Nato il 1° settembre del 1920, sin dal suo atto fondativo il Paese dei Cedri ha dovuto fare i conti con contrasti interni. Oggi la sua stessa esistenza è in dubbio, ma forse la sua storia non è ancora finita

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:10

A prescindere dalla reazione delle diverse parti libanesi, la proclamazione, il 1° settembre 1920, dello Stato del Grande Libano da parte del Generale Gouraud, Alto Commissario del Mandato francese, non rappresenta solo l’atto fondativo del Paese dei Cedri così come lo conosciamo oggi, ma è anche il suo primo riconoscimento come «soggetto di diritto internazionale»[1]. È comunque opportuno cercare di capire la posizione degli abitanti rispetto a questa nuova entità. Questo giovane Stato, che la maggioranza dei cristiani, i maroniti in particolare, considerano il coronamento della loro storia e la «realizzazione del loro sogno»[2], per la maggioranza dei musulmani, soprattutto i sunniti, non è altro che il risultato della «divisione artificiale della regione»[3] secondo gli appetiti delle potenze europee.

 

Con il concorso di diversi fattori interni ed esterni, la corrente libanese riuscì a realizzare il ​​suo progetto nazionale a scapito sia della corrente araba, che auspicava l’integrazione del Libano in una Siria araba unita e indipendente sotto la sovranità della famiglia hashemita, sia di quella siriana, che rivendicava una Siria unita ma decentralizzata sotto la tutela francese. In effetti, «l’identità libanese» nasce nella Mutasarrifiyya del Monte Libano (un’unità amministrativa all’interno dell’Impero ottomano tra il 1861-1915) e successivamente viene promossa e difesa dal Consiglio amministrativo del Monte Libano e dalla Chiesa maronita tra il 1918 e il 1920. Con il sostegno di questa Chiesa, l’identità nazionale, in seguito denominata «libanismo», è andata consolidandosi durante i primi due decenni del XX secolo con intellettuali «libanesi» come Paul Noujaim, Youssif al-Sawda (fondatore dell’Alleanza libanese), Tannous Khayrallah, Antun Gemayel, Khairallah T. Khairallah, Michel Zakkur (fondatore della rivista al-Ma‘rad) e Charles Corm (fondatore della Revue Phénicienne). Queste aspirazioni e rivendicazioni dei «libanesi» convergono con gli interessi della potenza mandataria, la Francia. Tale convergenza trova tutto il suo simbolismo nel discorso tenuto dal generale Gouraud dai gradini della sua residenza nella Foresta dei Pini a Beirut in occasione della dichiarazione del 1° settembre 1920, alla presenza del patriarca maronita e del mufti sunnita. Salutando le due bandiere e gridando «Viva il Grande Libano, viva la Francia», Gouraud pone l’accento finale sull’«unione dei due popoli, di Francia e del Libano, la cui immagine sarà rappresentata dalla bandiera tricolore diventata, con il cedro al centro, la bandiera nazionale dei Libanesi»[4]. Trasformando lo Stato del Grande Libano nella «Repubblica libanese», la Costituzione del 1926 avrebbe aggiunto un fondamento ulteriore. Ciononostante, il dibattito tra i nazionalisti libanesi, prevalentemente cristiani, e quelli arabi, prevalentemente musulmani, resta acceso.

 

Facendo risalire le sue origini alla civiltà fenicia e ai tempi degli emiri Fakhreddine (1591-1635) e Bashir (1767-1850), i nazionalisti libanesi difendono la loro nuova entità nei suoi «confini naturali». Da parte loro, i nazionalisti arabi vogliono che le regioni «staccate dalla Siria e annesse al Monte Libano» il 1° settembre 1920 tornino alla Siria. Seguendo l’esempio dei loro omologhi in Siria, che il 27 ottobre 1927 fondano il «Blocco nazionale», i nazionalisti arabi del Libano creano un forum a Beirut, la «Conferenza della Costa», il cui obiettivo principale è lottare per l’unione con la Siria araba. Nel 1936 – anno del trattato franco-siriano (9 settembre 1936) e di quello franco-libanese (13 novembre 1936) – si forma una «corrente mediana», che unisce figure di entrambi i campi decise a combattere per l’indipendenza del Libano. È un anno che segna una svolta importante nella storia politica del Libano. Mentre in Francia è in corso un cambiamento politico in seguito alla vittoria del Fronte popolare alle elezioni del giugno 1936 e all’avvento al potere di un governo presieduto da Léon Blum – fatto che porterà alla ratifica dei due trattati – il panorama politico libanese sperimenta a sua volta dei cambiamenti profondi. Durante questo periodo, la politica libanese è segnata principalmente dal duello tra due campi, presieduti da due leader maroniti: Emile Eddé e Bechara al-Khoury. Il primo, capo del Blocco nazionale [libanese], allievo dei gesuiti che ha studiato Giurisprudenza in Francia e ha conseguito un dottorato a Aix-en-Provence, è fedelissimo ai legami tra il Libano e la Francia e alla cultura francese. Il secondo, capo del Blocco costituzionale, laureato in Giurisprudenza, è meno legato a un’alleanza forte con la Francia e più rivolto verso la cultura arabofona. Dopo l’ascesa, il 20 gennaio 1936, del suo rivale Emile Eddé alla presidenza della Repubblica libanese, al-Khoury capisce che per avere un giorno la possibilità di sconfiggere il suo concorrente e accedere alla presidenza è necessario tendere la mano ai cittadini che si trovano al di là della sua comunità maronita.

 

D’altra parte, il patriarca maronita Antun ‘Arida, che risiede a Bkerke, cittadella del maronitismo e del libanismo, ed è garante delle storiche relazioni franco-libanesi, comincia non solo a prendere le distanze dalle autorità mandatarie in seguito a diverse crisi politiche ed economiche (in particolare la crisi del tabacco nel 1935), ma anche a contemplare la possibilità dell’indipendenza e dell’emancipazione dalla tutela francese. Dopo aver incontrato i leader del Blocco nazionale siriano, ‘Arida annuncia il suo desiderio di mettere fine alle controversie tra libanesi e nazionalisti arabi e costruire nuovi rapporti tra il Libano e la Siria, fondati sulla «solidarietà» e sul «pieno accordo» tra due entità distinte. Si noti che una delle conseguenze più dirette dei due trattati è il riconoscimento esplicito da parte dei nazionalisti arabi siriani del confine siro-libanese, ciò che mette fine a qualsiasi pretesa di unire alla Siria le regioni a maggioranza musulmana annesse al Monte Libano nel 1920. Da quel momento, i nazionalisti arabi del Libano si rendono conto che la loro causa è persa. Delusi dai loro fratelli siriani, i sunniti del Libano si trovano di fronte al fatto compiuto: il Libano esiste definitivamente nei confini dichiarati nel 1920. Nonostante qualche manifestazione di rifiuto, espresso a volte con la violenza (a Tripoli e a Beirut nell’ottobre 1936), a volte attraverso aspre controversie tra riviste (come quella tra la sunnita Bayrūt e la maronita al-Bashīr), i sunniti finiscono per rassegnarsi e accettare la realtà.

 

È in questo contesto che emerge Kazim al-Solh, un giovane avvocato sunnita, intellettuale, proprietario del quotidiano Al-Nidā’ e cugino di Riad al-Solh, nazionalista arabo e futuro capo del primo governo indipendente nel 1943. In un articolo pubblicato nel marzo del 1936 sul quotidiano al-Nahār e intitolato “La problematica dell’unione e della separazione del Libano”[5], Kazim esprime la sua opposizione alle risoluzioni della Conferenza della Costa, organizzata il 10 marzo 1936 da Salim ‘Ali Salam, che esigevano lo smantellamento dello Stato del Grande Libano. Kazim spiega ai suoi correligionari e ai nazionalisti arabi che l’unico modo per guadagnare i cristiani, e in particolare i maroniti, alla causa araba è accettare lo Stato del Grande Libano, lottando insieme a loro per la sua indipendenza, condizione necessaria al raggiungimento dell’unione tra i vari Stati arabi e non solo tra il Libano e la Siria. Insistendo sulla necessità di separare la questione dell’«unione» dall’«islamismo», Solh auspica che questa unione sia «discussa apertamente» da tutti i popoli interessati, compresi i cristiani del Libano, e «approvata all’unanimità». Nel luglio 1936 un altro giovane leader sunnita, Salah Bayhum, scrive una «lettera al quotidiano francofono di Beirut, L’Orient, invitando a un’unione effettiva di tutte le comunità, necessaria per la sicurezza» dell’esistenza nazionale in Libano. Ottenendo una buona accoglienza da parte di molti cristiani e molti musulmani, la proposta lanciata da Solh rappresenta il fondamento per un accordo tra libanesi di confessioni diverse, diventando nel 1943 la pietra angolare della «Formula libanese»[6]. Due anni dopo, nel 1938, sarà un maronita, Yussif al-Sawda, a raccoglierne il testimone. Riuscendo a coinvolgere un buon numero di intellettuali, politici e giornalisti, al-Sawda assume l’iniziativa di costruire un «patto nazionale libanese». Dopo diversi incontri, il 6 settembre 1938 viene redatto e adottato un testo di dieci articoli. Nel testo compaiono diversi principi, i più importanti dei quali sono «l’indipendenza assoluta del Libano nei suoi attuali confini [1920]», «l’uguaglianza fra tutti i libanesi», «il rafforzamento dei legami tra il Libano e gli Stati arabi», «l’unificazione della cultura nazionale», «l’adozione dell’arabo come unica lingua ufficiale» e «il pieno esercizio delle libertà costituzionali».

 

È sulla base di questo Patto che i due leader libanesi Bechara el-Khoury e Riad Solh si accordano nel 1943 prima di vincere insieme le elezioni legislative. In seguito a questa vittoria, il 21 settembre el-Khoury è eletto presidente della Repubblica libanese. Come previsto dal loro accordo, Khoury sceglie Riad Solh come primo ministro con un compito ben preciso: liberare la Costituzione libanese da tutti gli articoli che sanciscono il Mandato francese. L’8 novembre 1943 la Camera adotta all’unanimità la proposta di emendamento della Costituzione presentata dal governo Solh, con voto separato per ciascun articolo.

 

Dopo aver ottenuto l’indipendenza il 22 novembre 1943, il governo libanese si adopera per il riconoscimento arabo e internazionale del Libano. Tuttavia, questo giovane Stato si trova a fare i conti con molte sfide regionali, tra cui il disaccordo tra i Paesi arabi per la leadership del mondo arabo; la proclamazione dello Stato di Israele da parte di David Ben Gurion il 14 maggio 1948, con la conseguente sconfitta degli eserciti arabi e l’esodo di oltre 250.000 palestinesi verso il territorio libanese; l’ascesa al potere delle dittature militari nella maggior parte dei Paesi arabofoni.

 

Sebbene riesca a salvaguardare la sua natura liberale e democratica, entrando nella cosiddetta «età dell’oro» tra il 1943 e il 1968, a partire dal 1969 il Libano arranca sotto il peso di complicazioni interne ed esterne, diventando un’arena non solo per i conflitti altrui ma anche per le controversie tra i suoi stessi figli.

Fino a oggi, questo piccolo Paese, che tristemente festeggia il suo primo e forse ultimo centenario, non ha mai trovato il proprio equilibrio. Frutto di trent’anni di malgoverno (1990-2020) ad opera di una classe politica mediocre e criminale (un’alleanza tra principi della guerra, ex capi di milizie, uomini d’affari e di mafie e alcuni leader religiosi), il Libano è uno Stato fallito.

 

Nel 2020 i libanesi si dividono tra due tendenze. C’è chi considera il proprio Paese un errore storico, destinato a sfociare molto presto in un’ulteriore frammentazione confessionale, nel fallimento economico e infine nella caduta dello Stato; e chi invece crede ancora nella solidità dell’identità libanese e nel fatto che questo Paese sia il prodotto di una volontà di convivenza espressa dal patto nazionale. Rimangono vivi gli echi dell’espressione di una delle grandi figure della famiglia arabista dei Solh, Taqi al-Din al-Solh: «Il Libano è l’unico Paese arabo costruito come entità indipendente dalle altre entità arabe per volontà di una parte dei suoi figli [cioè i cristiani] e col consenso dell’altra parte [cioè i musulmani]»[7]. Volontà e consenso non sono forse due pilastri del concetto di «nazione moderna»? Non si avvicinano forse a quel «plebiscito di tutti i giorni» che, secondo Renan, è una condizione essenziale dell’esistenza di una nazione e l’espressione di un’identità?

 

Ciò detto, forse la storia di questo piccolo Paese non è ancora finita e questo «Libano piccolo e bello», secondo l’espressione del fondatore del Cenacolo libanese Michel Asmar (1914-1984), resta un progetto da realizzare quanto a identità, nazione, popolo, Stato e regime.

 

 

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[1] Antoine Khayr, Le Moutaçarrifiyyat du Mont-Liban, Tesi di dottorato in Giurisprudenza, Facoltà di Giurisprudenza e Scienze economiche, Université Saint-Joseph, 1968, pp. 14-15. 
[2] Le Concile Patriarcal Maronite, III dossier « L’Eglise maronite et le monde d’aujourd’hui », testo « L’Eglise maronite et la politique », Bkerke, 2006.
[3] Nadine Picadou, La question libanaise ou les ambiguïtés fondamentales, in Gérard D. Khoury (a cura di), Sélim Takla 1895-1945. Une contribution à l’indépendance du Liban, Karthala-Dar an-Nahar, Paris-Beyrouth 2004, p. 41.
[4] Edmond Rabbath, La Formation historique du Liban politique et constitutionnelle. Essai de synthèse, Publications de l’Université libanaise, Beyrouth 1986, p. 373.
[5] Kāzim al-Sulh, Mushkilat al-ittisāl wa al-infisāl fī Lubnān (Il problema dell’unione et della separazione in Libano), Bayrūt, [s.e], 1937; Fondi Maurice Gemayel conservati all’Università Saint-Esprit di Kaslik – Libano. 
[6] Ahmad Baydūn, Al-Sīgha, al-mīthāq, al-dustūr (La formula, il patto, la costituzione), Dār al-Nahār, Bayrūt 2003.
[7] Taqī al-Dīn al-Sulh, Al-Nidā’ al-Qawmī ‘aqīda wa nidāl (L’appello nazionale: dottrina e lotta) in Les Conférences du Cénacle, n°2, 1954, Beyrouth, pp. 71-99.
 

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