Center. L'allora Arcivescovo di Washington, Cardinale Theodore McCarrick, stava guidando una riunione della Conferenza Episcopale Americana quando il volo American 77 colpì il Pentagono. Immediatamente, con altri cinque cardinali e trentuno vescovi, organizzò una messa di fronte a duemilacinquecento studenti in lacrime della Catholic University di Washington. «Dobbiamo pregare che la nostra nazione disse in quelle prime ore resista alla tentazione di cercare vendetta o faccia ricadere la colpa su un qualsiasi gruppo etnico». Ricordando lo sconcerto seguito, nel 1963, all'assassinio di John F. Kennedy, McCarrick esortò ad essere uniti, «tra di noi e con tutto il popolo di Dio nel mondo». Di fronte a una vicenda che dal primo momento si tingeva di tentativi di trovare fondamenti religiosi per giustificare l'accaduto, l'impeto condiviso e immediato delle guide spirituali delle grandi religioni in America fu quello di cercarsi e tenersi per mano. Il segnale più vistoso e potente arrivò il 14 settembre, a tre giorni dall'attacco, quando esponenti cattolici, protestanti, ebrei e musulmani si ritrovarono insieme nella National Cathedral di Washington. Ad ascoltarli e a cercare ispirazione, seduti in prima fila, c'erano George W. Bush, gli ex Presidenti Clinton, Bush padre e Carter, l'intero governo americano, tutti i giudici della Corte Suprema e i leader del Congresso. Il Reverendo Billy Graham, una delle figure più autorevoli del mondo cristiano negli Usa, rievocò «quelle Torri maestose costruite su solide fondamenta, che erano esempi della prosperità dell'America» e pose davanti ai potenti del paese e alla gente comune la scelta da fare in quel momento: «O implodiamo e ci disintegriamo come popolo e come nazione, da un punto di vista emotivo e spirituale, oppure scegliamo di diventare più forti, attraverso tutta la fatica di ricostruire su solide fondamenta. Io credo che siamo già avviati a ricostruire e le fondamenta sono la nostra fiducia in Dio». Al suo fianco, l'Imam Muzammil Siddiqi, della Islamic Society of North America, invocò a sua volta Dio: «Aiutaci nella nostra difficoltà, mantienici uniti come un popolo di fedi, colori ed etnie diverse». Poche ore dopo la cerimonia alla National Cathedral, Bush comparve a Ground Zero, in mezzo a vigili del fuoco e operai che scavavano tra le macerie, parlando loro con un megafono, in piedi su un cumulo di detriti tra ciò che restava delle Twin Towers: è opinione diffusa che si sia trattato del momento più "nobile" della sua presidenza, prima che l'amministrazione Bush si impantanasse nella controversa guerra all'Iraq. Separare l'Islam dal Terrorismo Colta di sorpresa dall'attacco dell'11 settembre, la Casa Bianca non si limitò in quei primi giorni a cercare il consiglio di militari ed esperti di intelligence, ma aprì le porte anche a studiosi ed esponenti delle grandi religioni, per cercare di capire più a fondo il fenomeno del radicalismo islamico con cui si trovava a fare i conti. Invece di lasciare alla sola CIA il compito di spiegargli le caratteristiche di Al Qaida e la personalità di Osama bin Laden, Bush accolse indicazioni esterne che si rivelarono decisive, nell'aiutare l'amministrazione a stabilire come reagire. A distanza di anni, può sembrare scontato che fin dai primi discorsi pubblici del Presidente in quel periodo emergesse la sottolineatura che la guerra al terrorismo non era «una guerra contro l'Islam». Ma è documentato come si sia trattato, in realtà, di una convinzione che ha preso piede nello Studio Ovale grazie all'operato di alcune tra le molte personalità a cui Bush chiese consiglio, nell'ambiente accademico e religioso. Una tra queste era David Forte, professore di legge alla Cleveland State University, un esperto di diritto islamico in quei giorni molto ascoltato alla Casa Bianca (oggi è anche consulente del Pontificio Consiglio sulla Famiglia). Forte sostenne subito, con decisione, la tesi secondo la quale Osama bin Laden e i Taleban rappresentavano una perversione dell'Islam ed erano impegnati in una campagna contro l'Islam stesso. Il professore di Cleveland spiegò come l'11 settembre e le giustificazioni che ne dava Bin Laden non fossero che una versione moderna degli atti di una fazione violenta dell'Islam, i Kharigiti, che era stata riconosciuta come una completa aberrazione del credo islamico fin dai primi secoli della sua storia. Forte, ascoltato da Bush, sostenne che si era di fronte a estremisti fortemente influenzati da radicali moderni come l'egiziano Sayyid Qutb e mise in guardia la Casa Bianca: siamo in guerra con un'ideologia, non con una religione, Bin Laden ha molto più a che fare con Stalin, Hitler e Mao, che non con la tradizione islamica. In un'America ferita, l'insistenza da parte dei vertici del governo sul fatto che i terroristi «hanno dirottato e preso in ostaggio una religione, così come hanno fatto con gli aerei», contribuì in modo significativo a evitare con rare eccezioni che contro i musulmani americani si scatenassero rappresaglie indiscriminate, che pure avrebbero potuto esserci. Provocata dagli eventi a offrire in primo luogo strumenti di educazione in un momento storico confuso, la Chiesa cattolica americana in questi anni ha avuto un ruolo chiave nel definire i termini della questione. Nelle settimane immediatamente successive all'11 settembre, la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti mise in piedi un'apposita commissione incaricata di riflettere sulla sfida posta dall'attacco, alla luce della dottrina cattolica. Il gruppo di lavoro, presieduto dalla professoressa Mary Ann Glendon (Harvard University), presentò nel novembre 2001 le proprie conclusioni, poi raccolte dai vescovi nel messaggio pastorale Living with Faith and Hope after September 11. Tra i punti centrali della riflessione, c'era l'ammonimento di Papa Giovanni Paolo II secondo cui non si trattava solo di attacchi contro gli USA, ma di «crimini contro l'umanità». «Coloro che sono responsabili degli attacchi sottolineava il documento possono essere stati motivati dall'opposizione a politiche specifiche degli Stati Uniti, in particolare in Medio Oriente, ma la loro agenda di fondo sembra essere un profondo antagonismo verso la cultura e le istituzioni dell'Occidente». All'amministrazione Bush veniva rivolta un'esortazione a usare cautela nell'uso della forza militare. Le operazioni militari in Afghanistan venivano giudicate sostanzialmente "giustificate", ma si esortava al rispetto dei civili e a un'azione che isolasse i terroristi dal resto della popolazione, oltre che a un impegno di lungo termine per la ricostruzione del paese. Un attacco militare all'Iraq veniva invece ritenuto non giustificato. «Va respinta ammoniva la commissione Glendon qualsiasi connessione semplicistica tra Islam e terrorismo. Il modo più efficace di rispondere alla pretesa terrorista di una giustificazione religiosa alla violenza o a coloro che pretendono che la religione sia per la maggior parte una fonte di conflitto, è offerto dalla ricca tradizione religiosa del mondo e dalla testimonianza di così tante persone di fede, che sono state una forza potente a favore della liberazione umana non violenta in tutto il mondo. L'11 settembre aggiungeva il documento rappresenta una sfida, per la Chiesa così come per il governo, ad andare a fondo nella loro comprensione e nell'approccio all'Islam». Nei cinque anni seguiti all'attacco a New York e Washington, non sono ovviamente mancati gli estremismi di matrice religiosa. Predicatori come Jerry Falwell o Pat Robertson non hanno resistito alla tentazione di scagliarsi contro l'Islam in quanto tale e di leggere il momento storico attuale nella chiave di quale sia il "vero" Dio. Adorati dai media per la loro capacità di creare polemiche e anche qualche imbarazzo su scala internazionale, i Falwell e i Robertson sono stati però eccezioni e il loro seguito è assai più esiguo di quanto la loro capacità di "far notizia" possa far pensare. Il vero fenomeno cresciuto negli Usa dopo l'11 settembre è il boom di spiritualità e di ricerca di un'appartenenza religiosa che indubbiamente ha avuto, tra i propri fattori scatenanti, anche le domande di significato innescate in molti cuori dall'attacco terroristico. Può lasciare perplessi la realtà di megachiese come la texana Lakewood Church, che per riuscire a riunire ogni domenica le 10-15 mila persone venute ad ascoltare il predicatore evangelico Joel Osteen ha comprato un'arena sportiva dalla squadra di basket degli Houston Rockets. Possono incuriosire fenomeni editoriali come The Purpose Driven Life, un libro del Pastore Rick Warren rimasto per mesi in testa alle classifiche delle vendite, sulla scia del successo di un predicatore che gestisce un network di quarantamila chiese e ha le porte aperte alla Casa Bianca o negli uffici più influenti del Senato. Pensiero Religioso Quel che è certo è che l'America del nuovo millennio sta venendo ridisegnata dall'attività e dal pensiero fortemente influenzati dall'11 settembre della galassia delle denominazioni cristiane. Billy Graham e suo figlio Franklin hanno un effetto importante sulla vita di milioni di americani. Pastori come il pentecostale T. D. Jakes sono alla guida di "imperi della fede" che controllano grosse fette del mercato discografico o cinematografico. La fortissima immigrazione ispanica (in buona parte di impronta cattolica) sta dando ai latinos e ai loro leader religiosi sempre maggiore voce anche nella vita politica americana. Alla Casa Bianca siede uno dei presidenti che più di ogni predecessore, nella storia recente, ha apertamente indicato in Dio la sorgente e l'ispirazione del proprio operato. Non è un caso che George W. Bush abbia affidato negli anni scorsi il compito di scrivere i propri discorsi a Michael Gerson, un ex giornalista che ne condivide la fede e le radici cristiane fin dai tempi in cui il futuro presidente era Governatore del Texas. I discorsi di Gerson molto spesso tradiscono, come loro fonti, le conversazioni intavolate alla Casa Bianca con personalità come padre Richard John Neuhaus, un luterano convertito al cattolicesimo che Bush ha indicato come la persona «che mi aiuta ad articolare i temi religiosi». Sarà la storia a giudicare le scelte fatte dall'amministrazione Bush in tema di politica estera e di intervento nelle questioni del Medio Oriente, del Golfo, dell'Asia Centrale. Quel che è certo è che a partire dall'11 settembre il fattore religioso ha avuto un suo peso non secondario nel rafforzare la convinzione dei repubblicani al potere che i concetti di democrazia e libertà siano la soluzione alle ripetute crisi mediorientali. Da anni, dai tempi della presidenza di Jimmy Carter dopo i traumi del Vietnam e del Watergate, i democratici hanno rinunciato alla loro fiducia di un tempo nell'ideale della democrazia da esportare nel mondo. Sono stati i repubblicani, fin dall'epoca di Ronald Reagan, ad averne fatto il loro cavallo di battaglia e con George W.Bush, sulla scia dell'attacco terroristico, questa linea politica ha assunto le dimensioni (e anche gli aspetti controversi) che oggi conosciamo.

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