Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:11

Macron in Libano…

 

Dopo la prima visita a Beirut seguita all’esplosione del 4 agosto, Emmanuel Macron il primo settembre è tornato in Libano. A nessuno è sfuggita la simbologia del gesto, legata alla data segna il centenario della nascita del Grande Libano. Durante la sua prima visita il presidente francese aveva promesso un nuovo patto politico e l’implementazione di riforme che avrebbero rimesso in sesto il Paese. Le proposte francesi hanno trovato spazio in una bozza, distribuita durante l’incontro di martedì alla Résidence des pins a tutti i capi dei blocchi politici libanesi e i cui punti principali sono stati riportati dal Al Jazeera.

 

Sostanzialmente la proposta prevede la formazione di un nuovo governo e dell’invio di aiuti internazionali condizionati: i finanziamenti arriveranno se in una quindicina di giorni verrà formato un gabinetto e se in seguito saranno attuate riforme; in caso contrario potrebbero essere imposte delle sanzioni.

 

In un’intervista a Politico, lo stesso Macron (che è poi volato anche in Iraq) ha ammesso di aver fatto una «scommessa rischiosa» sul Libano, conscio dello scarso peso politico che ha la Francia nella partita geopolitica per il Paese dei cedri, nel quale si scontrano forze interne ed esterne al Paese, e consapevole che un eventuale fallimento screditerebbe ancor più l’immagine della Francia come potenza diplomatica nel Mediterraneo. Un soft power già deteriorato a causa della scommessa sbagliata in Libia, commenta l’Orient-Le Jour. Se quindi il Libano occupa una posizione così importante nell’agenda francese è perché «il Libano è l'ultimo campo del Vicino e Medio Oriente dove la Francia ha una reale influenza senza dover ricorrere ai suoi alleati, un distretto francofono in una regione in subbuglio. Perché la mappa libanese consente di posizionarsi su diverse importanti questioni geopolitiche tra cui lo stallo americano-iraniano, la guerra in Siria o le tensioni greco-turche nel Mediterraneo orientale».

 

La sensazione dei libanesi è che non stia succedendo niente di nuovo, al contrario, gli avvenimenti odierni ricalcano quelli di una storia già raccontata. Lunedì infatti è stato scelto come primo ministro Mustapha Adib, ex ambasciatore libanese in Germania, un personaggio sconosciuto alla maggior parte della popolazione, parte di quell’establishment che le manifestazioni di piazza hanno contrastato per mesi, una figura eletta per «guadagnare tempo», scrive Le Monde.

 

L’elemento di novità sta nell’esplicito coinvolgimento di Hezbollah nel processo politico. Le Figaro sottolinea che dalla nascita del Partito di Dio nel 1982, martedì 1° settembre per la prima volta un presidente francese ha avuto uno scambio diretto con uno dei suoi membri, in questo caso Mohammed Raad, capo del blocco parlamentare di Hezbollah. Anche se internazionalmente riconosciuto come un gruppo terroristico, per Macron Hezbollah fa parte dell’equazione politica del Libano e non lo si può non coinvolgere. Ed Hezbollah ha accolto positivamente l’iniziativa francese, mostrandosi flessibile e accomodante con le proposte francesi.

 

Secondo Avvenire, «anche gli Usa si fanno sentire a Beirut. […] La Francia sa di poter giocare le sue carte solo nel breve tempo che ci separa dalle elezioni americane. Poi le manovre torneranno in mano al padrone della Casa Bianca. Due mesi in cui la sorte del Libano rimarrà appesa a un filo. Anche per questo il patriarca maronita non si stanca di ripetere che la neutralità del Libano è l’unica via di salvezza per il Paese. Chi lo ascolterà?»

 

Infatti il patriarca maronita Beshara Rai, promotore di una rinnovata neutralità libanese, ha chiesto «un governo che sappia dire di essere il solo che può dichiarare guerra e controllare armamenti, e che non accetterà una riformulazione delle “quote confessionali».  Da tempo Hezbollah rivendica un terzo delle quote parlamentari, profilando una divisione tra sunniti, sciiti e cristiani. Oltre a non rispecchiare la volontà della popolazione, questo sistema genererebbe un governo debole manipolato da attori esterni, tra cui l’Iran. La soluzione presentata dal patriarca Rai è allora l’unica possibilità per rimettere in sesto il Libano e dare una nuova possibilità ai libanesi evitando che la Storia si ripeta.

 

…Di Maio in Libia

 

La settimana scorsa in Libia è stato annunciato l’ennesimo cessate il fuoco, e martedì 1° settembre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è volato a Tripoli per sostenere il recente accordo e incontrare Fayez al-Serraj e Aguila Saleh, presidente del parlamento di Tobruk che ha sostituito il generale Khalifa Haftar nei negoziati con il GNA.

 

Tra gli obiettivi, quello di consolidare le relazioni economiche e commerciali con la Libia e riprendere il filo delle relazioni che era stato interrotto con la caduta di Gheddafi. Spiega infatti il Post che tra i temi trattati figurano anche «i progetti che erano stati annunciati nell’accordo firmato nel 2008 tra il dittatore libico Muammar Gheddafi e l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, tra cui l’aeroporto internazionale della capitale e la cosiddetta “autostrada della pace”: opere mai completate per via della fine del regime di Gheddafi». Se quindi si riuscisse a stabilizzare l’area nordafricana, l’Italia potrebbe inserirsi con le proprie imprese nel processo di ricostruzione del Paese, soprattutto visto che, dopo l’Algeria, la Libia è il principale partner commerciale di Roma in Africa.

 

Di Maio però arriva in Libia in un momento delicato per il Paese, cioè dopo che a Tripoli si sono svolte proteste contro al-Serraj. La popolazione ha dato sfogo alla propria frustrazione per le precarie condizioni di vita e la presenza imperante delle milizie. Per tutta risposta al-Serraj ha sospeso il ministro degli Interni Fathi Bashaga, che secondo alcune fonti sembra addirittura aver organizzato e fomentato le proteste contro il governo internazionalmente riconosciuto.

 

Ma i problemi per l’Italia sono altri, ricorda il Foglio, «perché il nuovo ministro della Difesa libico, Ali Namroush, è molto filoturco e vorrebbe che il contingente dei soldati italiani presente in Libia lasciasse il paese». Infatti, all’interno del compound dell’aeroporto di Misurata sono stazionati, dal 2016, 300 soldati italiani, che ora la Turchia e la Libia verrebbero ospitare da qualche altra parte (in aree meno sicure) perché quell’aeroporto si trova in una posizione strategica per Ankara.

 

Sebbene in base alle dichiarazioni di Di Maio, l’Italia voglia tentare di inserirsi nel teatro di scontro libico rilanciando i rapporti commerciali tra i due Paesi, bisogna ricordarsi che anche in questo senso l’attore da sconfiggere (o almeno scalfire) è proprio, scrive Formiche, la Turchia che ha siglato con il governo al-Serraj «accordi nel settore militare, economico ed energetico».

 

Ma soprattutto, come scrive il Washington Post, la stabilità della Libia sembra essere ancora lontana perché il Paese è attraversato da una serie di lotte intestine tra milizie e scontri tra personalità politiche che cercano la supremazia, approfittando di questo momento di relativa tranquillità per cercare di prendere il potere.

 

Tregue che nascondono rivalità nel Golfo

 

Israele e Hamas hanno recentemente siglato una tregua, dopo una serie di scontri al confine della Striscia di Gaza nelle settimane scorse. Spiega Formiche: «L’ultima escalation aveva visto la milizia palestinese lanciare palloni incendiari al di là del confine (più raramente razzi), a cui Israele ha risposto con una serie martellante di bombardamenti mirati. Si va avanti dal 6 agosto, quando la prima mini-mongolfiera imbottita di materiale esplosivo è caduta in un campo all’interno dello stato ebraico. Quattrocento sono stati gli incendi causati, danneggiando diverse aree coltivate. Israele ha colpito invece con mezzi militari pesanti».

 

Ma la cosa più interessante da notare della vicenda è il contesto di mediazione in cui è stata siglata la tregua. L’accordo infatti è stato mediato dal qatariota Mohammad al-Emadi, a capo della Commissione per la ricostruzione di Gaza, spiega il New York Times, e Doha ha garantito un «cash infusion» per la realizzazione di una serie di progetti, anche se per il momento non si dispone di ulteriori dettagli. Secondo Celine Touboul, co-direttrice della Fondazione per la cooperazione economica (un think tank israeliano) «In parole povere, vogliono essere un giocatore», i qatarioti, «ed essere un giocatore per loro significa dimostrare che possono contribuire a cambiare la situazione e a calmarla».

 

La vicenda è interessante perché si inserisce nel più ampio accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele di qualche settimana fa, concretizzatosi poi con il primo volo tra Tel Aviv e Abu Dhabi di cui le varie parti hanno fatto grande pubblicità per mostrare al mondo che le cose stanno procedendo per il meglio nella regione. Scrive però Haaretz che «tutta la fanfara di una pseudo-pace tra gli Emirati e Israele», servita più a livello interno ai vari leader politici, Trump e Netanyahu, per rafforzare la loro posizione che in entrambi i casi gode di un certo discredito (mentre gli Emirati sperano di guadagnarci in F-35), ha oscurato una vera azione di pace, cioè quella del Qatar.

 

In realtà questa serie di accordi si inserisce nella più ampia rivalità tra Doha e Abu Dhabi. Come spiega Kristian Ulrichsen, i due piccoli regni negli ultimi anni hanno cercato di occupare lo spazio geopolitico prima in mano al Cairo, Damasco e Baghdad, ora sempre più irrilevanti nella regione. Un contrasto che ha raggiunto l’apice con il blocco del Qatar del 2017, azione che sta venendo valutata anche dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Si tratta quindi parzialmente di dinamiche già viste in passato, ma allo stesso tempo si stanno anche delineando nuove forme di cooperazione, perché Israele si dimostra in grado di dialogare con entrambe le fazioni, mentre il Qatar cerca di emergere e avere un ruolo di primo piano nonostante il proprio isolamento.

 

Il nuovo governo tunisino ottiene la fiducia    

 

Dopo una lunga seduta parlamentare nella notte tra il 1° e il 2 settembre, il Parlamento tunisino ha accordato la fiducia al nuovo governo del primo ministro Hichem Mechichi con 134 voti a favore e 67 contrari. Nonostante le recenti tensioni con al-Nahda è stato proprio il partito d’ispirazione islamica a sostenere il nuovo governo, seguito dalle forze di Qalb Tounes e dal Gruppo di Riforma Nazionale. A votare contro resta invece il Partito Destouriano Libero di Abir Moussi.

 

Dopo le dimissioni di Fakhfakh a metà del luglio scorso, la scelta del nuovo premier era passata al presidente della Repubblica Kais Saied, che ha incaricato Mechichi di formare il nuovo governo. Come sottolinea Agenzia Nova, «Mechichi incarna come lo stesso Saied il ruolo di outsider». Tecnocrate indipendente e professore di diritto, il nuovo premier è entrato in politica nel gennaio 2020 con l’incarico di consigliere per gli affari giuridici del presidente della Repubblica, per poi esser nominato Ministro degli Interni sotto Fakhfakh in febbraio. Anche la composizione del nuovo governo, presentata il 25 agosto, conferma un nuovo trend nella politica tunisina, che sembrerebbe allontanarsi sempre più dai partiti: la nuova squadra è infatti formata da tecnici e personalità indipendenti e, come rileva Jeune Afrique «il governo Mechichi è quello di Kais Saied».

 

Tuttavia, nelle ultime settimane sembra che il fronte Saied-Mechichi non sia più così compatto. L’imposizione da parte di Saied, il giorno prima della presentazione del governo, di Walid Zidi come ministro della cultura sembra aver creato nuove tensioni tra il presidente della Repubblica e il capo del governo, che non condivideva questa nomina. Alla luce di questi sviluppi, l’inatteso sostegno al governo Mechichi da parte di diversi gruppi parlamentari, a partire da al-Nahda, che si è più volte smarcata dalle decisioni di Saied, potrebbe definire nuovi equilibri politici. «Saied voleva un primo ministro ai suoi ordini, la presidenza è intervenuta profondamente nella composizione del governo, e Mechichi è finito per rivoltarsi e andare a cercare il sostegno nei partiti per affermarsi come capo di governo», ha spiegato a Le Monde l’esperto del Carnegie Hamza Meddeb. Ciononostante, vista la frammentazione del Parlamento e le numerose sfide che il nuovo esecutivo si trova ad affrontare, è probabile che il nuovo premier sarà costretto di volta in volta a cercare il consenso di cui ha bisogno, con il rischio di rallentare le riforme di cui la Tunisia necessita fortemente.

 

In una frase

 

14 persone sono sotto processo per gli attentati terroristici del 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, che nei giorni scorsi ha ripubblicato le vignette controverse sull’Islam e la figura di Maometto (BBC).

 

Il potere in Mali è stato preso dal colonnello Assimi Goita, mentre i Paesi della regione hanno chiesto una «transazione civile immediata» (Jeune Afrique).

 

A Beirut continuano le ricerche per eventuali altri sopravvissuti all’esplosione del 4 agosto (Middle Easy Eye).

 

Anche il Bahrein permetterà ai voli tra Israele ed Emirati di attraversare il proprio spazio aereo (Al Jazeera).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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